LAZIO-INTER: LE MIE PAGELLE

REINA 7,5: nella partita apparentemente più difficile dopo la comparsata a “Paperissima sprint” di domenica scorsa, se ritrova a fa’ solo una parata. Poi però dopo ave’ preso lo straccio bagnato de Lautaro (che è come quei cani de merda che abbaiano sempre ma nun mozzicano mai), ha l’intuizione più riuscita della partita: fa riparti’ il contropiede proprio là, dove Dimarco (con i capelli de uno che sembra uscito da un film de Almodovar) pare Kennedy a Dallas.

HYSAJ 6: C’ha la grande capacità de fa danni pure quando la situazione è apparentemente tranquilla. Tipo Verdone quando manda bevuto Mario Brega in “Bianco Rosso e Verdone”: “M’hai fatto carcera’! A ‘nfame! A ‘nfamone!”

MARUSIC 7: quando gioca lui, le diagonali arrivano in orario.
PATRIC 8: dove non c’arriva con il fisico ci arriva con la foga. Un po’ come quando Alvaro Vitali provava a scopasse Carmen Russo in certe commedie anni ‘80.
LUIZ FELIPE 8: salta sulla schiena di Correa con quella maschia goliardia der mejo amico tuo quando t’abbraccia a fine serata e te dice “sei andato in bianco stasera eh? Beh, io no! Fregnone!”
LAZZARI 8: spacca la partita con la stessa facilità con cui il grande Bud Spencer apriva in due una noce di cocco.
LEIVA 7: peccato che ormai duri solo un tempo. Come certi film de Muccino.
CATALDI sv: chiede a Sarri de entra’ perché sennò Lotito je scalava l’ultimi sessanta euro rimasti sul coupon de Vivaticket.
BASIC 7,5: la mossa a sorpresa di Sarri che garantisce qualità e quantità nella prima parte di gara. Va vicino al goal grazie allo stesso inserimento fatto in Europa League (ma stavolta di piede). E se Milinkovic è per tutti noi “Er Sergente”, lui è già Caporale Maggiore.
LUIS ALBERTO 8: la punizione del terzo goal è un apostrofo rosa sulle parole “tiè, segna!”
MILINKOVIC-SAVIC 10: quando vede l’Inter se trasforma come Jeeg-Robot quando Miwa je lanciava i componenti. Dopo un primo tempo di quantità, nel secondo sale in cattedra con il suo solito strapotere tecnico. Sulla pennellata di Luis Alberto, va in terzo tempo su Skriniar tipo Lebron James che schiaccia in faccia a Gigi la Trottola. Poi l’esultanza dopo, beh, l’esultanza dopo, beh, l’esultanza dopo, beh (no, nun me so’ incajato tranquilli) è solo che l’esultanza dopo, beh, con quelle mani mosse come a dire “attaccateve tutti ar cazzo”, beh, io la userei come poster per la prossima campagna abbonamenti.
PEDRO 7,5: “magari ti chiamerò trottolino amoroso e dudu dadadà.”
AKPA AKPRO sv: entra solo pe’ fa l linguaccia alla telecamera ed è subito Steve Urkel ai tempi de “Otto sotto un tetto”.
FELIPE ANDERSON 10: c’è stato un momento qualche anno fa in cui smettesti, per me e per quelli come me che nel calcio riversano gli stessi sentimenti che mettono nella vita di tutti i giorni, di essere un giocatore della Lazio. Fu quando, in una partita contro il Genoa che perdemmo nel recupero, entrasti in campo svogliato, abulico e dichiaratamente polemico nei confronti del mister di allora, reo di snaturarti e di non metterti nelle condizioni di esaltare e dare libero sfogo al tuo estro e alla tua esplosività. Al netto di tutto questo, però, nessuno ti perdonò la tua mancata chiusura sul secondo palo dopo la parata di Perin su Immobile. Lo stesso Immobile ti guardò infuriato, e noi con lui, maledicendoti per non aver accompagnato l’azione che avrebbe sancito il goal della probabile vittoria. Ieri però il Destino ti ha teso una mano. E lo ha fatto, come spesso accade, nel migliore dei modi possibili. Contro il tuo vecchio mister, prima ti ha costretto a tirare fuori il Felipe che non conoscevamo. Perché noi eravamo abituati a quello che piange quando Koulibaly gli ruba palla in un leggendario Napoli Lazio. E allora ‘sticazzi di Di Marco a terra, hai pensato. Restasse lì, a simulare un colpo di fucile ricevuto dagli spalti. Ed eccolo poi Ciro pescato con quella delicatezza che solo il tuo piede educato può rendere così elementare. E poi eccola l’azione da seguire. Tu che pensi “stavolta ci sono”. Perché il Comandante che siede in panchina, il giorno prima, ha detto che si aspetta una reazione dagli uomini e non dai calciatori. E tu ora lo sei: uomo. E allora eccola la smanacciata di Handanovic e la palla che arriva lì. Dove stavolta arrivi a chiudere il cerchio. Nuovamente e finalmente Laziale. Di quelli migliori. Quelli che hanno invitato a cena Storia, Karma e Destino. E hanno pagato il Conto.
ZACCAGNI 7: torna in campo dopo l’infortunio all’ileopsoas. E la domanda nasce spontanea: ma che cazzo è l’ileopsoas?
IMMOBILE 9: rimette le cose a posto con il rigore e poi porta al bar Skriniar (ma poi lo lascia lì e lui va in porta) nell’azione del 2-1. A soli due goal da Piola, più che mai l’ago della bilancia di questa squadra.
SARRI 10: in conferenza stampa, il Comandante aveva detto “mi aspetto una risposta dagli uomini, non dai calciatori”. E così è stato. Presenta una Lazio fisica in grado di giocarsela con la temibile armata nerazzurra e poi la stravolge per arrivare alla vittoria proprio nel momento in cui la maggior parte degli allenatori avrebbe rinviato i cambi dopo aver raggiunto il pareggio. E invece no. Sarri la vince perché vuole vincere mentre Inzaghi la perde, come spesso gli capita, perché la vuole pareggiare. E così mentre Inzaghi toglie Bastoni, Sarri carica a denari con Lazzari e Luis Alberto. E mentre tutti fanno girare la baracca mediatica intorno al mancato fair play, in pochi mettoni in evidenza i meriti di un allenatore e i demeriti dell’altro. Ma a noi ce piace così. Da soli contro tutti. E con in testa il nostro Comandante. Uno che sa trasformare la cultura del lavoro in passione. E la passione in spettacolo.
SPECIAL GUEST
DIMARCO 4: te sei riarzato, bello de mamma? Tutto bene? Fai pure con comodo. Tanto a noi nun ce ne frega un cazzo. Continuamo a gioca’ lo stesso.
CORREA 3: di tanti giocatori scippatici dall’Inter, forse il più inutile. E pure un amico de merda. Se po’ di’?
SIMONE INZA…chi?
AVANTI LAZIO
AVANTI SARRISTI

