Era la sera del tredici maggio del duemila. Era un sabato. E Marco andò a letto nervoso e demoralizzato. Perché Il giorno successivo si sarebbe concluso il campionato di calcio. E la conclusione stava prendendo, per il secondo anno di seguito, i contorni di una vera beffa.
La sua Lazio si presentava con un distacco di due punti dalla prima in classifica. Era seconda per la seconda volta consecutiva alla penultima giornata. E in Marco era ancora vivo il ricordo della beffa dell’anno precedente. Per questo e per quello che era successo la domenica prima in Juventus Parma, Marco riponeva poche speranze negli ultimi novanta minuti da giocare contro una Reggina che non aveva nulla da chiedere al torneo. I tre punti erano già in cascina mentre la Juventus sarebbe scesa in campo al “Curi” di Perugia di Carlo Mazzone, romano e romanista. I proclami di Luciano Gaucci, presidente umbro, che garantiva trasparenza e impegno della sua squadra mal combaciavano con quello che era successo l’anno prima, quando il Perugia lasciò campo, vittoria e Scudetto al modesto Milan di Zaccheroni.
Per quello, e per tante altre cose, Marco non ci credeva più.
Lui, nato l’anno dopo lo scudetto del settantaquattro, era diventato Laziale per tradizione di famiglia. Come spesso succede. E, da Laziale, ne aveva viste e sentite di tutti i colori, arrivando a credere che tifare Lazio era una più un atto di fede che una questione di tifo e basta.
In fondo, lui era cresciuto negli anni ottanta. Anni sbagliati, o forse no, per diventare tifoso della Lazio.
“Cosa resterà di questi anni 80?” cantava Raf. E proprio gli anni ottanta regalarono alla Lazio poche gioie e molti dolori.
Appena superata la metà del decennio, infatti, la Lazio, appena salvata dal fallimento grazie all’imprenditore Gianmarco Calleri, fu coinvolta nello scandalo scommesse. O meglio, per dirla tutta, solo un suo giocatore, Claudio Vinazzani, risultò indagato. Ma la responsabilità oggettiva della società portò ad una retrocessione in serie C, trasformata, successivamente, in una penalizzazione di nove punti. Che, per molti, aveva il sapore di una retrocessione posticipata.
Sembrava l’inizio della fine.
Fu invece il trampolino per ritornare a vivere.
Salvatasi dai meno nove alla fine di una stagione drammatica, l’anno successivo ottenne la promozione in serie A. E da quel momento, finalmente, arrivò quella stabilità che tanto era mancata nelle ultime due decadi, fatte più di nadir che di zenit.
All’inizio degli anni novanta, poi, un imprenditore romano e Laziale di nome Sergio Cragnotti rilevò la società e iniziò un processo di crescita che portò la Lazio a lottare con le più importanti squadre d’Europa, grazie a investimenti sempre più importanti.
Per Marco, si aprirono così nuovi orizzonti da tifoso. Finalmente, il suo amare a prescindere cominciò a raccogliere i meritati frutti.
Arrivarono una Coppa Italia vinta contro il Milan, una finale di Coppa Uefa persa contro l’Inter a Parigi, arrivarono la Coppa delle Coppe vinta contro il Maiorca e la Supercoppa Europea vinta contro il Manchester United. E Marco fu sempre presente. Nel trionfo e nella sconfitta.
Ma mancava lo Scudetto. E sembrava fosse irraggiungibile. Perché era troppo difficile sconfiggere un certo potere italiano. Marco ne era sempre più convinto. Per questo, dopo aver salutato la foto del padre scomparso due anni prima poggiata sul comodino, spense la luce deluso e amareggiato. Lui così ottimista e idealista si scontrava per il secondo anno di fila con il cinismo dei poteri forti. Quello che era successo la settimana precedente a Torino era il segnale che faceva il paio con l’arbitraggio dell’anno prima a Firenze. Era tutto deciso. Non c’era nulla da fare. Non c’era spazio per la Lazio in Italia. Questa, dall’alto dei suoi venticinque anni, era la sua più grande sconfitta. Decise, così, di andare incontro a Morfeo, il Dio del Sonno però. Non il fantasista talentuoso scuola Atalanta che già si stava perdendo in un Calcio più grande di lui.
