DIST(ANZI)OPIA

Marzo e aprile erano ormai trascorsi da qualche mese. Il Coronavirus era apparentemente, e improvvisamente, regredito a qualche sporadico caso. Ma lo show andava comunque avanti. Al Governo serviva per mantenere alta la paura nelle case e, soprattutto, nella testa, degli italiani. “Paura”, infatti, era il mood del Governo guidato da Giuseppe Conte, ormai diventato un vero e proprio sex symbol grazie al successo dell’account Instagram, “Le bimbe di Conte” (sempre più insistente era la voce che fosse una trovata propagandistica di Rocco Casalino). Il consueto appuntamento quotidiano con il bollettino della Protezione Civile delle 18, visto lo scemare dei casi, si era trasformato in un appuntamento domenicale fisso all’interno di “Domenica In”, “Tutto il virus minuto per minuto”, durante il quale Angelo Borrelli si collegava con gli inviati nelle varie regioni per commentare i dati settimanali di contagiati, deceduti e guariti. Il tutto con un sensazionalismo negativo condito da frasi come “il virus è sempre in agguato”, “non abbassiamo la guarda” e via discorrendo. L’uomo a capo della Protezione Civile era ormai un volto più familiare di Fiorello e Bonolis e girava voce, nelle segrete stanze della Rai, che sarebbe stato molto probabilmente lui a presentare il prossimo Festival di Sanremo. Le star della tv e dei social non erano più gli influencer, i cantanti e i presentatori, ma i virologi. Che ormai avevano abbandonato il loro ruolo specialistico per abbracciare tematiche più frivole e meno consone ai loro studi. E così, Roberto Burioni, vista la sua passione per il calcio e per la Lazio, era stato scelto per condurre su Sky insieme a Giovanni Rezza, suo contraltare romanista, “Il Derby ai tempi del Coronavirus”, ogni lunedì alle 22. Ilaria Capua era stata scelta da Mediaset per condurre tutti i giorni “Pomeriggio 5” al posto della D’Urso, Maria Rita Gismondo aveva soppiantato Benedetta Parodi nella diffusione delle ricette via cavo mentre Giovanni Maga aveva sostituito Alessandro Cattelan alla guida del suo famoso talkshow, ribattezzato per l’occasione “EPCM”. Le mascherine erano diventate un gadget più fashion che utile ma a cui nessuno rinunciava più. In commercio, si trovavano di tutti i tipi: di seta, in pile, di pelliccia, in Gore-tex, con lo stemma della propria squadra del cuore e c’era un sito che le faceva anche personalizzate. Da quando erano stati inventati i filtrini sostituibili da inserire in una speciale tasca interna, la mascherina non era più usa e getta ma un vero e proprio status symbol. Non c’era un brand che non si fosse buttato a capofitto nel business del volto coperto. Mancavano dieci anni al famoso “2030” descritto dagli Articolo 31 a fine anni 90 ma la realtà aveva di gran lungo superato la fantasia. Forse solo Ambra, primo Presidente donna, avrebbe potuto ribaltare la situazione. La serie A, dopo le polemiche vissute durante la pandemia, era ripartita ma negli stadi erano stati rimossi tutti i seggiolini che impedivano il mantenimento della distanza di sicurezza. E così, dopo un goal della propria squadra del cuore, non ci si poteva più abbracciare, pena il Daspo a vita ratificato sul posto dagli steward che vigilavano. Gli eventi musicali si svolgevano soltanto online. C’era il palco, la band, l’artista. Ma il pubblico assisteva da casa, in diretta, dopo aver pagato l’accesso alla piattaforma tramite carta di credito. A scuola avevano creato il doppio turno. Le classi erano state smezzate per mantenere il distanziamento obbligatorio per legge e un gruppo andava la mattina e un altro il pomeriggio. Tra i due turni, le classi venivano sanificate da cima a fondo. Per la spesa, i supermercati proseguivano tranquillamente con le disposizioni attuate ai tempi dell’isolamento coatto. Mentre i negozi si erano ormai trasformati in un mix tra una boutique e un ufficio postale. Accesso limitato. Clienti spesso ricevuti su appuntamento o gestiti attraverso un numeretto da prendere all’esterno del negozio e plexiglass divisori in cassa e tra i vari reparti per evitare ogni possibile contatto. Ah, già, i contanti erano stati eliminati e si poteva pagare solo con carte e bancomat. Mentre per bar, pub e ristoranti, obbligati come tutti al rispetto delle norme igieniche, aveva preso vita un pericoloso ma affascinante fenomeno che andava sotto il nome di “Distanzionismo”: nel retro di molti locali, infatti, erano state adibite sale a cui si accedeva solo tramite una parola d’ordine e nelle quali si potevano organizzare tavolate di trenta persone, per i ristoranti, oppure si poteva ordinare un caffè al bancone stando compresso tra una decina di altri avventori, per i bar, oppure guardarsi una partita della propria squadra del cuore, esultando e abbracciandosi a ogni goal, per i pub. Il tutto in barba a ogni disposizione governativa. Era un fenomeno sempre più diffuso, nato e sviluppatosi grazie a Telegram, che il Governo cercava di combattere in tutti i modi con una task force di agenti scelti chiamata “Gli Indistanziabili”. Era un periodo sociale ed economico molto buio. E la maggior parte della popolazione si era ormai arresa a tutto questo. Ogni tipo di nostalgia “storica” e canaglia era stato spazzato via. I rabbiosi anni ’70? Gli edonistici anni ‘80? I voluttuosi ‘90? I “macchenesannoiduemila”? “Gli anni d’oro del grande Real, gli anni di Happy Days e di Ralph Malph”? Macché. Tutti in Italia si sarebbero accontentati di tornare soltanto a pochi mesi prima. Al 2019. Ma mai come in quei giorni, il passato era stato così remoto. E, soprattutto, distante.

Qualcuno però cominciava a non essere d’accordo. E iniziava a pensare a come venirne fuori.

(1-continua)

IL GRANDE ROMANZO AMERICANO

La moglie raggiunge Steve a partita iniziata, dopo essere uscita dal lavoro. Ma non è poi così grave. Il baseball ha dei tempi così dilatati che arrivare dopo l’inno nazionale americano non è certo un problema. La moglie di Steve ci saluta cordialmente e si aggiunge al marito in quello che è, nel mio immaginario, l’archetipo del newyorkese: sorridente, entusiasta, gentile e disponibile ai limiti dell’incredulità. Per farci avere i biglietti della partita, da lui offerti, Steve ce li ha portati direttamente in albergo (“tanto domani sono a Midtown”). Ecco, per dirne una. E nemmeno ci conosce, questo è il bello. A lui basta solo il fatto di avere un grande amico in comune. Steve e la moglie sono rimasti colpiti dalla nostra lista delle cose da vedere. “Vivo a New York da più di sessant’anni e alcune cose non le ho viste nemmeno io”, ci confessa sorridendo. La moglie gli porta un panino per cena. E poi cominciano a parlare della loro giornata. Il baseball è così. Ti permette di vivere la partita e al tempo stesso di continuare a vivere. E tutto ciò è fantastico. Per questo in ogni momento della gara, puoi trovare gente nel museo degli Yankees o a prendere una birra. O a mangiare nei tavolini appositi dietro alle tribune. Poi Aaron Judge, il 99, quello definito da Steve “il più forte di tutta la MLB”, piazza un homerun. E noi assistiamo al primo fuori campo della nostra vita. Abituato da una vita allo stress di una partita di calcio, novanta minuti in cui non ti puoi permettere di staccare gli occhi dal campo perché il goal potrebbe arrivare da un momento all’altro, qui è tutto il contrario. Gente che arriva dopo. Gente che se ne va via prima. Mentre il baseball continua a esistere. Chiedo a Steve perché gli Yankees non hanno i nomi sulle divise mentre le altre squadre sì. “Semplicemente tradizione”, mi risponde apprezzando il mio spirito di osservazione. E mostrandomi la sua casacca assolutamente priva di qualsiasi nome. Poi gli chiedo del vecchio stadio. Se preferisce questo nuovo, bellissimo, moderno e celebrativo a quello buttato giù nel 2009. “Assolutamente quello vecchio”, mi dice con il sorriso malinconico di chi in quello che non c’è più ha passato i migliori anni della propria vita. Gli offro una birra per ripagarlo di tanta cortesia. E poi a metà partita, decidiamo di andare via perché il giorno dopo abbiamo un’altra giornata piena. Salutiamo Steve, la moglie. Ringraziamo per tutto quello che hanno fatto per noi. E usciamo dallo Yankee Stadium. Sentendoci, per una sera, un po’ più newyorkesi. Mentre il baseball continua a esistere all’interno dello stadio. Incurante del tempo che passa. E della gente che arriva. E della gente che se ne va.

21 GIUGNO 1987: SOLSTIZIO BIANCOCELESTE

Fiorini

È il 21 giugno del 1987, l’estate a Roma è esplosa in tutto il suo fragore e lo Stadio Olimpico è pieno in ogni ordine di posto. Ma chi è lì, quel giorno, non sta sperando di alzare al cielo la Coppa dei Campioni. No. Perché quel giorno, a Roma, sta andando in scena un vero e proprio dramma sportivo. Il cronometro del signor D’Elia di Salerno segna l’ottantaduesimo. Mancano otto minuti alla fine di Lazio Vicenza e i biancocelesti allenati da Eugenio Fascetti sono matematicamente retrocessi in serie C quando Antonio Elia Acerbis, soprannominato “Il muto” per la sua idiosincrasia a rilasciare interviste, dalla fascia sinistra, scodella un pallone in area di rigore vicentina…

Quando il 5 agosto del 1986, la CAF ribalta la sentenza di retrocessione della Lazio per lo scandalo calcioscommesse in serie C1 e la trasforma in una penalizzazione di 9 punti da scontare nella serie cadetta, sono in molti, laziali compresi, a pensare che quella sentenza posticipi soltanto di un anno una retrocessione inevitabile. Soprattutto nell’era dei due punti a vittoria.

E quando Eugenio Fascetti, neo allenatore biancoceleste, si ritrova al centro del campo di allenamento di Gubbio, sede del ritiro estivo, per cercare di compattare un gruppo che rischia di sciogliersi prima di iniziare, ancora non lo sa che, le parole pronunciate quel pomeriggio, diventeranno l’incipit di una della pagine più memorabili della Storia del Calcio Italiano: “Chi vuole resti. Chi non se la sente può andar via subito. Ma chi resta combatte fino alla fine.

Restarono tutti. Anche chi aveva le valigie già pronte per tornare a Roma.

…sul cross di Acerbis si avventa Angelo Adamo Gregucci, stopper roccioso con la faccia da bravo ragazzo, uno di quelli che a scuola, quando il ripetente di turno ti voleva rubare la merenda, arrivava sempre a difenderti e poi ti dava una pacca sulla spalla. L’Angelo biancoceleste, quel pomeriggio di giugno, si trova nell’area di rigore avversaria, in modo inversamente proporzionale al proprio ruolo, nel disperato tentativo di infrangere il muro alzato da Ennio Dal Bianco, ultimo baluardo vicentino, che quel pomeriggio arriva ovunque. Ovunque possano crollare le speranze laziali. Ma Angelo Adamo Gregucci viene anticipato e la palla finisce al limite dell’area di rigore, sui piedi del vicentino Lucchetti…

Recuperare nove punti di penalizzazione è difficile e iniziare bene il Campionato di Serie B, una palude sportiva dove è facile passare dal trionfo alla tragedia in un attimo, è fondamentale, ma la Lazio non riesce nell’impresa e la partenza è troppo soft, per non dire drammatica. Pareggio a Parma e sconfitta in casa con il Messina a undici minuti dalla fine. La prima vittoria arriva soltanto alla quarta giornata contro il Bologna, grazie a un 2 a 1 firmato da Magncavallo e Mandelli. Dopo otto partite, finalmente, il segno “meno” viene tolto dalla classifica e tutto appare più normale. Si comincia a parlare la stessa lingua delle altre squadre ma otto partite di ritardo sono tante. Anche se la squadra, che presenta un buon mix di giocatori esperti come Terraneo, Fiorini e Mimmo Caso e giovani promettenti come Gabriele Pin, Mandelli e Gregucci, ha tutto per centrare l’impresa.

…Lucchetti, al limite dell’area, svirgola il pallone e anziché spedirlo dall’altra parte del campo, lo consegna sui piedi di Esposito. La palla quel pomeriggio è infuocata come il Sole romano e pesa tanto quanto il respiro all’unisono dei 62000 dell’Olimpico. Esposito stoppa il pallone e potrebbe provare il tiro. Ma non lo fa. Allora guarda a destra e vede Gabriele Podavini, terzino destro dai piedi buoni e dai polmoni inesauribili, uno nato a Brescia ma Laziale dentro, dopo cinque anni di militanza con l’Aquila sul petto e nel cuore. Gabriele Podavini non ha paura di provare il tiro della disperazione. L’ennesimo. Perché ogni pallone calciato negli ultimi dieci minuti di una partita così è un pallone disperato. Calciato con il nodo in gola e con il fiato sospeso. E allora il “Poda” chiude gli occhi, carica il destro e prova il tiro della vita. Quello che può cambiare il Destino della sua squadra del cuore….

La Lazio di Mister Fascetti, sospinta da un pubblico incredibile che fa registrare una media di 35/40000 spettatori a partita, prende il ritmo giusto e viaggia a gonfie vele. La rabbia dei tifosi sugli spalti alimenta gli animi dei giocatori in campo in un unisono sportivo che lascia presagire traguardi molto più elevati che una semplice salvezza. Lo zenit della stagione laziale arriva alla ventottesima giornata, dopo la vittoria con il Cesena in casa, grazie a un goal del bomber Giuliano Fiorini, uno che ha attraversato, sorridendo e facendo a sportellate, le aree di rigore di tutte le categorie calcistiche. La Lazio, a dieci giornate dalla fine, è tredicesima con venticinque punti, ma se gli vengono sommati i nove di penalizzazione recuperati, i punti diventano trentaquattro. Gli stessi della Cremonese prima in classifica. Tenere a bada gli entusiasmi in una piazza carica di rabbia e d’amore come Roma è molto difficile. Eugenio Fascetti intuisce che il pericolo della facile esaltazione è dietro l’angolo e dichiara che “non siamo ancora salvi”. Il mister toscano conosce la serie B. E non si fida. Ma l’entusiasmo è difficile da frenare.