LAZIO-ROMA: LE MIE PAGELLE

REINA 8: reattivo tra i pali come nei suoi anni migliori. Sul destro di Zaniolo compie la migliore parata del campionato. Ora mi spiego perché è arrivato al campo con la DeLorean.
MARUSIC 7,5: la mossa a sorpresa di Sarri che lo preferisce a Lazzari capendo che in alcune situazioni i centimetri in più contamo. Un po’ come quando stavi pe’ anda’ in discoteca, te guardavi allo specchio e te mettevi un po’ più de ovatta nelle mutande.
HYSAJ 7: è come quell’amico tuo che sa fa’ tutto. Te perde il lavandino, chiami lui. Nun te parte la macchina, chiami lui. Te becchi un virus sul pc perché guardi troppi porno, chiami lui. Te se blocca DAZN? Mmh, lì nun te salva manco Gesù Cristo.
ACERBI 8: a inizio partita s’avvicina all’attaccante della Roma e gli chiede: “Scusa moro, com’è che ti chiami te?”. E lui: “Abraham”. Acerbi, compiendo uno strano gesto con le mani, risponde: “Cadabra”. E lo fa’ spari’ per tutti i 90 minuti.
LUIZ FELIPE 7,5: quando mette da parte l’estetica e si concentra sulla concretezza, sfoggia le sue migliori prestazioni. Come consigliava il tizio a Ceccherini durante il provino ne “I laureati”: “un poco poco più ah e un poco poco meno invece ah”.
LEIVA 7,5: te prego Lucas, nun ce manda’ più tu’ cugino.
CATALDI 7: perché quando la partita si fa dura, c’è bisogno pure del senso d’appartenenza de sto ragazzetto qua.
LUIS ALBERTO 7,5: il raggio laser con cui innesca Immobile vale da solo il prezzo del biglietto. Quando uscirà dal campo felice dopo una sostituzione, allora qual giorno sapremo che il tempo di Luis Alberto alla Lazio è terminato.
AKPA AKPRO 7: provi a pronunciarlo e te se sloga un incisivo. L’unico giocatore africano senza alcun tipo di fascia muscolare entra in campo e non viene ammonito. E già questa, è una splendida notizia.
MILINKOVIC SAVIC 8,5: segna di testa e sviene, non rendendosi conto di aver segnato il goal del vantaggio. Il laccio californiano di Rui Patricio lo stordisce talmente tanto che inizia a esulta’ intorno alle 22 quando scende in giardino all’Olgiata e comincia a corre andando a citofona’ a tutti i compagni.
FELIPE ANDERSON 9: passa tutta la settimana a giocare a FIFA 15 per provare a ripetere quelle giocate che lo resero inarrestabile. Poi scende in campo e gioca come se fosse Beep Beep facendo fare a Vina figura del Coyote. Pare che la Panini quest’anno farà uscire l’album dei Calciatori in una “Vina Version” senza la figurina di Anderson: un modo carino per dimostrare solidarietà a un giocatore con seri problemi di labirintite.
IMMOBILE 8: solo un minestraro ripulito come Roberto Mancini può trasformare il più prolifico e altruista attaccante italiano degli ultimi anni in un giocatore abulico e fuori contesto. La verità è che Ciro Immobile è un attaccante talmente particolare che va capito ed esaltato. I due assist con cui spacca la partita sono tanta roba. Roba alla Roberto Mancini, appunto.
MURIQI sv: in partite come queste, vojo bene pure a lui.

PEDRO 10: inutile nascondersi dietro a un dito. Il goal suo lo aspettavano tutti i Laziali e lo temevano tutti i romanisti. E siccome uno più uno, a Roma, fa ancora due, eccolo qua. Piattone chirurgico dal limite dell’area ed esultanza catartica senza alcun rimpianto per il suo passato sbagliato. E poi disimpegno con busta e umiliazione sul loro Zaniolo che lo sta ancora a cerca’. Prossimamente su Netflix, una serie dedicata a lui: “Ex Maleducation”. 

SARRI 10: quando leggevo di Laziali che dopo cinque partite chiedevano la sua testa, mi tornavano in mente le parole di un mio amico, tifoso di un’altra squadra, quando dice che certe piazze non meritano certi allenatori perché troppo schiave del proprio provincialismo. Ecco, io amo Maurizio Sarri. Amo la sua ossessione e dedizione verso un lavoro che ama e che si è meritato partita dopo partita. Mi emoziono quando lo vedo prendere appunti durante la partite. Lo ascolto in conferenza stampa perché ha sempre qualcosa di interessante da dire, da spiegare. Mi ha emozionato a fine partita quando è corso come un bambino felice sotto la Nord. Con l’entusiasmo di Geppetto quando forgia Pinocchio. Con la felice incredulità con cui Michelangelo chiede al suo Mosé: “Perché non parli?”. Ieri Maurizio Sarri ha messo in piedi un piccolo grande capolavoro. Costringendo Mourinho a dire “abbiamo dominato” dopo che in venti minuti la sua Lazio aveva messo già la partita in ghiaccio.
MOURINHO 10: amo José Mourinho da sempre. La sua dialettica, il suo modo di entrare nella testa dei giocatori e nel cuore dei suoi tifosi. Amo guardarlo nei gesti meno reclamizzati, quando aspetta che la Lazio entri per salutare Sarri, per esempio. O durante il siparietto con Felipe Anderson. E lo conosco. Non di persona, sfortunatamente ma è uno con cui andrei volentieri a cena. E so che in quanto detto a fine partita non ci crede nemmeno lui. Parla di dominio giallorosso per non dover ammettere che ha sbagliato approccio e che la Lazio avrebbe potuto chiudere la partita dopo mezz’ora. Il dominio avviene solo quando è costretto a rimettere la partita in carreggiata, mai prima. È un dominio di inerzia, non di gioco. E la Lazio fa sostanzialmente ciò che deve fare una squadra sempre in vantaggio: aspetta e riparte. Parla dell’arbitro senza far riferimento al rosso che avrebbe meritato Rui Patricio per un intervento completamente senza senso. O la gomitata in faccia di Mancini a Muriqi. Chiede un doppio giallo ridicolo su Leiva ma tutto è fatto in maniera chirurgica per distogliere le attenzioni dai suoi errori e da quelli della sua squadra. Chi lo conosce, lo sa. Io continuo ad amarlo, colori a parte. Perché certi personaggi, come lo stesso Sarri ma in maniera diametralmente opposta, rendono il calcio uno sport bellissimo. E hanno reso il Derby di ieri uno dei più intendi degli ultimi anni.
ZANIOLO 4: tecnica ed esplosività al servizio di un cervello con un neurone che se chiede dove so’ finiti tutti gli altri. La sceneggiata sul rigore gli apre infinite prospettive cinematografiche a fine carriera. Potrebbe essere un giocatore devastante, ma molto probabilmente verrà ricordato come il Balotelli bianco.
AVANTI LAZIO

