HYSAJ 6: C’ha la grande capacità de fa danni pure quando la situazione è apparentemente tranquilla. Tipo Verdone quando manda bevuto Mario Brega in “Bianco Rosso e Verdone”: “M’hai fatto carcera’! A ‘nfame! A ‘nfamone!”
LAZIO-ROMA: LE MIE PAGELLE
PEDRO 10: inutile nascondersi dietro a un dito. Il goal suo lo aspettavano tutti i Laziali e lo temevano tutti i romanisti. E siccome uno più uno, a Roma, fa ancora due, eccolo qua. Piattone chirurgico dal limite dell’area ed esultanza catartica senza alcun rimpianto per il suo passato sbagliato. E poi disimpegno con busta e umiliazione sul loro Zaniolo che lo sta ancora a cerca’. Prossimamente su Netflix, una serie dedicata a lui: “Ex Maleducation”.
LAZIO-SARRI: LE MIE PAGELLE
LOTITO 10: la verità è che lui Sarri lo voleva da mo’. Ma c’aveva Inzaghi che co’ ‘sta storia della Lazialità nun se voleva schioda’ da Roma e, soprattutto, Maurizio Sarri si era appena accordato con la Roma. E allora tra il dire e il fare, Claudione mette in mezzo Tare.
LAZIO-ROMA: IL RITORNO DELLE MIE PAGELLE
REINA 8: all’80esimo Lotito je manda ‘na whatsappata: “Guarda che se nun fai manco ‘na parata, devi paga’ er bijetto”. E allora lui, d’accordo coi compari della difesa, pochi minuti dopo, concede a Dzeko l’illusione dell’occasione mancata quando invece era solo un modo pe’ sfanga’ i venti euro de ‘na Curva.
DIST(ANZI)OPIA
Marzo e aprile erano ormai trascorsi da qualche mese. Il Coronavirus era apparentemente, e improvvisamente, regredito a qualche sporadico caso. Ma lo show andava comunque avanti. Al Governo serviva per mantenere alta la paura nelle case e, soprattutto, nella testa, degli italiani. “Paura”, infatti, era il mood del Governo guidato da Giuseppe Conte, ormai diventato un vero e proprio sex symbol grazie al successo dell’account Instagram, “Le bimbe di Conte” (sempre più insistente era la voce che fosse una trovata propagandistica di Rocco Casalino). Il consueto appuntamento quotidiano con il bollettino della Protezione Civile delle 18, visto lo scemare dei casi, si era trasformato in un appuntamento domenicale fisso all’interno di “Domenica In”, “Tutto il virus minuto per minuto”, durante il quale Angelo Borrelli si collegava con gli inviati nelle varie regioni per commentare i dati settimanali di contagiati, deceduti e guariti. Il tutto con un sensazionalismo negativo condito da frasi come “il virus è sempre in agguato”, “non abbassiamo la guarda” e via discorrendo. L’uomo a capo della Protezione Civile era ormai un volto più familiare di Fiorello e Bonolis e girava voce, nelle segrete stanze della Rai, che sarebbe stato molto probabilmente lui a presentare il prossimo Festival di Sanremo. Le star della tv e dei social non erano più gli influencer, i cantanti e i presentatori, ma i virologi. Che ormai avevano abbandonato il loro ruolo specialistico per abbracciare tematiche più frivole e meno consone ai loro studi. E così, Roberto Burioni, vista la sua passione per il calcio e per la Lazio, era stato scelto per condurre su Sky insieme a Giovanni Rezza, suo contraltare romanista, “Il Derby ai tempi del Coronavirus”, ogni lunedì alle 22. Ilaria Capua era stata scelta da Mediaset per condurre tutti i giorni “Pomeriggio 5” al posto della D’Urso, Maria Rita Gismondo aveva soppiantato Benedetta Parodi nella diffusione delle ricette via cavo mentre Giovanni Maga aveva sostituito Alessandro Cattelan alla guida del suo famoso talkshow, ribattezzato per l’occasione “EPCM”. Le mascherine erano diventate un gadget più fashion che utile ma a cui nessuno rinunciava più. In commercio, si trovavano di tutti i tipi: di seta, in pile, di pelliccia, in Gore-tex, con lo stemma della propria squadra del cuore e c’era un sito che le faceva anche personalizzate. Da quando erano stati inventati i filtrini sostituibili da inserire in una speciale tasca interna, la mascherina non era più usa e getta ma un vero e proprio status symbol. Non c’era un brand che non si fosse buttato a capofitto nel business del volto coperto. Mancavano dieci anni al famoso “2030” descritto dagli Articolo 31 a fine anni 90 ma la realtà aveva di gran lungo superato la fantasia. Forse solo Ambra, primo Presidente donna, avrebbe potuto ribaltare la situazione. La serie A, dopo le polemiche vissute durante la pandemia, era ripartita ma negli stadi erano stati rimossi tutti i seggiolini