…Podavini vede partire il tiro e non crede ai suoi occhi. Proprio lui che ha calciato quel rigore pazzesco a Campobasso sotto l’incrocio dei pali a quattro minuti dalla fine, quando nessuno dei suoi compagni aveva il coraggio di andare sul dischetto. Lui che da quel giorno è diventato il rigorista della squadra. Lui, a cui il compagno meno esperto ha affidato le speranze di una svolta, lascia partire un tiro sbilenco, lento, che non arriva nemmeno in porta. Ma che finisce sui piedi di Giuliano Fiorini, che si è accampato in area di rigore, nell’attesa del pallone giusto…

Dopo la vittoria con il Cesena, i timori di Fascetti si avverano e la Lazio precipita in una crisi di risultati drammatica: infila tre pareggi consecutivi con Modena, Taranto e Sanbenedettese poi perde a Trieste e soprattutto in casa contro l’Arezzo a cinque minuti dalla fine. I due punti tornano grazie al successo sul Cagliari ma la sconfitta a Genova, il pareggio a reti inviolate in casa con il Lecce e, soprattutto, il crollo a Pisa per tre a zero alla penultima giornata, sbattono la Lazio sull’orlo del precipizio. Quel punto esatto in cui il confine tra il dramma e il sollievo, tra la disperazione e la speranza diventa labile. All’ultima giornata, la Lazio ha trentuno punti ed è penultima insieme al Taranto. Il Cagliari, con ventisei punti, è matematicamente retrocesso. Un punto sopra i Laziali e i pugliesi ci sono il Catania e il Vicenza, che, la domenica successiva, scende a Roma in un match da dentro o fuori. Da vita o morte. Alla Lazio serve una vittoria per continuare a sperare. Per continuare a vivere. Trentasette partite non sono servite a nulla. Ne servirà una trentottesima, e forse non basterà nemmeno quella, per scrivere il finale di un campionato drammatico.

…Giuliano Fiorini è con le spalle alla porta, appoggiato con il corpo al numero cinque Bertozzi, quando riceve sul destro il tiro infelice di Podavini…

Quella domenica, all’Olimpico non entra uno spillo, 62000 spettatori sono quelli ufficiali. Ma probabilmente sono molti di più. La Curva Nord, all’ultimo atto di una stagione al cardiopalma, espone uno striscione che è un grido di amore e di battaglia allo stesso tempo: “Noi con la Voce…Voi con il Cuore!”
Per sopravvivere serviranno entrambi, per novanta interminabili minuti.

…Giuliano Fiorini arpiona il pallone con il piede destro ma non lo stoppa. No. Giuliano Fiorini sa come si fa in quei casi. Il piede destro invita il pallone a passargli sotto le gambe. Un auto tunnel voluto che manda fuori tempo Bertozzi. Giuliano Fiorini si gira su stesso facendo perno proprio sul suo marcatore e si trova lì. A pochi metri dall’invalicabile Dal Bianco…

Al Vicenza basta un punto per salvarsi. E il catenaccio di quel pomeriggio, unito ai miracoli del suo portiere, eroe per un giorno, i tifosi della Lazio se lo ricorderanno bene. Per sempre. Lo Stadio è un inferno. I minuti passano e il fortino eretto dagli uomini guidati da Magni resiste. E resiste anche quando D’Elia espelle al sessantasettesimo il biancorosso Montani per doppia ammonizione. La Lazio è un toro ferito. Furiosa e poco razionale. Butta il cuore oltre l’ostacolo sospinta dai suoi tifosi che, minuto dopo minuto, vedono lo spettro della Serie C sempre più vicino. Sempre più grande. Il Campobasso pareggia a Messina, il Taranto vince con il Genoa. Alla Lazio serve una vittoria per arrivare a giocarsi la salvezza in uno spareggio a tre. Ma Lazio e Vicenza sono sullo zero a zero. La Lazio è in serie C e il Vicenza andrà allo spareggio. Fino all’ottantaduesimo. Quando Antonio Elia Acerbis, dalla sinistra, crossa un pallone in area di rigore. Angelo Adamo Gregucci salta di testa ma viene anticipato. Al limite dell’area, Lucchetti svirgola il pallone e lo consegna a Esposito che lo controlla e lo allarga a Gabriele Podavini. Il terzino di Brescia lascia partire un tiro sbilenco che finisce però sui piedi del numero undici biancoceleste, Giuliano Fiorini. Spalle alla porta, Fiorini controlla a seguire il pallone, si gira su se stesso e…

…c’è poco tempo per pensare in quei momenti. Giuliano Fiorini ha il pallone davanti a sé. Bertozzi si è girato su se stesso e sta per intervenire. Dal Bianco è pronto a coprirgli lo specchio. È una morra cinese calcistica dove vince chi ha più fame. Dove esulta chi ci mette il cuore. E il cuore di Giuliano Fiorini scende per un secondo dal petto e finisce nello scarpino destro. Solo per un istante. Quello più importante. Quello che cambia per sempre la storia di un giocatore, di un club e di un Popolo. Giuliano Fiorini si allunga in una spaccata sgraziata e decisiva. Anticipa Bertozzi e con la punta del piede destro colpisce il pallone che si insacca nell’angolino alla destra di Dal Bianco….

Subito dopo è solo catarsi. Lo Stadio Olimpico esplode in un boato innaturale. C’è chi sostiene che abbia sentito lo Stadio tremare, in quel momento.

…Giuliano Fiorini sorride, scavalca i cartelloni pubblicitari, evitando un fotografo davanti a sé e vola sotto la Nord, a raccoglierne l’abbraccio. A farsi ringraziare. Giuliano Fiorini viene sommerso dagli abbracci dei compagni. E’ stremato. Quando sta per tornare in campo, ha un sussulto. Si libera allora dalla morsa dei compagni, si rigira ancora verso la Nord, ed esulta di nuovo. Stavolta in modo rabbioso, con il pugno. È un’esultanza diversa, stavolta. Consapevole del gesto appena compiuto. È un gesto che sembra dire “Ce l’abbiamo fatta! Tutti insieme! Noi con voi!!

Il suo rientro in campo, abbracciato ad Acerbis, è lento. Lentissimo. Giuliano Fiorini guarda la Tribuna Monte Mario ed esulta con il braccio al cielo. Poi rientra sul prato verde. Felice, solitario e final. Indica la panchina dove sono i suoi compagni e il Mister Fascetti ed esulta anche in direzione loro. Con loro.

Mancano otto minuti ma la partita è mentalmente finita. Lo sanno tutti. La Lazio si andrà a giocare gli spareggi sul campo neutro del San Paolo di Napoli con Taranto e Campobasso.
Ma questa è un’altra storia.

…questa che avete appena letto invece è la storia di Giuliano Fiorini, la storia di una stagione pazzesca e la storia del goal che salvò la Lazio.

IO, RINO (29/10/1950-02/06/1981)

Che poi ripensandoci adesso, io avevo già capito tutto.

E quarant’anni fa, stavo quarant’anni avanti a tutti.

E ci ridevo su. Perché prima ci si poteva ancora ridere sopra. Adesso, invece, no.

Adesso uno come me, non avrebbe più senso.

Perché la realtà ha superato la satira.

Perché le viole sfioriscono ancora, ma nessuno fiorisce. Nemmeno tu. Che spendi, spandi e offendi. Da dietro una tastiera.

Perché mio fratello è figlio unico. Di genitori unici. Ma di spermatozoi multipli.

Perché il cielo è sempre meno blu e il rapido Taranto-Ancona non esiste più.

E perché Gianna con tutte quelle tesi non ci farebbe niente. Ci annaffierebbe solo le sue illusioni. E farebbe la part-time da Zara. Insieme ad Aida, che ha perso battaglie ed è scesa a compromessi. Per evitare la povertà.

Perché il vile maschio non resta e se ne va. Mentre una ragazza chiede aiuto e muore.

Perché, nessuno è più fedele. Escluso il cane.

Perché Berta filava. Berta chattava. Berta twittava.

E perché il Frosinone è venuto in Serie A ed è subito retrocesso. Ma forse con Chinaglia si sarebbe salvato.

Ma, soprattutto, perché ‘sto mondo nun s’arreggae più.

Ma io ve lo avevo già detto quarant’anni fa.

E ora ve lo tenete così.

“MA QUANTO CORRI, LEO?”

Il Mister è teso. Cerca di spronarci ma si vede lontano un miglio che non vede l’ora che finisca la partita. In un modo o nell’altro. Eppure noi siamo il Milan, la squadra più titolata d’Italia. Accanto a me ci sono ragazzi come Zlatan, Clarence, Massimo, Christian. Gente abituata a stare sotto pressione. E a vincere. Ma lui è Massimiliano Allegri. È un Mister senza la giusta esperienza. E noi lo sentiamo che sta per confrontarsi con un avversario più grande di lui. Il Barcellona. La squadra più forte del mondo. Dove gioca Leo Messi. Il giocatore più forte del mondo. Io sono Alessandro Nesta. E sono stato il difensore più forte del mondo.

Scendiamo in campo con ancora nelle orecchie le ultime parole del Mister: “È importante non prendere goal, ragazzi…”

Questo deve essere il nostro credo, oggi. Per noi che siamo cresciuti dominando, è un passo indietro. Mentale più che tattico. Perché noi siamo il Milan.

“…e mi raccomando il raddoppio di marcatura su Messi. È fondamentale.”

Fondamentale. Fondamentale. Fondamentale. E i suoi occhi attraversano i miei, quelli di Philippe, Antonio, Daniele, Massimo, Luca. Sei uomini. Dodici occhi per due gambe. Argentine e corte. Ma imprendibili.

Fino a qualche anno fa, lo avrei fermato da solo. Magari lasciandolo andare via per poi riprenderlo in scivolata. E pettinarmi subito dopo. Fino a qualche anno fa. Certo. Il tempo passa, però. Per tutti.

Entriamo a San Siro. C’è il pubblico delle grandi occasioni. Record assoluto di presenze. Ce lo ha detto il dottor Galliani prima del match. Ma quello non è un problema. Mi preoccupano solo quelle gambe argentine e corte.

Il Barcellona è perfetto nel suo blaugrana. Elegante e storico. Noi abbiamo la maglia bianca delle grandi occasioni e dei grandi trionfi. Quella degli Invincibili.

Suona l’inno della Champions League e mi guardo intorno. San Siro può far paura. Ti può uccidere ed esaltare. Io sono morto e risorto varie volte. Non mi fa più paura. È casa mia, ormai. E la mente vola via. A quel pomeriggio d’aprile di diciotto anni fa. Il campo di calcetto dove stavamo facendo una partitella di allenamento. Io, giovane, talentuoso difensore della Primavera laziale. E Paul Gascoigne. L’idolo di una tifoseria intera. Lui mi entra male. Duro. E si rompe tibia e perone. Io sto sotto shock. La Lazio e i Laziali perdono il suo idolo. Il giorno dopo, finisco su tutti i giornali. “Il giovane Nesta rompe Gazza”. Amen.

Salutiamo gli avversari. Incrocio i suoi occhi. Lui è un finto umile. Consapevole della propria forza e della propria superiorità. Mi saluta con il capo. Ci conosciamo già. Ma questo è un duello definitivo. Quelli di qualche mese fa erano solo scontri tra due squadre consapevoli di superare entrambe il girone a braccetto.

Ci sistemiamo in campo. Mi sistemo i capelli lunghi. Quei capelli che mi hanno accompagnato per una carriera. Mi abbraccio con Ambro. Cerco lo sguardo di Philippe. Scambio un cenno d’intesa con Antonini e con Bonera. Faccio il pollice a Christian in porta. Sono pronto. E dove non arrivo io, sono sicuro che arriverà un mio compagno.

A raddoppiare. Raddoppiare. Raddoppiare. Come vuole il Mister. L’arbitro fischia l’inizio. E il Barcellona comincia il suo giochetto di passaggi. Che mi snervano. Xavi, Keita, Xavi, Iniesta, Xavi, Busquets, Iniesta, Xavi. E palla a Messi che fa il primo scatto della sua partita. Veloce. Imprendibile.

“Ma quanto corri, Leo?”

Lo fermo non senza difficoltà. Passo la palla a Massimo. Mi pettino. E una è andata.

Attacchiamo noi. E la carriera mi passa davanti. La Lazio mi passa davanti. Finale di Coppa Italia, quattordici anni prima. Lazio contro Milan. Strano il destino. Abbiamo perso uno a zero all’andata con un goal di Weah all’ultimo minuto. Al ritorno, Albertini segna su punizione dopo pochi minuti dall’inizio del secondo tempo. Zero a uno. E tutti a casa. Poi, però, si accende il Mancio. Che è sempre stato come quegli amici più grandi che ti risolvono le situazioni più difficili e sanno sempre ciò che fare nei momenti di difficoltà. Mancio fa segnare Gottardi. Poi, Jugovic lancia Guerino che viene steso da Maldini. Calcio di rigore. Vladimir non sbaglia mai un colpo. Non per niente, lo chiamiamo “Mezzasquadra”. Lo Stadio diventa una bolgia. C’è un calcio d’angolo. Io vado in area di rigore. Anche se non ho mai segnato. C’è una mischia. Fuser prova a buttarla dentro. C’è una respinta, la palla resta lì. Arrivo io. E gonfio la rete. Capitano, io capitano. Che sarò, dopo quella sera. Esulto con il dito alzato e non ci capisco più niente. Diego alza la Coppa Italia al cielo. E settantamila tifosi la alzano con noi. È il primo trofeo di una lunga serie. Ma Xavi ruba palla. E io torno collegato a San Siro. Xavi, Iniesta, Busquets, Sanchez, Messi, Iniesta, Xavi. Poi Messi che riparte. Ma lo chiudiamo in due. Philippe e io. Il Mister ci dice bravi. Perché abbiamo chiuso bene gli spazi. Cominciamo a soffrirlo. Ma resta innocuo. Due per uno. Nemmeno al supermercato del calcio, fanno offerte così. Christian rilancia. Massimo salta di testa. Kevin Prince la prende e imposta l’azione. Io volo a Birmingham. Villa Park. Lazio contro Maiorca. Ultima finale di Coppa delle Coppe della Storia. Siamo uno pari. Bobo Vieri ha fatto un goal impossibile ma i rossi di Cuper hanno pareggiato poco dopo. Mancano pochi minuti alla fine. Quando Vieri si avventa su un pallone sporco e la prepara per Pavel. Che la infila all’angolo. E mi fa alzare l’ennesimo trofeo. Con la maglia gialla e nera.