LAZIO-SARRI: LE MIE PAGELLE

LOTITO 10: la verità è che lui Sarri lo voleva da mo’. Ma c’aveva Inzaghi che co’ ‘sta storia della Lazialità nun se voleva schioda’ da Roma e, soprattutto, Maurizio Sarri si era appena accordato con la Roma. E allora tra il dire e il fare, Claudione mette in mezzo Tare. 

“Aho, Igli, so’ er Presidente. Lo sai fa’ l’accento portoghese?”
“Si, Presidente, da ragazzino io fatto provino a Lisbona”.
“Ecco bravo, allora chiama Trigoria e fatte passa’ Friedkin. Je dici che sei Mourinho. Che te sei liberato dal Tottenham e che il sogno tuo è sempre stato quello de allena’ Totti”.
“Ma Presidente, Totti ha smesso quattro anni fa”.
“Nun fa niente! Tu di’ così che funziona sempre”.
Con grande sorpresa di tutto l’ambiente calcistico, e anche di Mourinho stesso, la Roma il giorno dopo annuncia l’ingaggio di José Mourinho. Lasciando libero Sarri.
Ora bisogna solo convincere Inzaghi ad andare via. Ma come?
“Igli, tocca trovare una squadra importante, che giochi con il 3-5-2 e che sia ben collegata con Roma perché lo sai Simone com’è fatto, no? “Gaia de qua, Gaia de là!””.
“Beh, ci sarebbe l’Inter ma loro hanno Conte e soprattutto hanno appena vinto lo Scudetto”.
“Perfetto, bravo Igli, lascia fare a me, ce penso io. Passame er telefono ma prima chiama Conte ma metti er cancelletto e l’asterisco così nun compare er numero. E mo’ che ce parlo nun me fa ride che te rimando a Tirana a vende’ le aquile de legno scolpite da tu’ cugino Dimitri”.
“Plonto, Antonio? Sono il Plesidente Zhang, volevo solo dilti che qui all’Intel non abbiamo più una lila. E che se tu dale me Iban, io velsale buona uscita subito subito. Ma tu plima devi filmale dimissioni”.
Con la panchina dell’Inter libera, si entra nella fase finale del piano messo in piedi da Lotito. Arriva il giorno dell’incontro a Villa San Sebastiano. Sul piatto c’è il rinnovo di Inzaghi per la prossima stagione.
Quando Inzaghi entra, Lotito mette a palla nello stereo una canzone per confondere le idee a Simone.
“Ma Presidente! Questa è…”
“Sì, Simo’…AMALA, PAZZA INTER, AMALA!! 🎵 🎵 ma non lo sentì che ritmo? Che testo? È UNA GIOIA INFINITA CHE DURA UNA VITA!”
Inzaghi a questo punto è confuso. Lotito tira fuori il contratto.
“Allora, Simo’, tutto ok. Visto il lavoro fatto in questi anni ti propongo un bel biennale a quattro milioni l’anno. E te dirò de più: come la vedi se l’anno prossimo torni ad allena’ de Vrij?”
“Fantastico! Siete riusciti a convincerlo a tornare?”
“Non proprio! Tu prima firma però…sbrigate!”
Inzaghi firma. Una stretta di mano a sancire l’accordo. Poi il solito brindisi per festeggiare. E poi Inzaghi lascia felice Villa San Sebastiano. Conferma ai giornalisti fuori la dimora di Lotito, il lieto fine della trattativa. E poi incredulo per quell’aumento inaspettato rilegge di nuovo il contratto. Per poi scoprire che…
“Ah Preside’, sono Simone. Scusi eh, ma stavo a rilegge il contratto ma perché è stampato sulla carta intestata dell’Inter?!?”
Tutututututututu.
“Pronto, il signor Sarri? Sono Claudio Lotito, presidente della Lazio, la prima squadra della Capitale. Le volevo chiedere se era impegnato per i prossimi due anni con un’opzione per il terzo?”
TARE 7: perché tutti sappiamo che a un certo punto è partito con la sua Trabant diesel e ha raggiunto casa de Sarri in Toscana. Ma pe’ fa che? Pe’ convince il Comandante che Muriqi e Akpa Akpro nello stretto so’ capaci de duetta’ come Jorginho e Insigne? Che Escalante in Argentina lo chiamavano “il Valdifiori della Pampa”? No, niente de tutto questo. La verità è che mentre Lotito e Sarri erano in call su Zoom pe’ defini’ i premi partita, a Sarri è venuta improvvisamente voglia de mozzarella de bufala de Battipaglia. E così Claudione ha tirato fuori dalla tasca il rotolo de pezzi da 50 euro, je n’ha allungati tre a Tare e j’ha detto:
“Tiè, va a Battipaglia, comprace tutta la mozzarella che ce vie’ fuori co’ ‘na piotta e mezza e portajela a casa”.
“Ma’ Presidente’, da qui fino a Battipaglia e poi in Toscana….”
“Vai e zitto, Igli. O te devo ricorda’ quando m’hai detto che Durmisi andava sulla fascia come un treno?”
INZAGHI: cinque anni da 8, un giorno da 4. Ma che purtroppo fa media come certi compiti in classe de fine anno. Cinque anni in cui il senso di appartenenza e la Lazialità hanno valorizzato i risultati e le vittorie e hanno contribuito a chiudere un occhio di fronte a certe decisioni spesso incomprensibili. Perché la tua Lazio è stata per lunghi tratti bellissima ed emozionante  e c’è stato un momento in cui i romanisti hanno avuto più paura della Lazio che del Covid stesso. Ma siccome, per citare quel capolavoro di “Fight Club”, “in un arco di tempo abbastanza lungo, l’indice di sopravvivenza di un individuo scende a zero”, alla lunga sono venuti a galla anche i tuoi difetti. Che noi malati di Lazio saremmo stati anche in grado di perdonare se non fosse che dopo aver sbandierato di nuovo la tua Lazialità in tv (che non è la trasmissione de Guidone), hai preferito rimagnatte tutto e vola’ a Milano. Che poi ce sta pure eh. Però bastava nun fa tutte quelle manfrine e magari ce potevi saluta’ comprando ‘na pagina der Corriere dello Sport. Perché a noi tifosi, tanto romantici quanti fregnoni, ste cose ce piacciono e ce fanno dimentica’ tutto. E invece no. Manco quello. Vabbè.
PEDULLA’ 10: in un mondo de cazzari, lui si è dimostrato da subito la fonte più affidabile. Sbaragliando la concorrenza e diventando presto l’unico vero riferimento per chi voleva seguire la trattativa senza isterismi. E Bargiggia muto.
SARRI 10: devi sapere, caro Maurizio, che nella sua Storia la Lazio ha spesso reso grandi, allenatori agli albori della loro carriera. Maestrelli, Mancini, Inzaghi, lo stesso Pioli, Delio Rossi e ci metto pure Ballardini che se avrà ‘na cosa da racconta’ ai nipoti sarà quando ha vinto la Supercoppa contro l’Inter di Mourinho. Quando invece sulla panchina s’è seduto Eriksson, uno che già sapeva come se faceva a vince, sappiamo tutti quello che è successo. Ecco, io nun te dico de famme rivive quei tre anni meravigliosi perché ormai so’ vecchio e er core nun reggerebbe. Però ecco, la sensazione de pote’ fasse un giretto intorno al Sole senza la paura de squajamme le ali, quello sì.
Indicaci la strada, Comandante. Noi saremo pure stronzi, antipatici e polemici ma soprattutto siamo una bella tifoseria de soldati pronti a tutto.
AVANTI LAZIO.