che impedivano il mantenimento della distanza di sicurezza. E così, dopo un goal della propria squadra del cuore, non ci si poteva più abbracciare, pena il Daspo a vita ratificato sul posto dagli steward che vigilavano. Gli eventi musicali si svolgevano soltanto online. C’era il palco, la band, l’artista. Ma il pubblico assisteva da casa, in diretta, dopo aver pagato l’accesso alla piattaforma tramite carta di credito. A scuola avevano creato il doppio turno. Le classi erano state smezzate per mantenere il distanziamento obbligatorio per legge e un gruppo andava la mattina e un altro il pomeriggio. Tra i due turni, le classi venivano sanificate da cima a fondo. Per la spesa, i supermercati proseguivano tranquillamente con le disposizioni attuate ai tempi dell’isolamento coatto. Mentre i negozi si erano ormai trasformati in un mix tra una boutique e un ufficio postale. Accesso limitato. Clienti spesso ricevuti su appuntamento o gestiti attraverso un numeretto da prendere all’esterno del negozio e plexiglass divisori in cassa e tra i vari reparti per evitare ogni possibile contatto. Ah, già, i contanti erano stati eliminati e si poteva pagare solo con carte e bancomat. Mentre per bar, pub e ristoranti, obbligati come tutti al rispetto delle norme igieniche, aveva preso vita un pericoloso ma affascinante fenomeno che andava sotto il nome di “Distanzionismo”: nel retro di molti locali, infatti, erano state adibite sale a cui si accedeva solo tramite una parola d’ordine e nelle quali si potevano organizzare tavolate di trenta persone, per i ristoranti, oppure si poteva ordinare un caffè al bancone stando compresso tra una decina di altri avventori, per i bar, oppure guardarsi una partita della propria squadra del cuore, esultando e abbracciandosi a ogni goal, per i pub. Il tutto in barba a ogni disposizione governativa. Era un fenomeno sempre più diffuso, nato e sviluppatosi grazie a Telegram, che il Governo cercava di combattere in tutti i modi con una task force di agenti scelti chiamata “Gli Indistanziabili”. Era un periodo sociale ed economico molto buio. E la maggior parte della popolazione si era ormai arresa a tutto questo. Ogni tipo di nostalgia “storica” e canaglia era stato spazzato via. I rabbiosi anni ’70? Gli edonistici anni ‘80? I voluttuosi ‘90? I “macchenesannoiduemila”? “Gli anni d’oro del grande Real, gli anni di Happy Days e di Ralph Malph”? Macché. Tutti in Italia si sarebbero accontentati di tornare soltanto a pochi mesi prima. Al 2019. Ma mai come in quei giorni, il passato era stato così remoto. E, soprattutto, distante.
Qualcuno però cominciava a non essere d’accordo. E iniziava a pensare a come venirne fuori.
(1-continua)
BOROTALCO 2.017 di Alessandro Aquilino e Emiliano Bernardini
Tre anni fa, ispirati da una tipica giornata estiva romana, io ed Emiliano Bernardini ci chiedemmo che fine avessero fatto i personaggi di una delle più belle commedie italiane di sempre. Sergio, suo suocero, Nadia, Rossella, Valeria, Cristiano, Marcello e, last but not least, Cesare Cuticchia aka Manuel Fantoni. In una sola parola, “Borotalco”. Una commedia degli equivoci splendida, vincitrice del David di Donatello. Quindi, con l’umiltà di chi si approccia a qualcosa di “sacro” e intoccabile e con il rispetto e la passione che si provano nei confronti di un’opera che ci ha regalato risate infinite e mai passate di moda, abbiamo cominciato a scrivere un racconto a puntate che pubblicammo allora sulle nostre bacheche Facebook. A distanza di tre anni, in questi giorni di isolamento forzato, abbiamo deciso di unire tutte le puntate in un unico file, sperando di farvi cosa gradita e di strapparvi solo un decimo delle risate che il capolavoro di Carlo Verdone ha strappato a tutti i suoi fan. Buona lettura.
“C’è mancato poco che non succedesse mai” di Alessandro Aquilino
Questa è la storia di cinque ragazzi. La cui amicizia si è persa nei labirinti tortuosi dell’età adulta. È la storia di una ragazza ormai donna che si divertiva ad attraversare vite in diagonale. È la storia di un professore, che non ha più nulla da chiedere alla vita se non una seconda possibilità. Questa è la storia di quella seconda possibilità. Ma, soprattutto, questo è il mio primo romanzo. Pubblicato nel 2013 e mai più ristampato. Lo potete scaricare gratis al link qui sotto. Grazie e buona lettura.