Xavi, Iniesta, Busquets, Puyol, Dani Alves, Sanchez, Xavi. Non finiscono più. Keita, Iniesta, Messi, Iniesta, Xavi, Messi, Xavi. Messi. Messi. Messi. Mi fa male la schiena.

“Ma quanto corri, Leo?”

Gli tiro la maglia. È piccolo, veloce. Argentino. E imprendibile. Lo fermo insieme a Daniele. Lo fermo. E mentre passo la palla a Kevin Prince, ripenso a Montecarlo e al goal di Salas contro lo United. Siamo la squadra più forte d’Europa. Ci manca solo lo Scudetto. Io, Capitano di una squadra di Capitani. Sono cose che Capitano. Luca, Paolo, Nestor, Giuseppe, Sinisa, Matias, Diego Pablo, Juan Sebastian, Pavel, Roberto, Dejan, Marcelo, Alen. Carisma, tecnica, ego all’ennesima potenza. Mister Sven che miscela il tutto. Il trionfo è dietro l’angolo. Ma l’arbitro fischia la fine del primo tempo. Zero a zero. Abbiamo tenuto. Chiuso. Raddoppiato. E limitato i danni.

Tanti anni fa, il Milan di Capello ne fece quattro al Barcellona di Crujiff in finale di Coppa Campioni. Ora noi stiamo elemosinando uno zero a zero. E proteggendolo con le unghie. E siamo sempre il Milan e loro sono sempre il Barcellona. Loro erano sempre blaugrana e il Milan aveva sempre la maglia bianca.

Negli spogliatoi, il Mister ci fa i complimenti per la fase difensiva ma dice che dobbiamo essere più incisivi in avanti. Zlatan è nervoso. Vuole segnare a tutti i costi. E chiudere il suo conto personale con Guardiola.

Mentre il Mister parla, ripenso a quel giorno di Maggio. Ai tre goal alla Reggina. Al diluvio di Perugia. Al goal di Calori. All’Olimpico invaso e in estasi. A me che sono il Capitano dello Scudetto. Romano e Laziale. Il massimo della vita. Penso al Mister in lacrime che dice: “Si deve credere sempre”. Al trionfo di una vita. A noi nudi nello spogliatoio che saltiamo e cantiamo. Penso che un sogno così non ritorni mai più.

“L’arbitro fischia l’inizio del secondo tempo. E loro ricominciano. Lo chiamano “tiki-taka” ma sembra una goccia cinese. È una tortura lenta e costante. Xavi, Iniesta, Xavi, Busquets, Sanchez, Keita, Puyol, Alves, Xavi, Messi. E poi ancora Xavi, Iniesta, Busquets, Xavi. San Siro li applaude e li teme. Dottor Jeckyll sportivo e Mr. Hyde tifoso. Pubblico esigente e mai sazio di vittorie e trionfi.

Attacchiamo noi. Zlatan vuole lasciare il suo segno. La sua Zeta sulla partita. Mentre io ripenso al Derby. Non ai quattro derby consecutivi. Non alla punizione di Veron. No. A “quel” Derby. E a quella difesa a tre mai provata. A Dino esterno di centrocampo. A noi che ci guardiamo intorno stupiti. A Montella che mi vola intorno tre volte in pochi minuti. E mi uccide. Lui piccolo aeroplano giallorosso. Io kamikaze biancazzurro. Mi costringe alla resa nell’intervallo. Scappo. E sbaglio. Fernando mi aggredisce. Io sto sotto shock. Ho la fascia al braccio. Ma non la sento mia. Non quel giorno. E sbaglio. Sbaglio. Sbaglio. Ma chi non sbaglia? Pure Messi sbaglia uno stop e la palla finisce in fallo laterale. Io ritorno sulla terra.

Leo è un UFO. Da vicino ancora di più. Mi costringe a scatti che il mio fisico non può più permettersi. La schiena mi chiede aiuto. Le gambe vanno da sole. Ma non ce la fanno a stargli appresso. Nonostante tutto lo contengo. Con la malizia e l’esperienza. E con l’aiuto dei compagni.

“Ma quanto corri, Leo?”

Lui mi guarda, capisce e sorride. Il Calcio è una lingua internazionale. Guardo il tabellone e vedo che mancano cinque minuti. Zero a zero. Non abbiamo segnato. Ma non abbiamo nemmeno preso goal. Questo era il nostro obiettivo.

Proviamo l’ultimo affondo. E io mi ritrovo al 31 di agosto del 2002 a Formello. Manca poco alla fine del calcio mercato. Mi chiama il nostro Direttore Sportivo. Sono stato venduto per salvare la Lazio. Salvare la Lazio. Salvare la Lazio.

Shock.

Rewind.

Montella che mi uccide. Lo Scudetto del 2000. La Supercoppa con lo United. La Coppa delle Coppe. La Coppa Italia e il mio goal. La fascia di Capitano. L’esordio in serie A. L’infortunio di Gascoigne. La prima maglia biancoazzurra. La mia vita a ritroso. Tutta davanti in pochi secondi.

Non posso rifiutare. Devo accettare. Per forza. La Lazio è in crisi.

Io al Milan. Hernan all’Inter.

Piango.

Finisce un Amore.

Inizia un lavoro.

E mentre Messi prova l’ultimo allungo della sua partita, trovo la forza chissà dove per fermarlo. Gli tolgo la palla. San Siro mi applaude. Passo la palla a Kevin Prince. E mi sistemo i capelli dietro le orecchie. La schiena mi urla per il dolore. Non ce la fa più. Leo corre troppo. E come lui, corrono troppo in tanti. Me ne rendo conto oggi. Di fronte alla squadra più forte del Mondo. Dico basta. Oggi. Il mio corpo me lo chiede. Me lo urla.

L’arbitro fischia la fine della partita. Zero a zero.

Missione compiuta.

Ancora una volta.

Contro il più forte del mondo.

Perché io sono Alessandro Nesta.

Il difensore più forte del mondo.

Ed ero il Capitano della mia Città.

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZO MAGGIO

Era la sera del tredici maggio del duemila. Era un sabato. E Marco andò a letto nervoso e demoralizzato. Perché Il giorno successivo si sarebbe concluso il campionato di calcio. E la conclusione stava prendendo, per il secondo anno di seguito, i contorni di una vera beffa.

La sua Lazio si presentava con un distacco di due punti dalla prima in classifica. Era seconda per la seconda volta consecutiva alla penultima giornata. E in Marco era ancora vivo il ricordo della beffa dell’anno precedente. Per questo e per quello che era successo la domenica prima in Juventus Parma, Marco riponeva poche speranze negli ultimi novanta minuti da giocare contro una Reggina che non aveva nulla da chiedere al torneo. I tre punti erano già in cascina mentre la Juventus sarebbe scesa in campo al “Curi” di Perugia di Carlo Mazzone, romano e romanista. I proclami di Luciano Gaucci, presidente umbro, che garantiva trasparenza e impegno della sua squadra mal combaciavano con quello che era successo l’anno prima, quando il Perugia lasciò campo, vittoria e Scudetto al modesto Milan di Zaccheroni.

Per quello, e per tante altre cose, Marco non ci credeva più.

Lui, nato l’anno dopo lo scudetto del settantaquattro, era diventato Laziale per tradizione di famiglia. Come spesso succede. E, da Laziale, ne aveva viste e sentite di tutti i colori, arrivando a credere che tifare Lazio era una più un atto di fede che una questione di tifo e basta.

In fondo, lui era cresciuto negli anni ottanta. Anni sbagliati, o forse no, per diventare tifoso della Lazio.

“Cosa resterà di questi anni 80?” cantava Raf. E proprio gli anni ottanta regalarono alla Lazio poche gioie e molti dolori.

Appena superata la metà del decennio, infatti, la Lazio, appena salvata dal fallimento grazie all’imprenditore Gianmarco Calleri, fu coinvolta nello scandalo scommesse. O meglio, per dirla tutta, solo un suo giocatore, Claudio Vinazzani, risultò indagato. Ma la responsabilità oggettiva della società portò ad una retrocessione in serie C, trasformata, successivamente, in una penalizzazione di nove punti. Che, per molti, aveva il sapore di una retrocessione posticipata.

Sembrava l’inizio della fine.

Fu invece il trampolino per ritornare a vivere.

Salvatasi dai meno nove alla fine di una stagione drammatica, l’anno successivo ottenne la promozione in serie A. E da quel momento, finalmente, arrivò quella stabilità che tanto era mancata nelle ultime due decadi, fatte più di nadir che di zenit.

All’inizio degli anni novanta, poi, un imprenditore romano e Laziale di nome Sergio Cragnotti rilevò la società e iniziò un processo di crescita che portò la Lazio a lottare con le più importanti squadre d’Europa, grazie a investimenti sempre più importanti.

Per Marco, si aprirono così nuovi orizzonti da tifoso. Finalmente, il suo amare a prescindere cominciò a raccogliere i meritati frutti.

Arrivarono una Coppa Italia vinta contro il Milan, una finale di Coppa Uefa persa contro l’Inter a Parigi, arrivarono la Coppa delle Coppe vinta contro il Maiorca e la Supercoppa Europea vinta contro il Manchester United. E Marco fu sempre presente. Nel trionfo e nella sconfitta.

Ma mancava lo Scudetto. E sembrava fosse irraggiungibile. Perché era troppo difficile sconfiggere un certo potere italiano. Marco ne era sempre più convinto. Per questo, dopo aver salutato la foto del padre scomparso due anni prima poggiata sul comodino, spense la luce deluso e amareggiato. Lui così ottimista e idealista si scontrava per il secondo anno di fila con il cinismo dei poteri forti. Quello che era successo la settimana precedente a Torino era il segnale che faceva il paio con l’arbitraggio dell’anno prima a Firenze. Era tutto deciso. Non c’era nulla da fare. Non c’era spazio per la Lazio in Italia. Questa, dall’alto dei suoi venticinque anni, era la sua più grande sconfitta. Decise, così, di andare incontro a Morfeo, il Dio del Sonno però. Non il fantasista talentuoso scuola Atalanta che già si stava perdendo in un Calcio più grande di lui.

Non era sveglio.

Di questo ne era certo. I contorni della stanza erano sfocati, travisati da un’atmosfera onirica. Era nel letto ma non era sveglio quando due uomini sulla trentina gli si avvicinarono. I contorni del viso e del corpo erano sfocati. Non riusciva a vedere chi fossero. Però si avvicinavano verso di lui. E si fermarono a bordo letto. Quando si fecero più nitidi e vivi. Se così si potevano definire. Uno era biondo, l’altro era moro. Entrambi avevano i capelli un po’ lunghi e mossi. Marco non sapeva che pensare.

Si alzò con la schiena sul cuscino. Cercò di accendere la luce sul comodino ma il comodino non c’era più. C’era solo il letto e la stanza non aveva pareti. Sembrava uscita da una canzone di Gino Paoli.

“Chi siete?” chiese spaventato Marco.

Non riusciva a inquadrare il loro viso.

“Ciao Marco, siamo tuoi amici…”- il biondo aveva un accento milanese che lo infastidiva un po’.

“…e siamo venuti per raccontarti due storie…le nostre storie…”- il moro si esprimeva in dialetto romagnolo.

Ma i volti erano ancora troppo poco definiti.

“…sicuramente ci conosci, di nome o di fama…purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista…” – proseguì il biondo.

“…e siamo qua perché ti abbiamo sempre seguito a distanza…ci ha colpito la tua passione, il tuo modo di amare la tua squadra del cuore, in modo puro e totale….”- il moro lo stava coinvolgendo.

“…ma sono un po’ di giorni che ti vediamo giù…triste…svuotato…nervoso…”- il biondo continuava.

“…siamo qui per ricordarti che il vero laziale non molla mai…il vero laziale ne ha passate tante…troppe…e se sta ancora qui, a combattere e a sperare che domani succeda qualcosa di speciale…romantico, direi…è perché ha dentro una forza morale che non l’abbandona mai…”- il moro proseguiva.

“Abbiamo conosciuto un signore qualche tempo fa dove siamo ora…è un uomo serio ma di spirito, un Laziale come te…ci ha chiesto di seguirti…si chiama Mario, è il tuo Papà…”

Marco si commosse. Non sapeva cosa pensare ma stranamente si fidava.

Parlavano di Lazio. Conoscevano il suo papà morto due anni prima per colpa di un brutto male. Bastava quello.

“Vieni con noi…” – gli dissero all’unisono.

Marcò si alzò dal letto. Si avvicinò a loro. Una luce fortissima investì la stanza. Come il flash enorme di una macchinetta fotografica. Quando la luce scomparve, la stanza non c’era più.

C’era, però, lo Stadio Olimpico. Pieno di gente. E c’erano maglie attillate, pantaloni a zampa d’elefante e colletti extralarge.