“TRENT’ANNI: UNA VITA”

Lo ammetto. Quando il Tucu Correa, a pochi minuti dalla fine, ha snaturato sé stesso e anziché accarezzare il pallone come suo solito, ha scelto di entrare nella storia della Lazio con una potenza e un senso del goal che non pensavo potessero appartenergli, ho pianto. Nel buio della stanza, illuminato solo dai led del televisore e dalle giocate sontuose di un Luis Alberto mai così divino, sono esploso in un pianto catartico, come mai mi era accaduto durante una partita della Lazio (Scudetto escluso, ovviamente). La mia compagna, avvertita del vantaggio della Lazio dal mio urlo improvviso che deve aver svegliato gran parte del palazzo, percependo il mio singhiozzare, mi ha raggiunto davanti al televisore, chiedendomi cosa avessi e cosa fosse successo. E tutto quello che sono riuscito a dirle è stato: “Trent’anni”. Già, trent’anni. Tanto è passato da quando Maldini infilò nella propria porta il più clamoroso degli autogoal. Da quel momento, Lazio più o meno forti contro Milan più o meno stellari erano sempre uscite con le pive nel sacco, a volte anche in modo rocambolesco e immeritato, dal San Siro rossonero. Avevo quattordici anni e tre mesi esatti, quel pomeriggio di settembre. Eravamo a casa di mia nonna a Palombara Sabina, come ogni fine settimana della mia adolescenza, e io stavo giocando a pallone in giardino quando mio fratello si affacciò al balcone per dirmi che eravamo passati in vantaggio. Ricordo tutto come fosse ieri. Una Polaroid impressa nella mia mente che finalmente, dopo ieri sera, posso finalmente mandare in soffitta. E così, trent’anni e due mesi dopo, i ricordi di una vita sono esplosi nella mia testa in un improvviso e irrefrenabile rewind. Il ragazzino pieno di sogni che ero e l’uomo con mille difetti che sono adesso. Il diploma. Il servizio militare a Verona e a Mestre. L’ingresso nel mondo del lavoro e la mia crescita professionale. Il mio primo racconto pubblicato sul “Guerin Sportivo”. La malattia e la scomparsa di mio Padre. La prima volta che ho visto Bruce Springsteen dal vivo. I miei errori e la mia rinascita. Il mio primo romanzo. L’amore. La collaborazione con “Il Corriere dello Sport”. Trent’anni. Con la Lazio sempre presente. A fare da splendida colonna emotiva di una vita che non finisce mai di stupire ed emozionare. Come ieri sera. A quarantaquattro anni e cinque mesi esatti. Quando un uomo si riscopre ragazzino. E comincia a piangere.

27 OTTOBRE 1979

Vincenzo tirò giù la serranda dell’officina e si avviò verso casa. Era sabato sera. Un’altra settimana era finita. Montespaccato era una borgata che accompagnava la periferia nord di Roma fino alla campagna pre Raccordo Anulare. Gli anni di piombo stavano lasciando pian piano spazio a quelli della Banda della Magliana. In un incrocio sempre più perverso di politica e criminalità. Vincenzo era un uomo tranquillo. Una moglie e due figli. E quei trentatré anni così già pieni di responsabilità.

Vincenzo arrivò a casa. Baciò la moglie sulle labbra. Accarezzò i capelli ai suoi due bambini intenti a giocare con le macchinine della Polistil. E poi andò in bagno per togliere dalle mani le ultime scorie di una settimana lavorativa.

Poi andò in cucina. Senza farsi sentire dalla moglie, le si avvicinò alle spalle. E con le mani profumate di vita, amore e lavoro le coprì gli occhi.