Non era sveglio.
Di questo ne era certo. I contorni della stanza erano sfocati, travisati da un’atmosfera onirica. Era nel letto ma non era sveglio quando due uomini sulla trentina gli si avvicinarono. I contorni del viso e del corpo erano sfocati. Non riusciva a vedere chi fossero. Però si avvicinavano verso di lui. E si fermarono a bordo letto. Quando si fecero più nitidi e vivi. Se così si potevano definire. Uno era biondo, l’altro era moro. Entrambi avevano i capelli un po’ lunghi e mossi. Marco non sapeva che pensare.
Si alzò con la schiena sul cuscino. Cercò di accendere la luce sul comodino ma il comodino non c’era più. C’era solo il letto e la stanza non aveva pareti. Sembrava uscita da una canzone di Gino Paoli.
“Chi siete?” chiese spaventato Marco.
Non riusciva a inquadrare il loro viso.
“Ciao Marco, siamo tuoi amici…”- il biondo aveva un accento milanese che lo infastidiva un po’.
“…e siamo venuti per raccontarti due storie…le nostre storie…”- il moro si esprimeva in dialetto romagnolo.
Ma i volti erano ancora troppo poco definiti.
“…sicuramente ci conosci, di nome o di fama…purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista…” – proseguì il biondo.
“…e siamo qua perché ti abbiamo sempre seguito a distanza…ci ha colpito la tua passione, il tuo modo di amare la tua squadra del cuore, in modo puro e totale….”- il moro lo stava coinvolgendo.
“…ma sono un po’ di giorni che ti vediamo giù…triste…svuotato…nervoso…”- il biondo continuava.
“…siamo qui per ricordarti che il vero laziale non molla mai…il vero laziale ne ha passate tante…troppe…e se sta ancora qui, a combattere e a sperare che domani succeda qualcosa di speciale…romantico, direi…è perché ha dentro una forza morale che non l’abbandona mai…”- il moro proseguiva.
“Abbiamo conosciuto un signore qualche tempo fa dove siamo ora…è un uomo serio ma di spirito, un Laziale come te…ci ha chiesto di seguirti…si chiama Mario, è il tuo Papà…”
Marco si commosse. Non sapeva cosa pensare ma stranamente si fidava.
Parlavano di Lazio. Conoscevano il suo papà morto due anni prima per colpa di un brutto male. Bastava quello.
“Vieni con noi…” – gli dissero all’unisono.
Marcò si alzò dal letto. Si avvicinò a loro. Una luce fortissima investì la stanza. Come il flash enorme di una macchinetta fotografica. Quando la luce scomparve, la stanza non c’era più.
C’era, però, lo Stadio Olimpico. Pieno di gente. E c’erano maglie attillate, pantaloni a zampa d’elefante e colletti extralarge.
Era il dodici maggio del millenovecentosettantaquattro. Era il giorno di Lazio Foggia. Il giorno dello scudetto.
Marco si girò verso l’angelo biondo.
“Ma tu, quindi, sei Luciano…Luciano Re Cecconi…”
“Si…sono io…” – e i lineamenti presero forma. Mostrando quel viso semplice ma tenace. Simpatico ma deciso.
Sì, era Luciano Re Cecconi. “Cecco Netzer” come lo avevano ribattezzato i tifosi, perché con il suo dinamismo e la sua chioma bionda ricordava il mediano dell’allora fortissima Germania Ovest, Gunter Netzer.
Era Luciano Re Cecconi. L’idolo del suo Papà e di tutti i Laziali. Colui che, complice un destino maledetto passò dalle pagine della cronaca sportiva a quelle della cronaca nera nel giro di poche ore.
Era Luciano Re Cecconi, l’angelo biondo, e portò Marco ad assistere al suo più grande trionfo sportivo.