Era il dodici maggio del millenovecentosettantaquattro. Era il giorno di Lazio Foggia. Il giorno dello scudetto.

Marco si girò verso l’angelo biondo.

“Ma tu, quindi, sei Luciano…Luciano Re Cecconi…”

“Si…sono io…” – e i lineamenti presero forma. Mostrando quel viso semplice ma tenace. Simpatico ma deciso.

Sì, era Luciano Re Cecconi. “Cecco Netzer” come lo avevano ribattezzato i tifosi, perché con il suo dinamismo e la sua chioma bionda ricordava il mediano dell’allora fortissima Germania Ovest, Gunter Netzer.

Era Luciano Re Cecconi. L’idolo del suo Papà e di tutti i Laziali. Colui che, complice un destino maledetto passò dalle pagine della cronaca sportiva a quelle della cronaca nera nel giro di poche ore.

Era Luciano Re Cecconi, l’angelo biondo, e portò Marco ad assistere al suo più grande trionfo sportivo.

“La prima storia che ti voglio raccontare è la storia di un Sogno spezzato e rimandato all’anno successivo. La storia di una squadra pazzesca. E di un uomo eccezionale…”

“Tommaso Maestrelli…” lo interruppe Marco.

“Si…un uomo eccezionale…era stato il mio allenatore a Foggia e lo seguii con entusiasmo nella sua avventura a Roma…tutti si ricordano lo Scudetto ma il vero capolavoro lo facemmo l’anno prima, con la Lazio appena promossa dalla serie B. Una cavalcata fantastica terminata sul più bello, all’ultima giornata, quando “qualcuno” decise di vendere il proprio onore e di consegnare lo Scudetto alla Juve…”

“Già…la Juve…come quest’anno…”

“Già…però cosa abbiamo fatto noi, l’anno dopo? Non mollammo…anzi…eravamo ancora più carichi e vogliosi di prenderci ciò che ci era stato tolto…eravamo imbattibili…pazzi furiosi e nemici in allenamento, un blocco unico la domenica in campo con il Mister che sapeva consigliarci e guidarci e che ci trattava come figli…beh…forse a Giorgio concedeva qualcosa di più…però andava bene così…tutti per uno e uno per tutti…come quella volta che, sotto di un goal contro il Verona alla fine del primo tempo, decidemmo di non fare l’intervallo e di aspettare in campo, già schierati ai nostri posti, gli avversari. Per intimidirli. Non ci fu partita: finì quattro a due in rimonta. Quello era lo spirito che animava quella squadra. Questo è il senso di ciò che voglio dirti, io, oggi: non dare per scontato il risultato di domani. Quello che è stato lo scorso anno non conta più. Domani sarà un’altra partita. Vai sicuro e orgoglioso della tua fede e dei tuoi colori e credi sempre…Sempre…e ora goditi lo spettacolo…” chiosò Luciano.

Marco si trovò in Tribuna Tevere. Proprio all’altezza del suo posto allo stadio ogni domenica. Al suo fianco Luciano e l’angelo moro di cui non riusciva a vedere i lineamenti e che se ne stava in silenzio.

Re Cecconi era spettatore in tribuna e giocatore in campo. La Lazio aveva bisogno della vittoria per centrare il trionfo. Il Foggia, l’ex squadra di Maestrelli e Luciano si giocava la permanenza in serie A. Strani incroci che solo ai Laziali potevano capitare. Lo stadio era stracolmo. Pronto ad assaporare, per la prima volta sulla sponda biancoceleste, il sapore dello Scudetto.

La Lazio di Maestrelli era la versione italiana del tanto famoso e glorioso calcio-totale di scuola olandese. Si schierava con Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi e Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico. Mischiava tecnica e dinamismo. Furore e classe. Era invincibile.

Chinaglia era il leader e il centravanti di sfondamento. Viveva per il goal e voleva sempre il pallone. A costo di litigare con tutti i compagni di squadra. Nella vita di tutti i giorni, andava in giro con una 44 Magnum. Era l’Ispettore Callaghan dell’area di rigore avversaria.

D’Amico era il genio e la sregolatezza, giovane promessa del calcio italiano, aveva un talento pari alla sua anarchia in campo come nella vita.

Re Cecconi era il dinamismo e il coraggio. Colui che abbinava quantità e qualità senza mai fermarsi un attimo. Era il miglior poster di questa squadra. E l’unico facilmente individuabile grazie al suo casco biondo.

Marco vide il rigore di Chinaglia al sessantesimo. Vide uno stadio esplodere. Si emozionò come mai gli era successo. E pensò che lì, da qualche parte tra gli ottantamila spettatori, c’era suo padre Mario, che tante volte gli aveva raccontato di quel giorno e di quante emozioni uno scudetto poteva portare.

E pianse ancora di più. Nel rivivere emozioni del passato che sembravano così attuali.

Quando l’arbitro Panzino di Catanzaro fischiò la fine la catarsi emotiva esplose in tutta la sua bellezza. Il sogno si avverava. Luciano, il mister Maestrelli e la squadra tutta ci avevano creduto fino alla fine. Un sogno nato sulle ceneri della delusione dell’anno precedente.

Un sogno che si era avverato perché, da veri laziali, non avevano mollato mai.

Marco si girò verso Luciano. Lo abbracciò mentre le lacrime ancora scendevano copiose e lo ringraziò per avergli fatto vivere quelle emozioni.

Luciano ebbe una smorfia di dolore.

“Non stringere forte, piccolè…” – lo redargui sofferente – “…non ti dimenticare che…” e gli mostrò, spostando la maglietta che gli copriva il petto, quella ferita che fu la fine di tutto.

Quella tragedia che interruppe per sempre la corsa di “Cecco Netzer”.

Ci fu di nuovo un flash. Un bagliore di luce accecante.

Quando tutto svanì, rimase il cielo e un ambientazione di montagna.

C’erano un campo sportivo con al centro i giocatori della Lazio. Attaccati alle reti, c’erano i tifosi. E un brusio del quale Marco riuscì a intuire solo alcune sporadiche parole: “Con nove punti di penalizzazione, era meglio la retrocessione diretta…”

Era l’estate dell’ottantasei. I Mondiali in Messico erano passati da poco. Paolo Rossi era un ragazzo come Venditti.

Marco e i suoi due angeli si trovarono a Gubbio, sede del ritiro della Lazio.

Sulle tribunette del campo sportivo, mischiati tra gli altri tifosi, Marco si apprestò a conoscere l’angelo moro.

“Ciao Marco, la seconda storia di oggi è dedicata a un gruppo di ragazzi e al suo allenatore che, quando il Destino sembrava li avesse condannati a una morte calcistica sicura, ebbero la forza di schienare le avversità e di riportare in alto l’aquila biancoceleste….è la storia di una rimonta e di una vittoria all’ultima giornata…”

I contorni del viso si delinearono.

“Ma tu sei Giuliano Fiorini…l’eroe dei meno nove…” – Marco non credeva ai suoi occhi.

“Si, sono Giuliano…ma in questa storia di eroi ce ne sono molti…a partire dal nostro Mister…”

“Eugenio Fascetti…”

“Già…un grande uomo…lo vedi ora in mezzo al campo? Sai cosa ci disse quel giorno?”

“No…”

“Beh…oggi è il giorno dopo il verdetto definitivo del processo legato al calcio scommesse…la CAF ci ha appena revocato la retrocessione ma ci ha inflitto nove punti di penalizzazione…” – Giuliano si accese una sigaretta. Fece un tiro e tossì. – “…maledetto tabacco…” – ma continuò a fumare e a raccontare – “…il Mister ci riunì al centro del campo…c’erano sgomento e preoccupazione in tutti noi…ma bastarono poche parole…semplici ed efficaci per compattarci…”

“Cosa vi disse il Mister?” – Marco era affascinato da quella situazione. Sembrava stesse vivendo nel “Canto di Natale” di Dickens. Era consapevole della realtà onirica. Ma ci si trovava bene. Era sereno.

“Ci disse le fatidiche parole: ‘Chi vuole resti…chi non se la sente può andar via subito…chi resta, però, combatte fino alla fine.”

“E voi?”

“Rimanemmo tutti…” – rispose Giuliano. Fece l’ultimo tiro e poi gettò la sigaretta per terra.

“Quella era una Lazio che aveva due palle così…” – e ne mimò la consistenza e la grandezza – “…c’erano il Mister e il suo secondo, Giancarlo Oddi…te lo conosci bene, eh, Lucià?”

Luciano sorrise e annuì. Erano stati compagni di squadra in quella squadra dello Scudetto.

“C’erano Piscedda e Gregucci, Magnocavallo e Terraneo, c’erano il muto Acerbis e il timido Poli, Marino, Caso, Mandelli, Esposito, Podavini, Camolese…eravamo mestieranti del calcio, nessun fenomeno, ma eravamo uomini veri. E se la Lazio domani si va a giocare lo Scudetto e non scomparve nelle paludi della serie C…beh…ragazzì…un po’ è merito anche nostro…”

“Già…” – Marco sorrise – “…quella Lazio me la ricordo…io avevo undici anni…mi ricordo il goal di Poli contro il Campobasso negli spareggi a Napoli che ci salvò…”

“Si…ma prima di quel goal…ci fu un’altra partita…” – lo corresse Giuliano.

“Lazio Vicenza…” – rispose Marco.

“Già…quel Lazio Vicenza…vieni…andiamo…”

E di colpo l’ambientazione cambiò.

I tre si ritrovarono di nuovo allo Stadio Olimpico. Stesso posto in Tribuna Tevere di poco prima.

Lo Stadio era gremito in ogni posto. Anche il papà di Marco c’era. Da qualche parte in curva Nord. Come sempre.

Ma stavolta l’aria che si respirava era diversa. Non c’era l’attesa del trionfo. C’era la paura della serie C. Con la certezza di sparire per sempre dal calcio che contava.

Gli ottantamila dell’Olimpico lo sapevano.

E tifarono.

E tremarono.

E sperarono.

La Lazio indossava quella che, probabilmente, rimarrà la maglia più bella della sua storia: un’aquila blu stilizzata al centro su sfondo bianco e celeste. A pensarci ora, con il senno di poi, poteva sembrare una Fenice che rinasceva dalle ceneri. Una maglia profetica.

Ma gli ottantamila che erano lì. Quel giorno. Il ventuno giugno del millenovecentottantasette non potevano ancora saperlo.

La partita sembrava stregata. La Lazio dominò e tentò il goal in ogni modo possibile. Ma il portiere del Vicenza, Dal Bianco, sembrava insuperabile.

Erano le sei del pomeriggio. Mancavano otto minuti alla fine delle speranze. Otto minuti all’inizio del dramma sportivo. Ogni miracolo del portiere vicentino veniva accompagnato da urla di disapprovazione e sconforto.

Quando.

Quando Podavini decise di provare il tiro della disperazione. La palla era indirizzata fuori dallo specchio della porta ma, in agguato, sul secondo palo, c’era Giuliano Fiorini, bomber d’altri tempi e vecchio filibustiere dell’area di rigore. L’uomo del Destino. Uno che si accendeva la sigaretta alla fine delle partite e non disdegnava un goccetto di whisky.

Giuliano arpionò la palla con il destro e se la fece scorrere tra le gambe. Si girò su stesso mandando fuori tempo l’avversario e, di punta, come solo chi ha attraversato in lungo e largo le aree di rigore avversarie, facendo a sportellate per conquistare spazio e presenza, mise la palla tra palo e portiere.

Un goal sceso dal cielo.

Fu il delirio biancoceleste.

La corsa di Giuliano Fiorini sotto la Curva Nord impazzita di gioia rimase nella storia della Lazio come il momento più catartico di sempre.

Giuliano rientrò in campo come se la partita fosse finita in quel momento. Ciondolante. Con il corpo invaso da un’adrenalina infinita.

Era il re, in quel momento.

E aveva un popolo intero in adorazione per lui.

Marco in tribuna si commosse, esultò come se non sapesse come sarebbe andata a finire. Come se fosse tutto in diretta. E abbracciò Giuliano che piangeva rivedendo se stesso.

Un corto circuito emotivo che solo i sogni potevano creare.

“Ma la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?” – la frase storica di Marzullo pronunciata alle tre di notte su Raiuno lo svegliò.

Era sicuro di aver spento la televisione prima di dormire. E, invece, la trovò accesa. E fu strano che a svegliarlo fu quella frase banale e sempre uguale. Leit motiv di tanti sonnambuli italiani.

Marco si trovò nel suo letto. Nella sua stanza. Il comodino vicino con sopra la foto di suo papà.

Nessuna traccia dei suoi angeli. Di Luciano e Giuliano.

Accese la luce.

E c’era qualcosa di strano sui muri.

Insieme ai poster di Salas e Mancini, di Nesta e Veron, di Nedved e Almeyda, idoli del presente, c’era qualcosa di diverso.

C’erano due poster che prima non c’erano.

Uno, in bianco e nero, ritraeva Luciano Re Cecconi, palla al piede e sguardo deciso.

L’altro era dedicato a Giuliano Fiorini, a colori, mentre si apprestava ad andare sotto la Nord dopo il goal contro il Vicenza.

Marco sorrise e capì.

Potenza dei sogni.

Si rimise a dormire in attesa del Sole della domenica.

Una domenica di mezzo maggio.

Arrivò allo Stadio due ore prima.

La Curva Nord avrebbe scioperato per un quarto d’ora per protestare contro un finale di campionato che puzzava di bruciato.

Gli “Irriducibili” avevano organizzato, addirittura, il “funerale del calcio italiano” con tanto di bare e processione che partiva da Piazza della Libertà.

Marco no.

Prima di quella notte si sarebbe unito anche lui ai tanti manifestanti per protestare. Ma quella notte, quella strana notte, gli portò consiglio e lo convinse a vivere quella giornata a petto in fuori e con orgoglio. Fiducioso nella sua squadra e in quel Destino che spesso si era divertito a scherzare con i colori biancocelesti. Ma che spesso, proprio quando sembrava tutto deciso, veniva sconfitto dall’Aquila biancoceleste e da quello stellone che proteggeva dall’alto il popolo Laziale.