“Lasciame! Vince’! Devo fini’ de cucina’…”

“T’ho fatto ‘na sorpresa, amo’!”

Poi tolse le mani. Lei si girò. E lui le mostrò sorridente due biglietti colorati.

“E che so’?”

“Du’ biglietti per il Derby di domani…”

“Oddio, il Derby…ma nun sarà pericoloso, Vince’?”

“Ma che? Lo stadio? Ma che stai a di’! Se portamo du’ pagnottelle e vedemo la Lazio vince. Dai retta a Vincenzo tuo!”

“Allora se me dici che è tranquillo, ce vengo volentieri! Grazie Amore mio! Ora però chiama i pupi, che la cena è quasi pronta…”

Vincenzo andò in cameretta. Richiamò all’ordine i suoi due eredi.

“Dai, ragazzi, che è pronta le cena! Se magna!”

E sorrise, Vincenzo.

Perché la vita era bella.

Il 27 ottobre del 1979.

LAZIO-UDINESE: LE MIE PAGELLE

Strakosha 7: perfetto per novanta minuti tranne che in occasione del rigore. C’avrebbe fatto passa’ un secondo tempo decisamente più interessante.

Patric 6: timido e poco efficace come un pischelletto che vede la gnagna per la prima volta.

Luiz Felipe 7: intimorisce Lasagna urlandogli contro “sei solo chiacchiere e besciamella!” E nonostante la pesantezza del piatto, lo digerisce brillantemente in novanta minuti.

Acerbi 7: “la proprietà commutativa è valida sia per le addizioni che per le moltiplicazioni. La regola della proprietà commutativa è: cambiando l’ordine degli addendi della addizione, la somma non cambia; cambiando l’ordine dei fattori della moltiplicazione, il prodotto non cambia. Spostando Acerbi dal centro al centrosinistra la sua prestazione non cambia.”

Wallace 6: entra ed è subito pusher della stazione Termini. Con la tuta dell’Adidas finta nera e rossa. E le Squalo ai piedi.

Rómulo 6,5: pare uno de quei giocatori de FIFA. Quando se inceppa er pulsante delle finte e comincia a fa’ doppipassi come se nun ce fosse un domani.

Lulic 6,5: più in difficoltà de Luca Giurato davanti a uno Zanichelli

Parolo 6: con un tiro dalla distanza al ventisettesimo della ripresa ha il merito di risvegliare lo stadio dall’abbiocco in cui eravamo sprofondati tutti.

Milinkovic-Savic 6,5: sempre nel vivo del gioco come Greta Thunberg a una manifestazione sull’ambiente.

Leiva 7: pubblichiamo un piccolo estratto del “Manuale del Centrocampista Diffidato” di Paolo Coelho: “quando il centrocampista diffidato nota con la coda dell’occhio che sta per essere chiamato il suo cambio, lui con astuzia prende di mira l’avversario più vicino e lo fracca senza minimamente interessarsi del pallone. L’arbitro lo ammonisce e lui può serenamente uscire dal campo dopo aver raggiunto il nirvana del suo essere. Il passaggio da diffidato a squalificato si è così compiuto”.

Bruno Jordao 6: e ora aspettiamo anche l’esordio di Lionello Manfredoniao e Vincenzo D’Amicao.

Immobile 6: c’ha le polveri bagnate come uno a cui s’è appena rovesciato il bicchiere del drink sul tavolino dove se stava a acchitta’ la botta.

Caicedo 7: le statistiche non mentono. I 5 goal del Panterone hanno fruttato 5 vittorie e 15 punti. A occhio e croce, se l’anno prossimo fa 20 goal, semo Campioni d’Italia in scioltezza.

Badelj 6: c’ha il dinamismo e l’esperienza di un anziano in fila alla posta per ritirare la pensione.

Inzaghi 6,5: la Lazio si rialza dopo dieci giorni che avrebbero depresso chiunque. Figuriamoci un ambiente come quello Laziale che sta in analisi dal 1900. Senza Correa e LA punta tutto sulla coppia “Miami Vice” e porta a casa agevolmente tre punti che rimettono la Lazio in carreggiata Europea.

AVANTI LAZIO

21 GIUGNO 1987: SOLSTIZIO BIANCOCELESTE

Fiorini

È il 21 giugno del 1987, l’estate a Roma è esplosa in tutto il suo fragore e lo Stadio Olimpico è pieno in ogni ordine di posto. Ma chi è lì, quel giorno, non sta sperando di alzare al cielo la Coppa dei Campioni. No. Perché quel giorno, a Roma, sta andando in scena un vero e proprio dramma sportivo. Il cronometro del signor D’Elia di Salerno segna l’ottantaduesimo. Mancano otto minuti alla fine di Lazio Vicenza e i biancocelesti allenati da Eugenio Fascetti sono matematicamente retrocessi in serie C quando Antonio Elia Acerbis, soprannominato “Il muto” per la sua idiosincrasia a rilasciare interviste, dalla fascia sinistra, scodella un pallone in area di rigore vicentina…

Quando il 5 agosto del 1986, la CAF ribalta la sentenza di retrocessione della Lazio per lo scandalo calcioscommesse in serie C1 e la trasforma in una penalizzazione di 9 punti da scontare nella serie cadetta, sono in molti, laziali compresi, a pensare che quella sentenza posticipi soltanto di un anno una retrocessione inevitabile. Soprattutto nell’era dei due punti a vittoria.

E quando Eugenio Fascetti, neo allenatore biancoceleste, si ritrova al centro del campo di allenamento di Gubbio, sede del ritiro estivo, per cercare di compattare un gruppo che rischia di sciogliersi prima di iniziare, ancora non lo sa che, le parole pronunciate quel pomeriggio, diventeranno l’incipit di una della pagine più memorabili della Storia del Calcio Italiano: “Chi vuole resti. Chi non se la sente può andar via subito. Ma chi resta combatte fino alla fine.

Restarono tutti. Anche chi aveva le valigie già pronte per tornare a Roma.