“La prima storia che ti voglio raccontare è la storia di un Sogno spezzato e rimandato all’anno successivo. La storia di una squadra pazzesca. E di un uomo eccezionale…”
“Tommaso Maestrelli…” lo interruppe Marco.
“Si…un uomo eccezionale…era stato il mio allenatore a Foggia e lo seguii con entusiasmo nella sua avventura a Roma…tutti si ricordano lo Scudetto ma il vero capolavoro lo facemmo l’anno prima, con la Lazio appena promossa dalla serie B. Una cavalcata fantastica terminata sul più bello, all’ultima giornata, quando “qualcuno” decise di vendere il proprio onore e di consegnare lo Scudetto alla Juve…”
“Già…la Juve…come quest’anno…”
“Già…però cosa abbiamo fatto noi, l’anno dopo? Non mollammo…anzi…eravamo ancora più carichi e vogliosi di prenderci ciò che ci era stato tolto…eravamo imbattibili…pazzi furiosi e nemici in allenamento, un blocco unico la domenica in campo con il Mister che sapeva consigliarci e guidarci e che ci trattava come figli…beh…forse a Giorgio concedeva qualcosa di più…però andava bene così…tutti per uno e uno per tutti…come quella volta che, sotto di un goal contro il Verona alla fine del primo tempo, decidemmo di non fare l’intervallo e di aspettare in campo, già schierati ai nostri posti, gli avversari. Per intimidirli. Non ci fu partita: finì quattro a due in rimonta. Quello era lo spirito che animava quella squadra. Questo è il senso di ciò che voglio dirti, io, oggi: non dare per scontato il risultato di domani. Quello che è stato lo scorso anno non conta più. Domani sarà un’altra partita. Vai sicuro e orgoglioso della tua fede e dei tuoi colori e credi sempre…Sempre…e ora goditi lo spettacolo…” chiosò Luciano.
Marco si trovò in Tribuna Tevere. Proprio all’altezza del suo posto allo stadio ogni domenica. Al suo fianco Luciano e l’angelo moro di cui non riusciva a vedere i lineamenti e che se ne stava in silenzio.
Re Cecconi era spettatore in tribuna e giocatore in campo. La Lazio aveva bisogno della vittoria per centrare il trionfo. Il Foggia, l’ex squadra di Maestrelli e Luciano si giocava la permanenza in serie A. Strani incroci che solo ai Laziali potevano capitare. Lo stadio era stracolmo. Pronto ad assaporare, per la prima volta sulla sponda biancoceleste, il sapore dello Scudetto.
La Lazio di Maestrelli era la versione italiana del tanto famoso e glorioso calcio-totale di scuola olandese. Si schierava con Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi e Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico. Mischiava tecnica e dinamismo. Furore e classe. Era invincibile.
Chinaglia era il leader e il centravanti di sfondamento. Viveva per il goal e voleva sempre il pallone. A costo di litigare con tutti i compagni di squadra. Nella vita di tutti i giorni, andava in giro con una 44 Magnum. Era l’Ispettore Callaghan dell’area di rigore avversaria.
D’Amico era il genio e la sregolatezza, giovane promessa del calcio italiano, aveva un talento pari alla sua anarchia in campo come nella vita.
Re Cecconi era il dinamismo e il coraggio. Colui che abbinava quantità e qualità senza mai fermarsi un attimo. Era il miglior poster di questa squadra. E l’unico facilmente individuabile grazie al suo casco biondo.
Marco vide il rigore di Chinaglia al sessantesimo. Vide uno stadio esplodere. Si emozionò come mai gli era successo. E pensò che lì, da qualche parte tra gli ottantamila spettatori, c’era suo padre Mario, che tante volte gli aveva raccontato di quel giorno e di quante emozioni uno scudetto poteva portare.
E pianse ancora di più. Nel rivivere emozioni del passato che sembravano così attuali.
Quando l’arbitro Panzino di Catanzaro fischiò la fine la catarsi emotiva esplose in tutta la sua bellezza. Il sogno si avverava. Luciano, il mister Maestrelli e la squadra tutta ci avevano creduto fino alla fine. Un sogno nato sulle ceneri della delusione dell’anno precedente.