Parcheggiò il Booster vicino al Ministero degli Esteri e si diresse verso la Tribuna Tevere.

Il cappellino degli “Irriducibili” in testa, farcito delle spillette di molte squadre inglesi, i pantaloncini al ginocchio che rendevano vivibile un pomeriggio già estivo e, come maglietta, la scelta cadde sulla replica della maglia di Giuliano Fiorini che gli regalò lo zio Luciano per il compleanno, l’anno prima.

Era perfettamente identica, con lo sponsor “Cassa di risparmio di Roma” e il marchio “Tuttisport” in rosso, sul petto. Non l’aveva mai messa. La tirò fuori dal cassetto dove conservava tutte le maglie della Lazio e pensò che, mai come quel giorno, meritava di essere indossata.

Perché se si era arrivati al maggio del nuovo secolo a giocarsi lo scudetto era, soprattutto, grazie a chi, tredici anni prima, tirò fuori la Lazio dall’Inferno.

Lo stadio si riempì. La gente tifava ma era disillusa.

I tifosi, dopo una rimonta in cui la squadra aveva recuperato sette punti nelle ultime sette giornate a una Juventus stremata, avevano paura che sarebbe svanito tutto all’ultima giornata. Come l’anno prima. E non volevano vivere un nuovo Lazio Parma.

La partita viaggiava sulle ali della monotonia quando un mani in area di rigore calabrese, portò l’arbitro Borriello a fischiare il rigore per i padroni di casa.

Dal dischetto, Simone Inzaghi portò la Lazio in vantaggio.

Passarono pochi minuti e Pancaro venne atterrato dal terzino amaranto in area di rigore. Altro penalty. E stavolta si presentò sul dischetto Juan Sebastian Veron, il tuttocampista, che non fallì. Due a zero e partita archiviata.

Intanto, a Perugia, la Juventus non riusciva a mettere sotto un Perugia arcigno e mai domo. Il che alimentava le speranze dei più ottimisti. Che non erano tanti. Ma Marco era tra questi.

In caso di parità, Lazio e Juve si sarebbero giocate lo Scudetto allo spareggio.

Era il traguardo massimo a cui i Laziali aspiravano.

Ma stava per succedere qualcosa di strano ed epocale.

Alla fine del primo tempo, la radio diede la notizia che, a Perugia, si era scatenato il diluvio universale. Cosa da non crederci visto che a Roma e, in generale, in tutta Italia, c’era un Sole che spaccava le pietre.

Sembrava la nuvola dell’impiegato tanto cara a Fantozzi.

Era molto di più.

Marco sorrise e capì.

L’intervallo all’Olimpico durò trentacinque minuti, in attesa che ricominciasse anche il secondo tempo al “Renato Curi”.

La contemporaneità degli eventi garantiva la regolarità del campionato.

Ma a Perugia non smetteva di piovere e Pierluigi Collina, il miglior arbitro del mondo, mandato dal Palazzo a gestire una partita così problematica e delicata, si trovò a prendere la più importante e scomoda decisione sportiva della sua carriera.

I giocatori della Juve, guidati dal capitano Antonio Conte, spingevano l’arbitro a rinviare il match.

Intuivano che quella era una partita maledetta e non avevano in corpo più energie a sufficienza per portare a casa i tre punti.

La zebra sentiva il fiato dell’aquila sul collo.

Il Destino si apprestava a darle il colpo di grazia.

Nel secondo tempo, Diego Pablo Simeone, il Cholo, uno dei tanti leader di quella Lazio, fissò il risultato sul tre a zero. Le orecchie di tutti posero così l’attenzione su quello che stava accadendo a Perugia.

Per Marco e per i tifosi, ci fu, però, ancora il tempo di applaudire Roberto Mancini che, sostituito a pochi minuti dalla fine, diede l’addio al calcio giocato e fu portato sotto la curva a cavalcioni dal suo amico e compagno Attilio Lombardo. Erano le sedici e quarantanove.

Quando l’arbitro Borriello decretò la fine del match dell’Olimpico, quasi in contemporanea, Collina fischiò l’iniziò del secondo tempo dopo la sospensione di un’ora.

Il campo era ancora pesante.

Ma si doveva giocare. Non si sarebbe potuto fare altrimenti. Dopo quello che era accaduto la settimana prima.

Quando Alessandro Calori, stopperone grezzo e Capitano del Perugia infilò alle spalle di Van Der Sar il goal del vantaggio dei Grifoni, l’Olimpico esplose in un boato clamoroso.

In quel momento, con quel risultato, la Lazio sarebbe stata Campione d’Italia.

Marco cominciò a piangere.

Mentre tutti si abbracciarono speranzosi, Marco si chiuse nel suo silenzio scaramantico.

Fino al giorno prima non avrebbe mai pensato che sarebbe stato possibile un evento del genere.

Ma quella notte, e quel sogno, avevano cambiato tutte le sue convinzioni. Sportive e non.

Il campo di gioco dell’Olimpico fu invaso dai tifosi. Ma, con i cancelli aperti, molta gente raggiunse lo Stadio e l’effetto visivo fu quello di uno stadio strapieno in ognidove, in campo e sugli spalti.

Alle diciassette e quarantacinque, partì il collegamento audio con “Tutto il Calcio minuto per minuto”: Riccardo Cucchi era il profeta del verbo in arrivo da Perugia. La sua voce veniva emanata dagli altoparlanti dello Stadio in vivavoce.

Sembrava la scena di un sogno.

In tribuna, i commenti erano i più disparati.

Si passava dal “Nun ce credo…” al “Male che va, se pareggiano, andiamo allo spareggio…”

Marco non proferì parola. Ma piangeva e pensava.

Pensava al papà Mario e a quanto avrebbe voluto dividere con lui questo momento.

Pensava a Luciano e a Giuliano, angeli di un sogno di metà maggio.

E pensava che, finalmente, era giunta l’ora del trionfo.

Bisognava crederci sempre.

E così fu.

Quando Collina fischiò la fine delle ostilità a Perugia, erano le diciotto e zero quattro.

Riccardo Cucchi, fiero e solenne, decretava: “La Lazio è Campione d’Italia millenovecentonovantanoveduemila, la Juventus è stata battuta a Perugia per uno a zero dalla squadra di Carletto Mazzone…la linea all’Olimpico…”

Fu il trionfo.

Gente che piangeva.

Che si abbracciava.

Che non ci credeva.

Marco guardò verso il cielo e sorrise.

Sorrise ai suoi due angeli e al suo papà che lo avevano guidato da lassù.

E, colto da tanta emotività e da tanto entusiasmo, non si accorse che, nonostante lo Stadio scoppiasse e fosse pieno come un uovo, tre seggiolini intorno a lui erano rimasti sempre vuoti e non furono mai occupati per tutta la durata della partita.

Potenza dell’amore e di un sogno di una notte di metà maggio.

QUATTRO PERSONAGGI IN CERCA DI UN GOAL

Piove su Roma. Un’altra volta. Sembra che la pioggia non debba smettere mai. Sembra quasi che la pioggia debba lavare chissà che. Chissà cosa. Per purificare la città.

Ma con questa pioggia, non fitta e lacerante come quella del Derby di qualche settimana prima, ma fastidiosa e improvvisa, Roma, oggi, sembra Milano.

E non va bene.

Perché stasera c’è Lazio Inter.

E Roma non deve fa la stupida stasera.

Luciano arriva allo Stadio alle sette e mezza. Parcheggia la sua “Mito” sulla salita del Don Orione. Vicino allo Chalet, la discoteca dove qualche lustro prima, viveva i suoi sabato sera. Quando era un trentacinquenne con un bel lavoro e tante donne ai suoi piedi.

Luciano passa davanti all’ingresso della discoteca, e ora che ne ha poco più di cinquanta, di anni, ora che ha una figlia di pochi mesi che gli ha cambiato la vita, ora che le poche certezze della sua vita sono la Lazio e gli affetti che lo aspettano a casa, beh, Luciano sorride e pensa che è felice così. Perché la vita ha i suoi cicli. E quello che sta vivendo è il suo ciclo più bello. Quello definitivo.

Si accende la sigaretta, si sistema la sciarpa biancazzurra intorno al collo, si alza il bavero del giaccone, guarda verso lo Stadio illuminato mentre la pioggia lo bagna in modo fastidioso, sorride e scende giù.

Direzione Tribuna Tevere.

Miro detto “Mito” scende dal pullman della squadra alle sette e mezza. Non ha le cuffie enormi di tanti suoi colleghi. Non ne ha bisogno per mostrarsi fashion e per isolarsi. Per cercare la concentrazione. Perché lui, concentrato, ci è nato.

Miro entra nello spogliatoio e si mette al suo solito posto. Dove i magazzinieri gli hanno già preparato tutto. La maglia numero 11 ben piegata. Gli scarpini Nike di due differenti colori. Miro si emoziona ancora, ogni volta che entra nello spogliatoio. Perché il calcio è la sua vita. Insieme alla sua splendida famiglia. Ed è per questo che per lui, ogni goal è sempre speciale e non è mai banale.

Miro si spoglia e si riveste. Cambia pelle. Si toglie i panni dell’uomo, si trasforma nel cecchino infallibile che sta guidando la propria squadra in alto.

Diventa uno dei giocatori più temuti in Italia.

Sicuramente, quello più decisivo.

Ascolta il Mister che comunica la formazione e gli da gli ultimi consigli.

“…Miro, tu gioca come sai…vieni a prendere palla e fai salire la squadra…cerca di allargare il gioco quando puoi e punta la porta…e cerca il movimento che abbiamo provato in allenamento…”

Si allaccia gli scarpini bianco e verdi, sorride, si infila la felpa da allenamento, sbatte i tacchetti sul pavimento e si incammina verso l’uscita.

Direzione campo di calcio.

Marcolino parcheggia lo scooterone al solito posto. Di fronte al Ministero degli Esteri. Sono le sette e mezza. Ha fatto tutto di corsa per arrivare in tempo. Alle sette è uscito dal negozio dove lavora in centro da pochi mesi. Con lo scooter ha eluso ogni trappola dell’infernale traffico romano di un qualsiasi sabato prenatalizio. Ed è volato allo stadio. Noncurante della pioggia che lo tormenta da giorni. Lui che è un animale delle due ruote.

Si toglie le cuffiette dell’Iphone. “Sei un Mito” degli 883 termina sul più bello. Quando lei gli dice di salire su perché non ci sono i suoi. Controlla i messaggi ricevuti sul cellulare, prima di entrare in clima partita. Risponde a Jessica, la ragazza con cui si frequenta da qualche giorno.

“Sono allo Stadio. A dopo. Se sopravvivo. Come sempre. Ciao…:-)”

Mette la catena allo scooter. Chiude il casco nel bauletto. Si sistema la sciarpa del gruppo intorno al collo. Indossa i guanti di pelle nera e il cappello della “Stone Island”. Alza gli occhi verso lo stadio illuminato in lontananza e sorride. Dall’alto dei suoi diciannove anni. E si avvia.

Direzione Curva Nord.

Stefano scende dal pullman dopo Andre. Per ultimo. Da buon Capitano. Come sempre. Soprattutto quando manca Tommaso. Stefano è sereno. Ha le cuffie in testa. Quelle enormi. Le usa per distrarsi. Per concentrarsi. A dire la verità, le hanno tutti i suoi compagni. Tutti tranne uno. Miro. Ma a lui non servono. Lo sa anche Stefano. Miro è Miro. Punto. “E oggi voglio mandarlo in porta”. Pensa tra se e se Stefano. Se lo ripromette. Mentre saluta l’autista. Che gli fa l’in bocca al lupo per la partita.

Stefano percorre il tunnel che porta agli spogliatoi. È l’ultimo del gruppo. Incrocia Juan Sebastian Veron. Che è appena arrivato allo Stadio invitato dalla Lazio.

“Ciao Sebastian…Come stai?”

“Io bene…Grazie Stefano, in bocca al lupo per stasera…”

“Crepi…eri il mio Mito…ti studiavo quando giocavi…per capire come facevi ad inventare i corridoi dal nulla…”

Veron sorride e gli stringe la mano. Stefano sorride. Ed è pronto. Entra nello spogliatoio. Entra il Mister, elegante come sempre. Che comunica la formazione.

“…Stefano tu parti alto a destra…”

Stefano è pronto. Come sempre. Comincia a cambiarsi e ripensa agli ultimi eventi della sua vita. Al carcere, alle battute gratuite, ad una stampa sempre con il dito puntato.

Pensa a tutte le rivincite che si sta togliendo sul campo. E pensa che un’altra se la toglierà stasera. Ne è sicuro.

Per questo sorride quando sale le scale.

Direzione prato verde.

Luciano compra e beve un “Caffè Borghetti” prima di arrivare ai cancelli. Gli piace il “Borghetti”. Gli ricorda gli anni passati. Quelli delle trasferte con gli amici, quelli dello Stadio con i gradoni bianchi e senza copertura, quelli in cui non bisognava avere la Tessera del Tifoso per poter seguire in modo costante la propria squadra. Quella stessa tessera del Tifoso che usa per superare il controllo ai cancelli gialli e ai tornelli interni. Una routine che affronta senza nemmeno pensarci. Proprio in quanto routine. Come tante altre cose della sua vita. Sale le scale che lo portano al suo settore. Ma prima di raggiungere il suo posto, si ferma a guardare il campo e le squadre che entrano per il riscaldamento.

Batte le mani ai suoi ragazzi. E sorride.

Fa l’ultimo tiro alla seconda sigaretta della serata e la getta via.

Sono le otto.

Luciano raggiunge il suo posto.