…sul cross di Acerbis si avventa Angelo Adamo Gregucci, stopper roccioso con la faccia da bravo ragazzo, uno di quelli che a scuola, quando il ripetente di turno ti voleva rubare la merenda, arrivava sempre a difenderti e poi ti dava una pacca sulla spalla. L’Angelo biancoceleste, quel pomeriggio di giugno, si trova nell’area di rigore avversaria, in modo inversamente proporzionale al proprio ruolo, nel disperato tentativo di infrangere il muro alzato da Ennio Dal Bianco, ultimo baluardo vicentino, che quel pomeriggio arriva ovunque. Ovunque possano crollare le speranze laziali. Ma Angelo Adamo Gregucci viene anticipato e la palla finisce al limite dell’area di rigore, sui piedi del vicentino Lucchetti…

Recuperare nove punti di penalizzazione è difficile e iniziare bene il Campionato di Serie B, una palude sportiva dove è facile passare dal trionfo alla tragedia in un attimo, è fondamentale, ma la Lazio non riesce nell’impresa e la partenza è troppo soft, per non dire drammatica. Pareggio a Parma e sconfitta in casa con il Messina a undici minuti dalla fine. La prima vittoria arriva soltanto alla quarta giornata contro il Bologna, grazie a un 2 a 1 firmato da Magncavallo e Mandelli. Dopo otto partite, finalmente, il segno “meno” viene tolto dalla classifica e tutto appare più normale. Si comincia a parlare la stessa lingua delle altre squadre ma otto partite di ritardo sono tante. Anche se la squadra, che presenta un buon mix di giocatori esperti come Terraneo, Fiorini e Mimmo Caso e giovani promettenti come Gabriele Pin, Mandelli e Gregucci, ha tutto per centrare l’impresa.

…Lucchetti, al limite dell’area, svirgola il pallone e anziché spedirlo dall’altra parte del campo, lo consegna sui piedi di Esposito. La palla quel pomeriggio è infuocata come il Sole romano e pesa tanto quanto il respiro all’unisono dei 62000 dell’Olimpico. Esposito stoppa il pallone e potrebbe provare il tiro. Ma non lo fa. Allora guarda a destra e vede Gabriele Podavini, terzino destro dai piedi buoni e dai polmoni inesauribili, uno nato a Brescia ma Laziale dentro, dopo cinque anni di militanza con l’Aquila sul petto e nel cuore. Gabriele Podavini non ha paura di provare il tiro della disperazione. L’ennesimo. Perché ogni pallone calciato negli ultimi dieci minuti di una partita così è un pallone disperato. Calciato con il nodo in gola e con il fiato sospeso. E allora il “Poda” chiude gli occhi, carica il destro e prova il tiro della vita. Quello che può cambiare il Destino della sua squadra del cuore….

La Lazio di Mister Fascetti, sospinta da un pubblico incredibile che fa registrare una media di 35/40000 spettatori a partita, prende il ritmo giusto e viaggia a gonfie vele. La rabbia dei tifosi sugli spalti alimenta gli animi dei giocatori in campo in un unisono sportivo che lascia presagire traguardi molto più elevati che una semplice salvezza. Lo zenit della stagione laziale arriva alla ventottesima giornata, dopo la vittoria con il Cesena in casa, grazie a un goal del bomber Giuliano Fiorini, uno che ha attraversato, sorridendo e facendo a sportellate, le aree di rigore di tutte le categorie calcistiche. La Lazio, a dieci giornate dalla fine, è tredicesima con venticinque punti, ma se gli vengono sommati i nove di penalizzazione recuperati, i punti diventano trentaquattro. Gli stessi della Cremonese prima in classifica. Tenere a bada gli entusiasmi in una piazza carica di rabbia e d’amore come Roma è molto difficile. Eugenio Fascetti intuisce che il pericolo della facile esaltazione è dietro l’angolo e dichiara che “non siamo ancora salvi”. Il mister toscano conosce la serie B. E non si fida. Ma l’entusiasmo è difficile da frenare.

…Podavini vede partire il tiro e non crede ai suoi occhi. Proprio lui che ha calciato quel rigore pazzesco a Campobasso sotto l’incrocio dei pali a quattro minuti dalla fine, quando nessuno dei suoi compagni aveva il coraggio di andare sul dischetto. Lui che da quel giorno è diventato il rigorista della squadra. Lui, a cui il compagno meno esperto ha affidato le speranze di una svolta, lascia partire un tiro sbilenco, lento, che non arriva nemmeno in porta. Ma che finisce sui piedi di Giuliano Fiorini, che si è accampato in area di rigore, nell’attesa del pallone giusto…

Dopo la vittoria con il Cesena, i timori di Fascetti si avverano e la Lazio precipita in una crisi di risultati drammatica: infila tre pareggi consecutivi con Modena, Taranto e Sanbenedettese poi perde a Trieste e soprattutto in casa contro l’Arezzo a cinque minuti dalla fine. I due punti tornano grazie al successo sul Cagliari ma la sconfitta a Genova, il pareggio a reti inviolate in casa con il Lecce e, soprattutto, il crollo a Pisa per tre a zero alla penultima giornata, sbattono la Lazio sull’orlo del precipizio. Quel punto esatto in cui il confine tra il dramma e il sollievo, tra la disperazione e la speranza diventa labile. All’ultima giornata, la Lazio ha trentuno punti ed è penultima insieme al Taranto. Il Cagliari, con ventisei punti, è matematicamente retrocesso. Un punto sopra i Laziali e i pugliesi ci sono il Catania e il Vicenza, che, la domenica successiva, scende a Roma in un match da dentro o fuori. Da vita o morte. Alla Lazio serve una vittoria per continuare a sperare. Per continuare a vivere. Trentasette partite non sono servite a nulla. Ne servirà una trentottesima, e forse non basterà nemmeno quella, per scrivere il finale di un campionato drammatico.

…Giuliano Fiorini è con le spalle alla porta, appoggiato con il corpo al numero cinque Bertozzi, quando riceve sul destro il tiro infelice di Podavini…

Quella domenica, all’Olimpico non entra uno spillo, 62000 spettatori sono quelli ufficiali. Ma probabilmente sono molti di più. La Curva Nord, all’ultimo atto di una stagione al cardiopalma, espone uno striscione che è un grido di amore e di battaglia allo stesso tempo: “Noi con la Voce…Voi con il Cuore!”
Per sopravvivere serviranno entrambi, per novanta interminabili minuti.