Un sogno che si era avverato perché, da veri laziali, non avevano mollato mai.
Marco si girò verso Luciano. Lo abbracciò mentre le lacrime ancora scendevano copiose e lo ringraziò per avergli fatto vivere quelle emozioni.
Luciano ebbe una smorfia di dolore.
“Non stringere forte, piccolè…” – lo redargui sofferente – “…non ti dimenticare che…” e gli mostrò, spostando la maglietta che gli copriva il petto, quella ferita che fu la fine di tutto.
Quella tragedia che interruppe per sempre la corsa di “Cecco Netzer”.
Ci fu di nuovo un flash. Un bagliore di luce accecante.
Quando tutto svanì, rimase il cielo e un ambientazione di montagna.
C’erano un campo sportivo con al centro i giocatori della Lazio. Attaccati alle reti, c’erano i tifosi. E un brusio del quale Marco riuscì a intuire solo alcune sporadiche parole: “Con nove punti di penalizzazione, era meglio la retrocessione diretta…”
Era l’estate dell’ottantasei. I Mondiali in Messico erano passati da poco. Paolo Rossi era un ragazzo come Venditti.
Marco e i suoi due angeli si trovarono a Gubbio, sede del ritiro della Lazio.
Sulle tribunette del campo sportivo, mischiati tra gli altri tifosi, Marco si apprestò a conoscere l’angelo moro.
“Ciao Marco, la seconda storia di oggi è dedicata a un gruppo di ragazzi e al suo allenatore che, quando il Destino sembrava li avesse condannati a una morte calcistica sicura, ebbero la forza di schienare le avversità e di riportare in alto l’aquila biancoceleste….è la storia di una rimonta e di una vittoria all’ultima giornata…”
I contorni del viso si delinearono.
“Ma tu sei Giuliano Fiorini…l’eroe dei meno nove…” – Marco non credeva ai suoi occhi.
“Si, sono Giuliano…ma in questa storia di eroi ce ne sono molti…a partire dal nostro Mister…”
“Eugenio Fascetti…”
“Già…un grande uomo…lo vedi ora in mezzo al campo? Sai cosa ci disse quel giorno?”
“No…”
“Beh…oggi è il giorno dopo il verdetto definitivo del processo legato al calcio scommesse…la CAF ci ha appena revocato la retrocessione ma ci ha inflitto nove punti di penalizzazione…” – Giuliano si accese una sigaretta. Fece un tiro e tossì. – “…maledetto tabacco…” – ma continuò a fumare e a raccontare – “…il Mister ci riunì al centro del campo…c’erano sgomento e preoccupazione in tutti noi…ma bastarono poche parole…semplici ed efficaci per compattarci…”
“Cosa vi disse il Mister?” – Marco era affascinato da quella situazione. Sembrava stesse vivendo nel “Canto di Natale” di Dickens. Era consapevole della realtà onirica. Ma ci si trovava bene. Era sereno.
“Ci disse le fatidiche parole: ‘Chi vuole resti…chi non se la sente può andar via subito…chi resta, però, combatte fino alla fine.”
“E voi?”
“Rimanemmo tutti…” – rispose Giuliano. Fece l’ultimo tiro e poi gettò la sigaretta per terra.
“Quella era una Lazio che aveva due palle così…” – e ne mimò la consistenza e la grandezza – “…c’erano il Mister e il suo secondo, Giancarlo Oddi…te lo conosci bene, eh, Lucià?”
Luciano sorrise e annuì. Erano stati compagni di squadra in quella squadra dello Scudetto.
“C’erano Piscedda e Gregucci, Magnocavallo e Terraneo, c’erano il muto Acerbis e il timido Poli, Marino, Caso, Mandelli, Esposito, Podavini, Camolese…eravamo mestieranti del calcio, nessun fenomeno, ma eravamo uomini veri. E se la Lazio domani si va a giocare lo Scudetto e non scomparve nelle paludi della serie C…beh…ragazzì…un po’ è merito anche nostro…”
“Già…” – Marco sorrise – “…quella Lazio me la ricordo…io avevo undici anni…mi ricordo il goal di Poli contro il Campobasso negli spareggi a Napoli che ci salvò…”
“Si…ma prima di quel goal…ci fu un’altra partita…” – lo corresse Giuliano.