Miro entra in campo e va verso la Tevere correndo. Batte le mani ai tifosi che lo applaudono. È concentrato. Ancora più del solito. Questa sera è fondamentale vincere. Lui lo sa. Corre nel suo solito modo. Inconfondibile. Spalle strette. Schiena dritta. Elegante. Miro si trova bene a Roma. L’ha scelta per cercare di raggiungere il suo sogno. Superare Gerd Müller come cannoniere di tutti i tempi della Nazionale Tedesca e giocare il Mondiale in Brasile per superare Ronaldo nella classifica dei marcatori delle fasi finali dei Mondiali.

Obiettivi che ne testimoniano la grandezza, la professionalità e la motivazione. Per Miro, ogni partita è una finale. Ogni goal, una Polaroid della sua carriera. Indelebile. E a colori. Il preparatore chiama i giocatori per iniziare il riscaldamento. Miro si avvicina a Stefano. Prima di iniziare l’allungo e gli fa:

“Dammela sulla corsa, quando taglio verso l’area. Stasera ci penso io.”

E scatta con l’entusiasmo di un ventenne alla prima di serie A.

Marcolino compra “La Voce della Nord” al banchetto fuori l’ingresso della Curva. La colleziona da sempre. Da quando va allo Stadio da solo. E quando non può andare per vari motivi, se la fa comprare dai suoi amici di Curva. Supera l’ingresso dopo essere stato perquisito da capo a piedi. L’abito fa il monaco. Da sempre. E a lui lo perquisiscono tutte le volte. Anche se, in fondo, è un bravo ragazzo. Ma ai tornelli non lo possono sapere. Che fa volontariato e che è donatore di sangue. E che sogna di adottare un figlio a distanza. Ma tutto questo, mentre appoggi la Tessera del Tifoso al lettore ottico, nessuno lo sa. Il laser legge un codice a barre. Non le intenzioni.

Marcolino sale le scale che lo portano dentro lo Stadio. Si ferma quado arriva a gustarsi il prato nella sua interezza. Lo stadio gli trasmette serenità. Lo rilassa. Lo fa sentire a casa. Guarda i giocatori entrare in campo per il riscaldamento. Vede Miro andare verso la Tevere applaudendo e Stefano venire verso la Nord.

Parte il primo coro della Curva. Lui comincia a scaldare la sua voce.

La Voce della Nord.

Stefano entra in campo per il riscaldamento e si avvia verso la Nord. Come ogni domenica. Arriva fino alla linea di fondo e saluta la Curva. È carico e concentrato. E poi, l’incontro con Veron lo ha galvanizzato. Sa che lui è in Tribuna. Doppio ex di livello mondiale. Lui, invece, è un discreto centrocampista con i tempi giusti negli inserimenti e ottime intuizioni di prima e in verticale. Spesso azzarda e sbaglia. E la cosa gli procura critiche. Lui sa di essere amato e odiato. Ma sa pure che, cambiando gli allenatori, lui il posto lo trova sempre. Un motivo ci sarà. Stefano palleggia un po’ per scaldarsi con Senad. Poi il preparatore li chiama per iniziare gli allunghi e il riscaldamento vero e proprio. Gli si avvicina Miro che gli suggerisce come servirlo in profondità.

“Io cerco di infilarla subito. Appena vedo uno spiraglio. Tu parti, Miro, che con me la palla arriva sempre. Ricordi Milano?”

E mentre Miro scatta ricordando il suo goal all’esordio in serie A a San Siro contro il Milan, lui ripensa alla “Strega” Veron. A come apriva gli spazi e a come creava corridoi dal nulla. Stefano sorride e scatta anche lui.

Ci vorrà un po’ di magia per battere l’Inter.

Luciano è nervoso. La Lazio gioca bene, fa la partita ma non riesce a concludere. L’Inter si copre. Aspetta l’avversario chiusa nella propria metà campo e non riparte mai. Sembra di assistere ad un Lazio Atalanta qualsiasi. Il colore delle maglie, in fondo, è lo stesso. Luciano è nervoso. Perché l’Inter fa catenaccio e, soprattutto, perché ha un’interista vicino che non sta mai zitto. E Luciano, come confessa a Marco, il suo compagno di Stadio da anni, si sta rompendo le scatole.

“Nun gliela faccio più…mo’ je meno…”

E quando Klose viene atterrato in area di rigore e l’arbitro fa segno di continuare, lo Stadio esplode veemente nella protesta. Tutto lo Stadio unito nei fischi tranne i diecimila tifosi dell’Inter presenti e il vicino di posto di Luciano. Che non fa nulla per nascondere la sua fede nerazzurra. E allora Luciano esplode. Come mai gli era successo negli ultimi anni di Stadio. Quelli della tranquillità. Il suo tono romano prende il sopravvento. Il turpiloquio diventa il leit motiv della discussione. Tra le risate dei suoi compagni di Tribuna e gli occhi impauriti del malcapitato e poco accorto tifoso. Che capisce l’antifona e abbandona il posto. Per manifesta inferiorità.

“Oooooohhh….e che cazzo….nun gliela facevo più…se doveva mette proprio accanto a me, sto infiltrato de merda…”

E si accende un’altra sigaretta. La quinta della serata.

Tutti ridono. Luciano no. È nervoso.

L’Inter continua a fare catenaccio.

Quando l’arbitro fischia la fine del primo tempo, Miro scuote la testa. È nervoso. L’Inter si chiude troppo e lui ha ricevuto pochi palloni giocabili. E poi, l’arbitro gli ha negato un rigore netto. Mentre scattava verso la porta di Handanovic, ed è stato sgambettato da un avversario. Mazzoleni ha fatto segno di continuare. Lui si è arrabbiato. All’inizio. Ma tanto, arrabbiarsi non serve a nulla. È questo il motto di Miro. Che ha continuato a giocare e a lottare ma senza mai trovare il guizzo. E mentre scende negli spogliatoi per l’intervallo, osserva i suoi compagni e gli avversari. Osserva il fumo che esce dai loro corpi. Colpa del contrasto calore-umidità. E ripensa a quante volte, lo ha visto nei campi della sua Germania, quell’effetto di contrasto. E allora, per un attimo, si sente a casa. Di nuovo. E giura a se stesso che su questa partita lascerà il segno.

Questo pensa mentre sorseggia il the.

Fumante. Anche lui. Come i suoi compagni di squadra.

Marcolino paga la birra per lui e per Big Mac, il suo amico di Stadio da sempre. Una Peroni alla spina ghiacciata ci sta sempre bene. Brindano. Con il bicchiere di plastica. La partita non si sblocca. Sono tutti un po’ nervosi. Ma fiduciosi. Sono i finiti i tempi dell’Inter di Mourinho. Quella invincibile. Sono due anni di seguito che l’Inter ne prende tre all’Olimpico. Big Mac è convinto che sarà così anche quest’anno.

“Ma che non li hai visti quanto so’ scarsi?…avemo giocato solo noi…ci manca solo il goal…”

“Già…speriamo che non ci fanno la sorpresa…quante ne avemo viste di partite così?”

“Ma dai…’ndo vanno?! Oggi li sfonnamo…”

Marcolino invidia la sfrontatezza di Big Mac. Per questo, lui per gli amici è “Ino” e l’altro è “Big”. Anche se fa di tutto per apparire ciò che non è. E nasconde dietro al look aggressivo, le sue insicurezze di ventenne. E allora, prima che inizi il secondo tempo, si prepara una sigaretta con le cartine e il tabacco. Controlla il suo profilo Facebook. E riparte verso il suo posto insieme a Big Mac. Che sta a lui, come Jimmy Cinquepance stava a Paul Gascoigne. Il mito di suo fratello maggiore che ora si gode le partite in Tribuna Tevere.

Lui, no. È troppo piccolo per la Tribuna.

Lui è un animale da Curva.

Ha i suoi istinti, le sue necessità.

Ha bisogno del branco. E lo trova solo lì.

Il branco. Che gli disinibisce l’istinto represso di una vita da bravo ragazzo.

Ce ne sono tanti come Marcolino in Curva.

Che si perdono nel branco e guardano le stelle.

Stefano rientra in campo. Insieme ai suoi compagni. Ha fretta di chiudere il match. Sa che la sua squadra è superiore. Il Mister, negli spogliatoi, gli ha chiesto più velocità nel verticalizzare il gioco. Gli ha detto “Stefano, tu sai come si fa…fallo…veloce…due tocchi…nello spazio…sulla corsa di Miro e dai che facciamo goal…”.

Stefano incrocia gli sguardi dei suoi compagni. Devono solo essere più veloci nella manovra e più cinici. Guarda Miro. Gli fa il segno del pollice. Sperando che Miro, più tardi, ricambi con il segno dell’Ok. Quello che è sinonimo di goal e di vittoria. In fondo, gliel’ha promesso durante il riscaldamento, il goal. Solo che lui ci deve mettere l’assist. La velocità d’esecuzione. E i tempi giusti. Soprattutto. Perché, in fondo, è il tempo che ci frega. Sempre.

E poi succede che l’inerzia della partita cambia.

E mentre tutti aspettano il goal della Lazio, ecco che sul prato di gioco appare, dopo un’ora di gioco, la strana Inter di Stramaccioni. Romanista dentro. E poi succede che Freddi Guarin prende un palo con Marchetti proteso in un inutile tuffo.

E succede che Luciano, in Tribuna, comincia a invocare i santi del calendario. Uno per uno. E poi succede che Cassano la piazza dal limite dell’area, con un tocco dei suoi, quando ricorda di averli. Ma stavolta Marchetti c’è e la devia sul palo. E poi succede che sulla respinta del palo, la palla arriva sui piedi di Nagatomo che, a botta sicura, la butta dentro. O almeno così sembra a tutto lo Stadio. A tutti tranne che a Federico Marchetti. Che c’è ancora. Come c’era prima. E come c’era a Torino. E poi succede che Miro, messo davanti alla porta da un perfetto assist di Gonzales, sbaglia il più facile degli stop mentre Marcolino, Big Mac e tutto lo Stadio con loro erano già pronti ad esultare. Succede che Stefano ripensa a Veron. Che sta lì in tribuna. Leggenda vivente di uno Scudetto bellissimo e incredibile. E pensa che è giunto il momento di lasciare il segno sulla partita. E di seguire i consigli del Mister.

Succede che Hernanes porta palla sulla metà campo. La scarica su Stefano. Che la stoppa di destro, si gira su stesso e lo vede.

Succede che Miro vede Stefano ricevere la palla da Hernanes e capisce che è giunta l’ora. E allora Miro taglia dal centro verso destra. E si va ad infilare in mezzo a tre avversari. Ma lui sa che la palla arriverà. Con i tempi giusti e i giri giusti. Perché Stefano gliel’ha promessa. Una palla così.

E allora Luciano butta la sigaretta per terra mentre Stefano la infila di sinistro. Subito. In profondità. Perfetta. Veloce. Proprio come faceva, anni fa, Veron.

E Miro lascia scorrere la palla quel tanto che basta per colpirla di destro. In corsa tra tre avversari. Proprio come faceva, anni fa, Klose. Che continua a farlo.

Marcolino si alza in piedi. Al rallentatore. Mentre tutti in Curva si alzano con lui. Coreografia spontanea nell’immediato.

Il tiro è perfetto. Angolato. E mentre Miro cade calciando, la palla si infila nell’angolo opposto. Con Handanovic proteso in un volo inutile.

La rete si gonfia.

Lo Stadio esplode.

Luciano lascia il calendario da una parte e abbraccia tutti i suoi vicini di seggiolino alla sua destra. Perché, a sinistra, l’interista non c’è più.

Miro va in scivolata, esultando. E poi viene sommerso dai suoi compagni.

Marco si trova dieci file più su e dieci file più giù. Con Big Mac al seguito.

Stefano sorride e guarda la Tribuna Autorità. Laddove c’è il suo Mito. Che gli ha insegnato come si fa. A creare spazi nel nulla.

La Lazio va in vantaggio a nove minuti dalla fine. E la vince nel momento in cui rischiava di perderla, la partita. L’arbitro concede 4 minuti di recupero. Che diventano quasi cinque.

Poi, finalmente, manda tutti sotto la doccia. E fa calare il sipario su una partita dai due volti.

Miro, a fine partita, va a cercare Stefano.

“Te lo avevo promesso…”

“Già…e io ti ho dato una bella palla, no?”

“Si…ma non mi far fare più scatti come quello…lo sai che sono vecchio, no? Lo dicono tutti…”

E poi gli fa l’occhiolino e, di nuovo, il segno dell’Ok

Perché oggi è la notte è giusta.

Per continuare a sognare.

LA FIABA TRISTE DI KIM VILFORT

Ci sono storie ricordate per il loro lieto fine ma di cui molti dimenticano il retrogusto amaro. Quella sensazione di sconfitta nonostante il trionfo. O forse è proprio quel lieto fine insperato che diventa il modo migliore e più struggente per dirsi “Addio“.

Questa è la favola triste di Kim Vilfort, onesto mediano della Danimarca, vincitrice a sorpresa degli Europei di Svezia.

L’anno è il 1992. Le notti magiche sono un lontano ricordo. Jovanotti ci ricorda quanto è bella l’estate delle mie e delle tue vacanze mentre Luca Carboni ci avverte che ci serve un fisico bestiale per resistere agli urti della vita.

Quella vita che ha giocato uno scherzo infame a Kim Vilfort, onesto centrocampista danese in forza al Brondby. La figlia di otto anni infatti è stata colpita da una forma molto aggressiva di leucemia e lui è già pronto a vivere un’estate maledetta, da passare accanto a lei nell’ospedale in cui è ricoverata, a Copenaghen. Ma un giorno di fine maggio, riceve la chiamata del CT danese Moeller Nielsen che lo convoca per gli Europei. Nonostante la Danimarca non si sia qualificata.

“La Jugoslavia, a causa dell’assedio di Sarajevo che dura da due mesi, è stata esclusa dalla competizione. Noi siamo stati ripescati, altrimenti non arrivano a otto squadre. Posso contare su di te?“. Sembra la telefonata di un amico che cerca il decimo per giocare a calcetto. E invece è la convocazione ufficiale per un Europeo di Calcio. Nel 1992, il Calcio funziona ancora così.