…Giuliano Fiorini arpiona il pallone con il piede destro ma non lo stoppa. No. Giuliano Fiorini sa come si fa in quei casi. Il piede destro invita il pallone a passargli sotto le gambe. Un auto tunnel voluto che manda fuori tempo Bertozzi. Giuliano Fiorini si gira su stesso facendo perno proprio sul suo marcatore e si trova lì. A pochi metri dall’invalicabile Dal Bianco…

Al Vicenza basta un punto per salvarsi. E il catenaccio di quel pomeriggio, unito ai miracoli del suo portiere, eroe per un giorno, i tifosi della Lazio se lo ricorderanno bene. Per sempre. Lo Stadio è un inferno. I minuti passano e il fortino eretto dagli uomini guidati da Magni resiste. E resiste anche quando D’Elia espelle al sessantasettesimo il biancorosso Montani per doppia ammonizione. La Lazio è un toro ferito. Furiosa e poco razionale. Butta il cuore oltre l’ostacolo sospinta dai suoi tifosi che, minuto dopo minuto, vedono lo spettro della Serie C sempre più vicino. Sempre più grande. Il Campobasso pareggia a Messina, il Taranto vince con il Genoa. Alla Lazio serve una vittoria per arrivare a giocarsi la salvezza in uno spareggio a tre. Ma Lazio e Vicenza sono sullo zero a zero. La Lazio è in serie C e il Vicenza andrà allo spareggio. Fino all’ottantaduesimo. Quando Antonio Elia Acerbis, dalla sinistra, crossa un pallone in area di rigore. Angelo Adamo Gregucci salta di testa ma viene anticipato. Al limite dell’area, Lucchetti svirgola il pallone e lo consegna a Esposito che lo controlla e lo allarga a Gabriele Podavini. Il terzino di Brescia lascia partire un tiro sbilenco che finisce però sui piedi del numero undici biancoceleste, Giuliano Fiorini. Spalle alla porta, Fiorini controlla a seguire il pallone, si gira su se stesso e…

…c’è poco tempo per pensare in quei momenti. Giuliano Fiorini ha il pallone davanti a sé. Bertozzi si è girato su se stesso e sta per intervenire. Dal Bianco è pronto a coprirgli lo specchio. È una morra cinese calcistica dove vince chi ha più fame. Dove esulta chi ci mette il cuore. E il cuore di Giuliano Fiorini scende per un secondo dal petto e finisce nello scarpino destro. Solo per un istante. Quello più importante. Quello che cambia per sempre la storia di un giocatore, di un club e di un Popolo. Giuliano Fiorini si allunga in una spaccata sgraziata e decisiva. Anticipa Bertozzi e con la punta del piede destro colpisce il pallone che si insacca nell’angolino alla destra di Dal Bianco….

Subito dopo è solo catarsi. Lo Stadio Olimpico esplode in un boato innaturale. C’è chi sostiene che abbia sentito lo Stadio tremare, in quel momento.

…Giuliano Fiorini sorride, scavalca i cartelloni pubblicitari, evitando un fotografo davanti a sé e vola sotto la Nord, a raccoglierne l’abbraccio. A farsi ringraziare. Giuliano Fiorini viene sommerso dagli abbracci dei compagni. E’ stremato. Quando sta per tornare in campo, ha un sussulto. Si libera allora dalla morsa dei compagni, si rigira ancora verso la Nord, ed esulta di nuovo. Stavolta in modo rabbioso, con il pugno. È un’esultanza diversa, stavolta. Consapevole del gesto appena compiuto. È un gesto che sembra dire “Ce l’abbiamo fatta! Tutti insieme! Noi con voi!!

Il suo rientro in campo, abbracciato ad Acerbis, è lento. Lentissimo. Giuliano Fiorini guarda la Tribuna Monte Mario ed esulta con il braccio al cielo. Poi rientra sul prato verde. Felice, solitario e final. Indica la panchina dove sono i suoi compagni e il Mister Fascetti ed esulta anche in direzione loro. Con loro.

Mancano otto minuti ma la partita è mentalmente finita. Lo sanno tutti. La Lazio si andrà a giocare gli spareggi sul campo neutro del San Paolo di Napoli con Taranto e Campobasso.
Ma questa è un’altra storia.

…questa che avete appena letto invece è la storia di Giuliano Fiorini, la storia di una stagione pazzesca e la storia del goal che salvò la Lazio.

PAUL GASCOIGNE, GAZZA & ME (Una storia d’amore, anche se lui non lo sa)

La prima volta che vidi Paul Gascoigne avevo quattordici anni e stavo nell’aula di reparti dell’ITIS. E anziché limare un pezzo di metallo, sfogliavo di nascosto Zzap, mitica rivista di videogiochi della mia generazione. Il suo faccione biondo e sorridente mi ammiccava dalla pubblicità di “Gazza’s Super Soccer“. Il suo nome completo e a me sconosciuto era rappresentato sotto forma di autografo. Quasi illeggibile.

Conquistato dalla simpatia che trasmetteva la foto e sempre a caccia di nuovi giochi di calcio per il mio Commodore64 a cui immolare i pomeriggi adolescenziali, interpellai l’esperto di calcio estero della mia classe, tale Cristian Saragoni. “Ah Cri’, ma chi è ‘sto Gazza?” “Si chiama Paul Gascoigne, gioca nel Tottenham…” “È forte?” “Sì, ed è pure mezzo matto…” Forte e pure mezzo matto. Tenni là la considerazione del buon Saragoni e la sovrapposi a quello che vidi pochi mesi dopo. Quando l’empatia diventò colpo di fulmine.

Le notti magiche di Italia ’90. Un’Inghilterra sensazionale. Ed un giocatore con la maglia 19 che esplose in tutto il suo talento e la sua potenza, trascinando la sua squadra fino alla semifinale contro la Germania Ovest. Ricordo il cartellino giallo che l’arbitro gli sventolò sotto gli occhi e che gli avrebbe impedito di giocare la successiva Finale. E ricordo le lacrime. Le lacrime di chi dietro quell’istrionismo e quella classe, mal celava una fragilità che lo avrebbe accompagnato per il resto della carriera. E della vita soprattutto. Continuai perciò a seguire Gazza e il suo Tottenham con interesse e simpatia, sfruttando i potenti mezzi dell’epoca (Telemontecarlo e il Televideo su tutti) fino a quando una notizia nata come rumor prima e come trattativa poi arrivò a sconvolgere i miei pomeriggi primaverili di sedicenne tutto acne e Subbuteo: la mia Lazio voleva Paul Gascoigne.