“Lazio Vicenza…” – rispose Marco.
“Già…quel Lazio Vicenza…vieni…andiamo…”
E di colpo l’ambientazione cambiò.
I tre si ritrovarono di nuovo allo Stadio Olimpico. Stesso posto in Tribuna Tevere di poco prima.
Lo Stadio era gremito in ogni posto. Anche il papà di Marco c’era. Da qualche parte in curva Nord. Come sempre.
Ma stavolta l’aria che si respirava era diversa. Non c’era l’attesa del trionfo. C’era la paura della serie C. Con la certezza di sparire per sempre dal calcio che contava.
Gli ottantamila dell’Olimpico lo sapevano.
E tifarono.
E tremarono.
E sperarono.
La Lazio indossava quella che, probabilmente, rimarrà la maglia più bella della sua storia: un’aquila blu stilizzata al centro su sfondo bianco e celeste. A pensarci ora, con il senno di poi, poteva sembrare una Fenice che rinasceva dalle ceneri. Una maglia profetica.
Ma gli ottantamila che erano lì. Quel giorno. Il ventuno giugno del millenovecentottantasette non potevano ancora saperlo.
La partita sembrava stregata. La Lazio dominò e tentò il goal in ogni modo possibile. Ma il portiere del Vicenza, Dal Bianco, sembrava insuperabile.
Erano le sei del pomeriggio. Mancavano otto minuti alla fine delle speranze. Otto minuti all’inizio del dramma sportivo. Ogni miracolo del portiere vicentino veniva accompagnato da urla di disapprovazione e sconforto.
Quando.
Quando Podavini decise di provare il tiro della disperazione. La palla era indirizzata fuori dallo specchio della porta ma, in agguato, sul secondo palo, c’era Giuliano Fiorini, bomber d’altri tempi e vecchio filibustiere dell’area di rigore. L’uomo del Destino. Uno che si accendeva la sigaretta alla fine delle partite e non disdegnava un goccetto di whisky.
Giuliano arpionò la palla con il destro e se la fece scorrere tra le gambe. Si girò su stesso mandando fuori tempo l’avversario e, di punta, come solo chi ha attraversato in lungo e largo le aree di rigore avversarie, facendo a sportellate per conquistare spazio e presenza, mise la palla tra palo e portiere.
Un goal sceso dal cielo.
Fu il delirio biancoceleste.
La corsa di Giuliano Fiorini sotto la Curva Nord impazzita di gioia rimase nella storia della Lazio come il momento più catartico di sempre.
Giuliano rientrò in campo come se la partita fosse finita in quel momento. Ciondolante. Con il corpo invaso da un’adrenalina infinita.
Era il re, in quel momento.
E aveva un popolo intero in adorazione per lui.
Marco in tribuna si commosse, esultò come se non sapesse come sarebbe andata a finire. Come se fosse tutto in diretta. E abbracciò Giuliano che piangeva rivedendo se stesso.
Un corto circuito emotivo che solo i sogni potevano creare.
“Ma la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?” – la frase storica di Marzullo pronunciata alle tre di notte su Raiuno lo svegliò.
Era sicuro di aver spento la televisione prima di dormire. E, invece, la trovò accesa. E fu strano che a svegliarlo fu quella frase banale e sempre uguale. Leit motiv di tanti sonnambuli italiani.
Marco si trovò nel suo letto. Nella sua stanza. Il comodino vicino con sopra la foto di suo papà.
Nessuna traccia dei suoi angeli. Di Luciano e Giuliano.
Accese la luce.
E c’era qualcosa di strano sui muri.
Insieme ai poster di Salas e Mancini, di Nesta e Veron, di Nedved e Almeyda, idoli del presente, c’era qualcosa di diverso.
C’erano due poster che prima non c’erano.
Uno, in bianco e nero, ritraeva Luciano Re Cecconi, palla al piede e sguardo deciso.