“Sì, Mister, può contare su di me, come sempre. Ma conosce la mia situazione…”

“Non ti preoccupare, Kim, potrai andare a trovare tua figlia ogni volta che vorrai. Certe cose valgono molto di più di una partita di calcio.”

“Grazie…”

“Grazie a te…”

I giocatori danesi svuotano le valigie già pronte per le vacanze e preparano la borsa per le partite. Tutti tranne Michael Laudrup, fuoriclasse del Barcellona, che attacca il telefono in faccia al suo CT con la motivazione che “sarà pure un Europeo e la Svezia è pure un bel paese ma io di venire a fare figuracce non ne ho proprio voglia.”

Di Laudrup a quegli Europei ne sarà presente solo uno, il fratello Brian, ventitreenne stellina del Bayern Monaco. Basterà. I giocatori danesi vengono accolti in Svezia come vittime sacrificali. Guardati con ironia e compassione dagli addetti ai lavori. Molti di loro avrebbero preferito indossare il costume e non il fratino da allenamento. Ma “in fondo sono solo tre partite, le vacanze sono solo posticipate di qualche giorno.”

Poi succede che la prima partita, l’11 giugno, contro l’Inghilterra finisce, contro ogni pronostico, con un dignitoso 0 a 0. Nel secondo match, i padroni di casa si impongono uno a zero grazie ad un goal di Thomas Brolin. E tutti pensano che il cammino della Danimarca sia giunto al termine.

“Grazie per aver salvato gli Europei, ma adesso arrivederci e grazie!”

E grazie lo dice di nuovo Kim Vilfort al suo CT che gli concede il permesso di volare dalla figlia. Tanto è rimasta una sola partita. Contro la Francia. Figurati se…

Poi però i giocatori danesi realizzano che, per un incrocio di risultati, gli basta battere i galletti transalpini per andare direttamente in semifinale e allora perché no? Perché non provarci? E allora dopo setteminutisette, Larsen porta in vantaggio la Danimarca tra lo stupore dei giocatori francesi.

“Ma questi mica vorranno vincere? Ma non stavano già al mare?”

Jean Pierre Papin, JPP per gli amici, restituisce certezze agli esperti di calcio internazionale pareggiando. Poi però dalla panchina danese si alza un certo Elstrup. Uno che fino a quel giorno non si era mai tolto i pantaloni della tuta. E quel giorno, non solo se li toglie, ma entra e segna. E porta la Danimarca in semifinale. Tra lo sgomento di tutti gli addetti ai lavori e il fomento di chi vede Cenerentola salire su quella carrozza che una volta era una semplice zucca. Per andare al gran ballo finale.

In semifinale, li aspetta l’Olanda mentre loro aspettano solo il ritorno di Vilfort, che li raggiunge e si piazza a metà campo, con la testa e il cuore lasciati al capezzale della figlia. L’Olanda è Campione in carica. Schiera tra le sue fila Van Basten, Gullit, Rijkaard e un giovanissimo fenomeno di nome Dennis Bergkamp.

Ma Larsen ci ha preso gusto. Prima porta in vantaggio i suoi. Poi sigla il due a uno dopo il momentaneo pareggio del biondo e poco temerario Dennis. Finita? No. Frank Rijkaard, uno con i piedi pensanti, pareggia a quattro minuti dalla fine. E le porte dei supplementari si spalancano proprio mentre Peter Schmeichel, estremo difensore danese che farà la storia del Manchester United, decide di blindare la sua, di porta. Arrivano così i calci di rigore. Ed è in quel momento che il Dio del Calcio comincia a scrivere la sua storia più bella e struggente.

Marco Van Basten, il Cigno di Utrecht, l’attaccante più forte del mondo, titolare della squadra più forte del mondo, prende la solita rincorsa, fa il suo solito saltello pre-rigore e tira. Ma Schmeichel indovina l’angolo, la mette fuori e trasforma il cigno Van Basten in un brutto anatroccolo. Si arriva così senza più errori, al quarto rigore. Sul dischetto, si presenta proprio Kim Vilfort, che guarda la porta ma vede sua figlia. Che tifa per lui in quel letto d’ospedale. Il goal è catarsi pura.

I giocatori danesi non credono ai loro occhi.

Ma ora c’hanno preso gusto. Non si torna più indietro. Le infradito e i costumi lasciati a casa sono solo un ricordo. La Gloria e, soprattutto, la Storia sono ad un passo. Cenerentola comincia a ballare al centro del salone mentre tutti guardano quanto può diventare bella una sguattera oppressa dalle sorellastre.

In finale, la Danimarca trova la Germania Campione del Mondo. Che nel calcio è come il mostro di fine livello nei videogiochi. C’è sempre. E, come ricorda Gary Lineker, “il calcio è quello sport dove si gioca undici contro undici ma alla fine vincono i tedeschi.” Anche quel giorno?

Il 26 giugno, la Germania vuole bissare il successo di due anni prima allo Stadio Olimpico di Roma. La Danimarca non ha nulla da perdere. Parleranno comunque tutti di lei, a prescindere. Ma Jensen sa come si fa a invertire la rotta della Storia e porta in vantaggio la Danimarca al diciannovesimo. I tedeschi non ci stanno, reagiscono e mettono sotto gli avversari ma trovano in Schmeichel l’antidoto ai loro sogni di gloria, l’autobus parcheggiato davanti alla porta, il buttafuori che non vi fa entrare nel locale perché non avete la camicia.

La partita, anzi l’assedio, va avanti così fino al 78esimo. Quando dopo un’azione confusa sulla trequarti tedesca, un colpo di testa fa arrivare il pallone a Kim Vilfort, proprio lui. Il controllo con il petto in corsa gli fa guadagnare un tempo di gioco sugli avversari, la finta a rientrare sul sinistro gli permette di liberare un tiro in cui c’è tutto. Speranza, gioia, tristezza, amore. La palla colpisce il palo interno e si insacca alle spalle di Bodo Illgner.

I compagni sommergono in un abbraccio il loro compagno, capendone il momento e gioendo con lui. Che piange. Piange. Piange di felicità e di rabbia. Perché Kim Vilfort sa che il momento più alto e epico della sua onesta carriera di calciatore si sta sovrapponendo in modo beffardo al momento più tragico della sua vita di uomo, marito e genitore.

Kim Vilfort festeggerà infatti il trionfo della sua squadra e del suo Paese ma, qualche settimana dopo, darà l’ultimo saluto a sua figlia Line, sconfitta da un male più forte di lei. Che nessuna squadra richiamata dalle vacanze potrà mai sconfiggere.

Quella squadra, però, che ha saputo donargli, in quegli ultimi giorni, un sorriso in più. Il più bello.

A QUELLI COME NOI

A quelli come noi, ci ha fregato la “sindrome da campeggio”, quella sensazione eterna di chi pensa che la vita sia una lunga, meravigliosa estate.

Che la vita sia piantare la tenda dove capita, perché tanto il mare è ad un passo. E ci si arriva correndo e gridando.

Che il campo da pallone sia sempre lì, alle spalle della pineta, dove possiamo giocarci per ore fino a che non faccia buio. Fino a che la cena non è pronta. Fino a che tuo padre non ti viene a cercare in bicicletta per sapere che fine hai fatto. Ignaro che tu ti sia sentito, per un interminabile pomeriggio, Ruben Sosa o Marco Van Basten.

A quelli come noi, ci hanno fregato i sorrisi. Quelli carpiti di sfuggita ma ugualmente catturati, durante i falò. Cantando Lucio Battisti e bevendo Peroni. E assaporati, finalmente, durante il bagno di mezzanotte. Quando il buio e il mare diventano i primi vetri appannati della nostra vita.

A quelli come noi, ci hanno fregato le amicizie che non muoiono mai, perché d’estate siamo tutti perfetti, senza difetti e indimenticabili. Tutti sempre con qualcosa di interessante da dire. Con una nuova barzelletta da raccontare. Perché in campeggio, non ci si annoia. E, soprattutto, non si invecchia. Mai. Al massimo, si cresce.

A quelli come noi, ci hanno fregato il calcio balilla e il tavolo da ping-pong, piccoli regni dove far risaltare la nostra prima virilità e i nostri talenti in erba. Anche contro gli adulti.

A quelli come noi ci ha fregato il gommone che ci accompagnava al largo. Dal quale facevamo i tuffi per ore, come se non ci fosse un domani.

A quelli come noi, ci ha fregato il panorama. Quell’orizzonte sconfinato che solo chi ha avuto il mare davanti può capire. Quella vastità che profuma di sogno e speranza. Di nuova opportunità.

A quelli come noi, ci ha fregato la doccia dopo la spiaggia. Quella fredda. Che ci toglieva gli ultimi residui di sabbia e che giustificava le mani un po’ ovunque. Quella che sulla pelle calda e abbronzata provocava un brivido di piacere e contrasto.

A quelli come noi, ci ha fregato l’estate.

Perché, nonostante gli anni che passano e le esperienze che si fanno, ci troviamo sempre impreparati quando la gente ci trascina giù.

Nel proprio inverno.

LA MIA MARATONA (10/4/2016)

“Perché corri?”

“Per sfidare me stesso.”

Con questo botta e risposta su Facebook con un mio amico che non capisce il perché la gente normale, non avendo velleità di vittoria, decide di partecipare ad una Maratona, me ne vado a letto presto, sabato sera. Perché la mattina dopo ho la sveglia alle cinque e mezza. Perché correrò la Maratona di Roma. Perché saranno quarantadue chilometri e centonovantacinque metri all’interno della mia città. Che amo e poi odio. E poi amo. E poi odio. Nemmeno fossi Mina.

Io non sono un runner. Ossia non sono uno che si sveglia alle sei del mattino, noncurante del freddo, della pioggia, dell’inverno che ti entra dentro, per rispettare la propria tabella di allenamento. Però sono uno che se si mette in testa una cosa, la fa. Ed alla corsa dedico un paio di allenamenti a settimana. Non più di quei dieci chilometri ad uscita che mi fanno stare in pace con me stesso.

Però la Maratona di Roma l’ho corsa anche lo scorso anno, per la prima volta, con un tempo discreto per uno che si allena poco come me: quattro ore, diciannove minuti e trentasette secondi. E pensavo non l’avrei più corsa. Sconfitto da una certa accidia che diventa mia fedele compagna nei mesi invernali.

Fino a quando.

Fino a quando due mesi fa, un cliente del negozio per cui lavoro, parlando del più e del meno, mi chiese: “Perché quest’anno non la fai? Dai che fai ancora in tempo a prepararla!”

E sarà stato il primo vero Sole primaverile che faceva capolino in negozio. Sarà stato che era giunto il momento di svegliarmi finalmente dal mio solito torpore invernale. Quel torpore che mi fa mettere da parte progetti, romanzi da scrivere, viaggi da programmare. Che è scattata in me quella scintilla senza la quale non puoi scatenare un incendio.

E allora ecco l’iscrizione. Ecco un piano di allenamento che mi permettesse di mettere nelle gambe abbastanza fiato e chilometri. Ecco un obiettivo davanti a me. Chiaro. Difficile. Ma affascinante. Una nuova sfida. Finalmente. Roma, 10 aprile 2016.

Ed ecco i miei occhi aperti alle quattro del mattino, noncuranti della sveglia fissata un’ora e mezza dopo. Ecco il girarmi e il rigirarmi nel letto cercando di racimolare un altro po’ di sonno. Ma niente. Niente. Occhi aperti a guardare il soffitto come nell’incipit di “Apocalypse now”. Ma anziché “The End” in sottofondo, quello è solo l’inizio di una giornata che comunque andrà, ricorderò per sempre. Comunque vada.

Alle cinque decido di alzarmi. Solita colazione. A cui aggiungo qualche fetta di bresaola. Di carboidrati ho fatto il pieno la sera prima a cena. Pasta. Pane. Patate. Le famose tre P. Preparo lo zaino. Faccio un rapido check prima di uscire. E so che dal momento in cui esco di casa, non potrò più tornare indietro. Amen.

A Roma ha piovuto la sera prima. Come lo scorso anno. Il cielo è grigio. Coperto. Le previsioni non danno pioggia. Ma le app del meteo, a volte, sono attendibili come Wanna Marchi che promette di toglierti il malocchio. Quindi, come sempre nella mia vita, mi fido solo di me stesso e di ciò che vedo. Ed è un tempo di merda.

Arrivo alla Stazione Termini. Parcheggio e scendo giù. Negli inferi di una Stazione che è stata la mia casa lavorativa per sette anni e che ogni volta, come un coltello piazzato in una ferita, mi lacera l’anima. Ricordi di errori, di vittorie, di sconfitte, di premi. Sembra un’altra vita ora. E forse, in fondo, lo è.

Mi guardo intorno e scopro che non sono solo. Comincio a vedere altri zaini azzurri come il mio. Altre Asics ai piedi come le mie. E se non sono Asics, sono Mizuno, Brooks, Saucony. Vestono i piedi di chi come me, correrà tra un po’. Mi faccio fiducia. Nonostante un dolore al bicipite femorale della gamba destra che mi accompagna da una settimana e che resta lì, latente. A farmi compagnia. Come una spada di Damocle sulla testa della mia prestazione. Indurisco la coscia ogni tanto quasi a chiedergli “Ci sei?” e lui compare subdolo e maligno come Pennywise nei tombini. Sibila. “Sì, ci sono. Farai i conti anche con me. Oltre che con la tua città e con la tua fatica.”