“TRENT’ANNI: UNA VITA”
Lo ammetto. Quando il Tucu Correa, a pochi minuti dalla fine, ha snaturato sé stesso e anziché accarezzare il pallone come suo solito, ha scelto di entrare nella storia della Lazio con una potenza e un senso del goal che non pensavo potessero appartenergli, ho pianto. Nel buio della stanza, illuminato solo dai led del televisore e dalle giocate sontuose di un Luis Alberto mai così divino, sono esploso in un pianto catartico, come mai mi era accaduto durante una partita della Lazio (Scudetto escluso, ovviamente). La mia compagna, avvertita del vantaggio della Lazio dal mio urlo improvviso che deve aver svegliato gran parte del palazzo, percependo il mio singhiozzare, mi ha raggiunto davanti al televisore, chiedendomi cosa avessi e cosa fosse successo. E tutto quello che sono riuscito a dirle è stato: “Trent’anni”. Già, trent’anni. Tanto è passato da quando Maldini infilò nella propria porta il più clamoroso degli autogoal. Da quel momento, Lazio più o meno forti contro Milan più o meno stellari erano sempre uscite con le pive nel sacco, a volte anche in modo rocambolesco e immeritato, dal San Siro rossonero. Avevo quattordici anni e tre mesi esatti, quel pomeriggio di settembre. Eravamo a casa di mia nonna a Palombara Sabina, come ogni fine settimana della mia adolescenza, e io stavo giocando a pallone in giardino quando mio fratello si affacciò al balcone per dirmi che eravamo passati in vantaggio. Ricordo tutto come fosse ieri. Una Polaroid impressa nella mia mente che finalmente, dopo ieri sera, posso finalmente mandare in soffitta. E così, trent’anni e due mesi dopo, i ricordi di una vita sono esplosi nella mia testa in un improvviso e irrefrenabile rewind. Il ragazzino pieno di sogni che ero e l’uomo con mille difetti che sono adesso. Il diploma. Il servizio militare a Verona e a Mestre. L’ingresso nel mondo del lavoro e la mia crescita professionale. Il mio primo racconto pubblicato sul “Guerin Sportivo”. La malattia e la scomparsa di mio Padre. La prima volta che ho visto Bruce Springsteen dal vivo. I miei errori e la mia rinascita. Il mio primo romanzo. L’amore. La collaborazione con “Il Corriere dello Sport”. Trent’anni. Con la Lazio sempre presente. A fare da splendida colonna emotiva di una vita che non finisce mai di stupire ed emozionare. Come ieri sera. A quarantaquattro anni e cinque mesi esatti. Quando un uomo si riscopre ragazzino. E comincia a piangere.
27 OTTOBRE 1979
Vincenzo tirò giù la serranda dell’officina e si avviò verso casa. Era sabato sera. Un’altra settimana era finita. Montespaccato era una borgata che accompagnava la periferia nord di Roma fino alla campagna pre Raccordo Anulare. Gli anni di piombo stavano lasciando pian piano spazio a quelli della Banda della Magliana. In un incrocio sempre più perverso di politica e criminalità. Vincenzo era un uomo tranquillo. Una moglie e due figli. E quei trentatré anni così già pieni di responsabilità.
Vincenzo arrivò a casa. Baciò la moglie sulle labbra. Accarezzò i capelli ai suoi due bambini intenti a giocare con le macchinine della Polistil. E poi andò in bagno per togliere dalle mani le ultime scorie di una settimana lavorativa.
Poi andò in cucina. Senza farsi sentire dalla moglie, le si avvicinò alle spalle. E con le mani profumate di vita, amore e lavoro le coprì gli occhi.
“Lasciame! Vince’! Devo fini’ de cucina’…”
“T’ho fatto ‘na sorpresa, amo’!”
Poi tolse le mani. Lei si girò. E lui le mostrò sorridente due biglietti colorati.
“E che so’?”
“Du’ biglietti per il Derby di domani…”
“Oddio, il Derby…ma nun sarà pericoloso, Vince’?”
“Ma che? Lo stadio? Ma che stai a di’! Se portamo du’ pagnottelle e vedemo la Lazio vince. Dai retta a Vincenzo tuo!”
“Allora se me dici che è tranquillo, ce vengo volentieri! Grazie Amore mio! Ora però chiama i pupi, che la cena è quasi pronta…”
Vincenzo andò in cameretta. Richiamò all’ordine i suoi due eredi.
“Dai, ragazzi, che è pronta le cena! Se magna!”
E sorrise, Vincenzo.
Perché la vita era bella.
Il 27 ottobre del 1979.
DISAGIO
Disagio. È tutto ciò che provo di fronte a questa narrazione moderna che non lascia spazio al ragionamento. Alla riflessione necessaria per capire cosa è accaduto cosa accade. Disagio. Di fronte ai giudizi avventati. Di fronte alla violenza verbale. Di fronte alla necessità di trovarsi un nemico travestito da fatto del giorno. Disagio nei confronti di chi non capisce quando è il momento di tacere. Nei confronti di chi deve dire sempre la propria. Disagio nei confronti di chi crea narrazioni per portare l’acqua al proprio mulino. Nei confronti di chi si è creato un personaggio. Disagio per una società che eleva il “Joker” a figura di riferimento. Per una società che non vede l’ora di dire “eh, poverino”. Per una città che implode su se stessa. Cannibalizzata dall’interno. Giustificata dalle sue stesse vittime. Disagio per chi non si stupisce più. Per chi non ha passioni. Per chi si è arreso. Per chi ha smesso di lottare. Per chi ha smesso di vivere. Disagio per chi ha scelto di sopravvivere.