L’altro era dedicato a Giuliano Fiorini, a colori, mentre si apprestava ad andare sotto la Nord dopo il goal contro il Vicenza.
Marco sorrise e capì.
Potenza dei sogni.
Si rimise a dormire in attesa del Sole della domenica.
Una domenica di mezzo maggio.
Arrivò allo Stadio due ore prima.
La Curva Nord avrebbe scioperato per un quarto d’ora per protestare contro un finale di campionato che puzzava di bruciato.
Gli “Irriducibili” avevano organizzato, addirittura, il “funerale del calcio italiano” con tanto di bare e processione che partiva da Piazza della Libertà.
Marco no.
Prima di quella notte si sarebbe unito anche lui ai tanti manifestanti per protestare. Ma quella notte, quella strana notte, gli portò consiglio e lo convinse a vivere quella giornata a petto in fuori e con orgoglio. Fiducioso nella sua squadra e in quel Destino che spesso si era divertito a scherzare con i colori biancocelesti. Ma che spesso, proprio quando sembrava tutto deciso, veniva sconfitto dall’Aquila biancoceleste e da quello stellone che proteggeva dall’alto il popolo Laziale.
Parcheggiò il Booster vicino al Ministero degli Esteri e si diresse verso la Tribuna Tevere.
Il cappellino degli “Irriducibili” in testa, farcito delle spillette di molte squadre inglesi, i pantaloncini al ginocchio che rendevano vivibile un pomeriggio già estivo e, come maglietta, la scelta cadde sulla replica della maglia di Giuliano Fiorini che gli regalò lo zio Luciano per il compleanno, l’anno prima.
Era perfettamente identica, con lo sponsor “Cassa di risparmio di Roma” e il marchio “Tuttisport” in rosso, sul petto. Non l’aveva mai messa. La tirò fuori dal cassetto dove conservava tutte le maglie della Lazio e pensò che, mai come quel giorno, meritava di essere indossata.
Perché se si era arrivati al maggio del nuovo secolo a giocarsi lo scudetto era, soprattutto, grazie a chi, tredici anni prima, tirò fuori la Lazio dall’Inferno.
Lo stadio si riempì. La gente tifava ma era disillusa.
I tifosi, dopo una rimonta in cui la squadra aveva recuperato sette punti nelle ultime sette giornate a una Juventus stremata, avevano paura che sarebbe svanito tutto all’ultima giornata. Come l’anno prima. E non volevano vivere un nuovo Lazio Parma.
La partita viaggiava sulle ali della monotonia quando un mani in area di rigore calabrese, portò l’arbitro Borriello a fischiare il rigore per i padroni di casa.
Dal dischetto, Simone Inzaghi portò la Lazio in vantaggio.
Passarono pochi minuti e Pancaro venne atterrato dal terzino amaranto in area di rigore. Altro penalty. E stavolta si presentò sul dischetto Juan Sebastian Veron, il tuttocampista, che non fallì. Due a zero e partita archiviata.
Intanto, a Perugia, la Juventus non riusciva a mettere sotto un Perugia arcigno e mai domo. Il che alimentava le speranze dei più ottimisti. Che non erano tanti. Ma Marco era tra questi.
In caso di parità, Lazio e Juve si sarebbero giocate lo Scudetto allo spareggio.
Era il traguardo massimo a cui i Laziali aspiravano.
Ma stava per succedere qualcosa di strano ed epocale.
Alla fine del primo tempo, la radio diede la notizia che, a Perugia, si era scatenato il diluvio universale. Cosa da non crederci visto che a Roma e, in generale, in tutta Italia, c’era un Sole che spaccava le pietre.
Sembrava la nuvola dell’impiegato tanto cara a Fantozzi.
Era molto di più.
Marco sorrise e capì.
L’intervallo all’Olimpico durò trentacinque minuti, in attesa che ricominciasse anche il secondo tempo al “Renato Curi”.
La contemporaneità degli eventi garantiva la regolarità del campionato.