Scendiamo a Circo Massimo. L’uso del plurale mi rende più forte e sicuro di me. Mi fa capire che non sono solo. E in effetti, solo non mi ci sento. Tanta gente. Di tutti i tipi. Dal corridore navigato che è passato dalla StraBarletta alla Maratona di Sidney fino al principiante che cerca il suo posto nel mondo. Ognuno con il suo rito. Con il proprio look. Con i propri dolori e i propri demoni da sconfiggere. Cerco e trovo il mio tir di riferimento, al quale consegnerò il mio zaino, e mi ci siedo di fronte. È presto. Sono le sette. Ma mi sembra di essere sveglio da una vita. La partenza è tra due ore, quasi. Mi siedo e aspetto. Sulla riva del fiume dei miei pensieri.

Poi mi levo i pantaloni della tuta e resto in pantaloncini. Mi cambio i calzini e ne metto un paio a compressione graduata, lunghi fino al ginocchio. Mi tolgo la maglia e ne metto una super aderente, rossa, con lo stemma di Spiderman. Il mio supereroe preferito. Quello che ha accompagnato la mia infanzia da Peter Parker. Occhiali e timidezza a volontà. Prima di crearmi una maschera che mi facesse sentire invincibile. Fisso il pettorale numero 10483 alla maglietta celebrativa della Maratona e sono pronto. O quasi. Il mio vicino si sta massaggiando le gambe con l’olio canforato. Gliene chiedo un po’. E così anche io posso riscaldare i miei muscoli in anticipo. Mentre il Pennywise femorale sibila e mi ricorda che c’è. Sempre.

Consegno lo zaino e mi avvio. Passo sotto l’arco di Costantino e raggiungo via dei Fori Imperiali. Mostro il braccialetto arancione che fa molto privé e accedo al viale che mi porterà alla partenza. Mi scappa la pipì. E mi viene in mente Pippo Franco. Rimembranza trash di un’infanzia mai troppo rimpianta. Aspetto il mio turno in quello che è una sorta di rito pregara. Come la confessione prima del matrimonio. Svuotarsi di tutti i propri peccati prima del sacro evento.

Raggiungo finalmente la partenza. Sono nervoso. Pennywise sibila. Il cielo si sta un po’ aprendo ma fa freddo. Davanti a me c’è tanta gente ma, soprattutto, ci sono poco più di quarantadue chilometri da percorrere. Con l’obiettivo di migliorarmi anche di un solo secondo.

Mi guardo intorno, studio i volti, ascolto voci. Come Daredevil amplifico tutto quello che avviene intorno a me. Capto frammenti di vita, percepisco battute tra amici, mi concentro su tutto il resto per non concentrarmi su me stesso. Come spesso è capitato nella mia vita.

E in un attimo sono le otto e cinquantuno. L’ora della partenza. E tutto ciò che è stato pensato, non esiste più. Esiste Roma. Esistono i quarantadue chilometri. E soprattutto i centonovantacinque metri. Quelli finali. Quelli che non finiscono mai ma che vanno affrontati con il sorriso sulle labbra.

Passiamo sotto le telecamere della Rai e salutiamo. Un modo come un altro di farsi coraggio. Davanti a me, vedo i pacemaker con i palloncini segnalatori del tempo finale. Cerco quelli delle quattro ore e quindici. Il mio obiettivo. Li raggiungo e mi affianco a loro prima di arrivare a Piazza Venezia. Sono un gruppo di runner toscani. Decido che non li mollerò fino alla fine.

I sanpietrini ci danno il benvenuto subito, ricordandoci quanto di antico ancora c’è di Roma, nelle nostre giornate. Ma l’adrenalina è tanta e il vero sanpietrino nemico è quello degli ultimi due chilometri. Io mi guardo a destra e trovo i peacemaker. Sorrido. Mi sento sicuro. Pennywise è in letargo. Uscirà dopo.

Via dei Cerchi. Aventino. Ostiense. Air Terminal. La Basilica di San Paolo ci regala il primo ristoro. Bevo acqua. “Ricorda di bere sempre, ad ogni rifornimento. Se resti senza liquidi, sei finito!” il consiglio di un mio amico per la maratona dello scorso anno, lo tengo sempre a mente e lo faccio mio. Bevo. E i primi cinque chilometri sono volati via. Insieme a Pennywise.

Bello correre con chi ti dà il tempo. Hai un pensiero in meno. Ho il mio GPS finlandese al polso che mi aggiorna costantemente. Ma i toscani alla mia destra sono più simpatici e dispensano consigli. Ho la mente libera. Le gambe vanno. Bene.

Superiamo di slancio Ponte Marconi, giriamo subito a destra, circumnavighiamo Viale Marconi e a Piazzale della Radio tagliamo il traguardo dei dieci chilometri. Altro rinfresco. Bevo e mangio pure uno spicchio di mela. Non vedo l’ora di riprendere il lungotevere che ci riporta in Prati. Sono nato e cresciuto a Roma Nord. E in quelle zone mi sento fuori luogo. Ci togliamo dalle scatole Testaccio, sbuchiamo su via Marmorata e siamo finalmente sul lungotevere. Percorriamo i quattro chilometri che ci separano da Ponte Cavour in ventiquattro minuti. Di sabato sera, con la macchina, ce ne vogliono molti di più. La considerazione mi strappa un sorriso mentre affronto il terzo ristoro e qualche centinaio di metri dopo giro a sinistra sul ponte da cui si buttava Mister Ok a Capodanno.

Eccoci finalmente a piazza Cavour, una delle mie location preferite, quella del cinema Adriano e del capolinea del 49. Le colonne d’Ercole della mia infanzia. Ci arrivavo con l’autobus. Mi gustavo “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”, “Balla coi lupi”, “JFK”, “Batman” e tanti altri capolavori e poi tornavo a casa, con gli occhi e il cuore pieno di sogni, come Totò Cascio in “Nuovo Cinema Paradiso”.

E poi via Crescenzio, via della Conciliazione. San Pietro che ci osserva da lontano e poi ci accarezza e benedice mentre gli passiamo accanto, con la gente che ci incita e la banda a Piazza Risorgimento che ci accoglie.

A via della Giuliana, incrocio lo sguardo del Signor Mario, il padre di uno dei miei migliori amici, ex-maratoneta. Lo saluto. Mi sorride. Mi incita. Ed è uno stimolo in più a portare a termine la mia sfida.

Superiamo il traguardo della mezza Maratona a viale Mazzini, perfettamente in orario. Come i treni di una volta. Due ore e sette minuti. Esattamente la metà del nostro obiettivo.

“Pensavi me ne fossi andato, eh?!? E invece eccomi qua.”

Pennywise sbuca dal nulla e si infiamma. Leggermente. Ma si infiamma. Lo avverto. Lo maledico. Proprio nel momento in cui comincia la discesa emotiva. Quella in cui i chilometri da fare sono meno di quelli percorsi. Ma tant’è. Nella mia vita, non c’è mai stato un momento di gioia pura senza che un imprevisto arrivasse a macchiarlo un po’. E la Maratona, a quanto pare, gelosa e possessiva come tutte le donne, non vuole essere da meno.

Stringo i denti e continuo. Faccio finta di non ascoltare quel sibilìo fastidioso e continuo aggrappato ai miei pacemaker come Linus alla coperta. Poco prima di arrivare sul lungotevere, un corridore evidentemente alla prima esperienza, si gira cercando conforto e chiede quanto manchi all’arrivo.

“Un paio d’ore, più o meno…”

“Mamma mia…un paio d’ore…”

“Passano gli anni e nun ce potemo fa niente, mo’ voi che nun passano un paio d’ore?!? Dai su, nun ce pensa’!”

In quella risposta, racchiusi come in un Bignami, tutta l’ironia, il cinismo e l’approccio alla vita dei romani.

Sorrido. E il lungotevere mi appare meno difficile. Anche perché quella, ormai, è zona mia. La zona intorno allo Stadio. Dove vado a correre o a passeggiare in bicicletta. Dove vado a prendere un aperitivo con gli amici.

Ponte Duca d’Aosta ci traghetta sull’altro lato di Roma, quello che ci accompagnerà al traguardo. Ma la strada è ancora lunga, Pennywise è lì, che man mano alza la voce, e comincio a sentire un dolore sulle dita dei piedi. Vesciche?

I banchi dei ristori vengono visti ormai come oasi nel deserto. Il cielo è ormai totalmente sereno e la primavera romana è esplosa in tutta la sua bellezza. E in tutto il suo calore. Si suda molto. E l’acqua e i sali minerali sono uno strumento necessario per continuare in questa avventura.

Ad ogni ristoro che passa, mi trattengo sempre un po’ di più. Sembro un irlandese al pub nel giorno di San Patrizio. Bevo un bicchiere d’acqua, uno di sali minerali, prendo due spicchi di mela e mi porto via una bottiglietta d’acqua che mi fa compagnia per circa cinquecento metri. Nel fare ciò, perdo di vista i miei pacemaker che sono più veloci di me nel gestire il ristoro. Allora aumento il ritmo, li riprendo finalmente, non senza difficoltà, all’altezza del ponte di Corso Francia e superiamo insieme il Brunswick Bowling, il locale dove conobbi la mia prima fidanzata.

“Ma non era meglio una partita a bowling, stamattina?”

Tra una vescica subdola e un dolore al bicipite femorale, il quesito esistenziale si impossessa di me. Ed è il primo momento in cui vacillo, mentalmente. Ma non posso permettermelo. Tra poche centinaia di metri c’è la salita di via della Moschea. L’ultimo dislivello bastardo.

Però prima della salita c’è lo spugnaggio che ci permette di rinfrescarci un po’. Mi passo la spugna bagnata sulla testa, dietro al collo. Ed è un piacere quasi onanistico. Ma che non porta nessuna occhiaia.

La salita la supero con passi corti e rapidi. Poi ci sono i Parioli, il Villaggio Olimpico, di nuovo il lungotevere ma in direzione opposta. Costeggiamo per altri quattro chilometri il Tevere e mi rendo conto che, proprio nel punto esatto in cui lo scorso anno crollai, stavolta mi sento bene. Ho testa e, soprattutto, gambe. E anche se i dolori aumentano, il più è fatto. Mancano sei chilometri quando lasciamo il fiume alla sua pigra e bionda esistenza e ci infiliamo a Piazza Navona. L’ingresso nella Piazza ci toglie il fiato e ci emoziona. La gente ci incoraggia. Bambini e anziani. Ragazze e ragazzi. Tutti hanno una parola di incitamento. Usciamo dalla piazza, superiamo Largo Argentina dove tanti anni fa, Giulio Cesare chiedeva “Tu quoque, Bruto, fili mi?” e arriviamo a Piazza Venezia. Di fronte a noi, vediamo gli atleti che stanno scendendo da via Nazionale e sono in dirittura d’arrivo. A noi mancano ancora poco più di quattro chilometri.

E allora eccola a sinistra via del Corso, la via dello shopping che per un giorno si ferma per noi e ci lascia il passo. Quante volte l’ho percorsa da ragazzo alla ricerca di una scarpa alla moda, di un nuovo jeans, del numero di telefono di una pischella che mi aveva sorriso? Comincio ad accusare un po’. Perché meno manca e più ti lasci andare. Più sei convinto di avercela fatta e più le gambe si fanno pesanti. Supero il Parlamento, via Condotti e sbuco a Piazza del Popolo. Ci giro intorno e, come per magia, nello stesso punto dello scorso anno, un signore mi dà lo stesso consiglio di allora. Proprio lì. Come se fosse un dejá vù. Ma non lo è. Ne sono sicuro. Come lui non è lo stesso signore dell’anno prima.

“Alessandro, sorridi!”

Il nome sul pettorale mi identifica. Me lo ripeto anche io. “Alessandro, sorridi!” che manca poco. Ma i sanpietrini di via del Babuino non sono il massimo per i miei piedi doloranti e per Pennywise che si fa sempre più lacerante. È come se avessi una mela piazzata dietro al ginocchio.

Sorrido. E supero Piazza di Spagna senza pensare a quanto è bella e a quante pause pranzo ci ho passato nel corso degli anni. Penso poco. Penso poco anche al dolore. Penso solo al traguardo. A quanto manca. E mentre penso, arriviamo all’ultimo ristoro e al traforo che porta da via del Tritone a via Nazionale.

Una ragazza mi guarda e mi sorride. È carina. Il suo sorriso vale più di due spicchi di mela. Bevo acqua. Ma ormai è fatta. Attraversiamo il tunnel mentre superiamo chi non ce la fa più. Perché il corpo o la testa li ha abbandonati. Camminano, nel buio del traforo. Con la luce alla fine. E sembra una scena di The Walking Dead. Noi corriamo, al ritmo che ci siamo imposti. E che stiamo rispettando. Fino alla fine.

Usciamo dal tunnel e siamo a via Nazionale. Ancora sanpietrini. Ancora per poco, però. Sempre meno. Scendiamo per via IV Novembre e tutta la fatica se ne va. Piano piano. Scacciata via dall’entusiasmo della gente intorno a me e dalla consapevolezza che ce l’ho quasi fatta. Che manca poco per vincere la mia sfida personale.

Arriviamo a Piazza Venezia e a sinistra vedo il traguardo, che quattro ore fa era partenza. Come un porto che accoglie il figliol prodigo di ritorno da un viaggio.

E se mi chiedessero di descrivere una Maratona, la descriverei così: un viaggio all’interno di una città e, soprattutto, dentro se stessi.

Sorrido ai fotografi che immortalano la nostra soddisfazione. Do il cinque ad un bambino che mi dice “Bravo!”. Sorrido mentre taglio il traguardo in quattro ore, quattordici minuti e due secondi. Cinque minuti in meno dell’anno prima.

La medaglia al collo è un momento bellissimo. Così come il Colosseo che accoglie il mio riposo.

Mi sdraio e sorrido ancora. Nonostante i dolori. Nonostante le vesciche. Nonostante Pennywise che non è riuscito nel suo intento.

E penso che si può scegliere di vivere accettando passivamente tutto quello ci capita. O combattere e lottare, per migliorarsi, giorno dopo giorno.

E io ho scelto, da sempre, la seconda opzione. Nella corsa come nella vita.