Ma a Perugia non smetteva di piovere e Pierluigi Collina, il miglior arbitro del mondo, mandato dal Palazzo a gestire una partita così problematica e delicata, si trovò a prendere la più importante e scomoda decisione sportiva della sua carriera.
I giocatori della Juve, guidati dal capitano Antonio Conte, spingevano l’arbitro a rinviare il match.
Intuivano che quella era una partita maledetta e non avevano in corpo più energie a sufficienza per portare a casa i tre punti.
La zebra sentiva il fiato dell’aquila sul collo.
Il Destino si apprestava a darle il colpo di grazia.
Nel secondo tempo, Diego Pablo Simeone, il Cholo, uno dei tanti leader di quella Lazio, fissò il risultato sul tre a zero. Le orecchie di tutti posero così l’attenzione su quello che stava accadendo a Perugia.
Per Marco e per i tifosi, ci fu, però, ancora il tempo di applaudire Roberto Mancini che, sostituito a pochi minuti dalla fine, diede l’addio al calcio giocato e fu portato sotto la curva a cavalcioni dal suo amico e compagno Attilio Lombardo. Erano le sedici e quarantanove.
Quando l’arbitro Borriello decretò la fine del match dell’Olimpico, quasi in contemporanea, Collina fischiò l’iniziò del secondo tempo dopo la sospensione di un’ora.
Il campo era ancora pesante.
Ma si doveva giocare. Non si sarebbe potuto fare altrimenti. Dopo quello che era accaduto la settimana prima.
Quando Alessandro Calori, stopperone grezzo e Capitano del Perugia infilò alle spalle di Van Der Sar il goal del vantaggio dei Grifoni, l’Olimpico esplose in un boato clamoroso.
In quel momento, con quel risultato, la Lazio sarebbe stata Campione d’Italia.
Marco cominciò a piangere.
Mentre tutti si abbracciarono speranzosi, Marco si chiuse nel suo silenzio scaramantico.
Fino al giorno prima non avrebbe mai pensato che sarebbe stato possibile un evento del genere.
Ma quella notte, e quel sogno, avevano cambiato tutte le sue convinzioni. Sportive e non.
Il campo di gioco dell’Olimpico fu invaso dai tifosi. Ma, con i cancelli aperti, molta gente raggiunse lo Stadio e l’effetto visivo fu quello di uno stadio strapieno in ognidove, in campo e sugli spalti.
Alle diciassette e quarantacinque, partì il collegamento audio con “Tutto il Calcio minuto per minuto”: Riccardo Cucchi era il profeta del verbo in arrivo da Perugia. La sua voce veniva emanata dagli altoparlanti dello Stadio in vivavoce.
Sembrava la scena di un sogno.
In tribuna, i commenti erano i più disparati.
Si passava dal “Nun ce credo…” al “Male che va, se pareggiano, andiamo allo spareggio…”
Marco non proferì parola. Ma piangeva e pensava.
Pensava al papà Mario e a quanto avrebbe voluto dividere con lui questo momento.
Pensava a Luciano e a Giuliano, angeli di un sogno di metà maggio.
E pensava che, finalmente, era giunta l’ora del trionfo.
Bisognava crederci sempre.
E così fu.
Quando Collina fischiò la fine delle ostilità a Perugia, erano le diciotto e zero quattro.
Riccardo Cucchi, fiero e solenne, decretava: “La Lazio è Campione d’Italia millenovecentonovantanoveduemila, la Juventus è stata battuta a Perugia per uno a zero dalla squadra di Carletto Mazzone…la linea all’Olimpico…”
Fu il trionfo.
Gente che piangeva.
Che si abbracciava.
Che non ci credeva.
Marco guardò verso il cielo e sorrise.
Sorrise ai suoi due angeli e al suo papà che lo avevano guidato da lassù.
E, colto da tanta emotività e da tanto entusiasmo, non si accorse che, nonostante lo Stadio scoppiasse e fosse pieno come un uovo, tre seggiolini intorno a lui erano rimasti sempre vuoti e non furono mai occupati per tutta la durata della partita.
Potenza dell’amore e di un sogno di una notte di metà maggio.