Non potevo crederci. La Lazio era da poco ritornata in Serie A al termine di una decade piena di difficoltà. E Paul Gascoigne era il pezzo pregiato del Calcio Internazionale. Era un matrimonio impossibile, pensavo. “Ma te pare che…” E invece no. Dopo una trattativa infinita, in cui imparai a memoria i nomi di tutti i dirigenti del Tottenham, Paul Gascoigne divenne un giocatore biancoazzurro. Paul “Gazza” Gascoigne era un giocatore della Lazio. La mia Lazio. Appresi dell’ufficialità grazie all’Ultima Ora di Televideo. E mi emozionai.

Paul Gascoigne sarebbe stato il primo tassello di una Lazio che sognava di diventare grande. Mancavano poche settimane e poi lo avrei finalmente abbracciato e fatto mio. E invece no. Il 18 maggio 1991, mentre la Lazio perdeva 2 a 0 a Milano contro l’Inter, Gazza stava per scendere in campo per l’ultima volta con la maglia del Tottenham. Contro il Nottingham Forest, a Wembley. Finale di FA Cup. Ero a casa del mio amico Daniele quel pomeriggio, quando “Tutto il calcio minuto per minuto”, sottofondo alle nostre partite al computer, annunciò l’infortunio di Gazza. Rimasi impietrito. Si parlava di legamento crociato. Si parlava di un anno di stop. UN-ANNO-DI-STOP. La Lazio decide di aspettarlo e io con lei. E il poster in cui lui è vestito da cowboy che il Corriere dello Sport regala ai suoi lettori diventa un feticcio nella mia cameretta.

Passano i mesi e in un mercoledì di fine settembre del 1992, vestito a festa, sotto il classico diluvio romano che sancisce la fine dell’estate, mi ritrovo in Distinti Nord, con tanto di macchinetta fotografica, insieme a mio fratello, per festeggiare il suo ritorno al calcio giocato proprio contro il suo Tottenham. E’ Roma ma sembra Londra. E allora a Gazza bastano dieci minuti per mettere il pallone alle spalle di Walker, sfruttando un comodo assist di Thomas Doll. “Incredibile!! Proprio lui!!!” ripeterà cento volte Sandro Piccinini, ossia ogni volta che farò rewind per rivedere la registrazione della partita. E quattro giorni dopo, arriva anche l’esordio in Serie A. Contro il Genoa. E io sono là. E sono là anche contro il Parma, quando la forma fisica è migliore, lui è più sciolto. E contribuisce alla vittoria per 5-2. E sarò lì ogni volta. Ogni domenica. Inseguendo una Passione senza fine.

Il colpo di fulmine, per una proprietà transitiva che non conosce regole, si trasforma così in amore puro. Per il primo bacio, però, devo attendere ancora un po’. Come in tutti gli amori sofferti. E’ una domenica di fine novembre. C’è il Derby. In Curva Sud, i romanisti espongono uno stendardo con su disegnata una carrozzella da invalido e la scritta “It’s ready for you, Gazza”. E Gazza si fa trovare pronto, a pochi minuti dalla fine, su una punizione scaraventata in area da Signori. Il contrasto biondo con Silvano Benedetti premia il nostro idolo. Il colpo di testa è perfetto e finisce alle spalle di Zinetti. Uno pari. E corsa senza direzione che termina sotto la Nord impazzita di gioia. Grazie, Gazza, Grazie. Il poster di quel goal, pubblicato da Lazialità va a fare compagnia a tutti gli altri, sulla parete della mia cameretta.

Passano gli anni, io mi diplomo e parto militare. In quelle notti venete e senz’alba, comincio a scrivere. Tanto. Riempio blocchi e fogli. Invento storie. E poi le chiudo nel cassetto. Non c’è Facebook che mi dà un riscontro immediato con i like. E quel cassetto è lo scudo della mia timidezza. Di cui non ho ancora la chiave. E dentro quel cassetto, tra i tanti, c’è un racconto dedicato proprio a Paul Gascoigne. L’amore calcistico della mia adolescenza. Nel 1999, la nostra cagnolina partorisce. E’ maschio. Sono indeciso su due nomi. Cholo o Gazza. Ma l’amore calcistico di una vita ha la meglio sull’infatuazione del momento. E Gazza cresce con noi, compagno fedele, sbarazzino e affettuoso. Arriviamo al 2001, il Guerin Sportivo, a gennaio, pubblica un inserto in cui scrittori e giornalisti raccontano il proprio mito calcistico. Quell’inserto si chiama “Io e Lui”. E io ho in Paul Gascoigne il mio “Lui” calcistico. E allora, prendo il coraggio a due mani. Apro il cassetto. E attraverso la mia mail, gazza4ever@yahoo.it, invio al Direttore del Guerino di allora, Ivan Zazzaroni, il mio racconto su di Lui, “Parliamone, Paul”. Lo mando così, senza aspettarmi nulla. Quando però, due settimane dopo, lo vedo pubblicato in seconda e terza pagina nella Posta del Direttore, le mani mi tremano e gli occhi si bagnano. Il commento che lo accompagna è il seguente: “L’ho pubblicato, caro Alessandro, perché non è un “Io e Lui”. E’ qualcosa di più.” Ed è una di quelle frasi che non scorderò mai.

Come il primo “Ti amo”, per intenderci. Sono entrato da poco in una grande multinazionale. E’ il mio primo lavoro serio e ufficiale. Ho venticinque anni e tanto entusiasmo. Un mio collega, romanista ma amante del Calcio come me, compra il Guerino dove c’è il mio articolo e lo porta in negozio. Quell’articolo finisce nelle mani del mio capoarea di allora che rimane colpita da ciò che avevo scritto e, sfruttando una condivisione ante litteram, molto prima di Facebook, lo ripubblica su un bollettino aziendale che arriva in tutti i negozi dell’azienda per cui lavoravo. Non può fare copia e incolla. Lo ricopia a mano. Parola per parola. Da quel momento, per i miei colleghi di tutta Italia, divento “quello che ha scritto quell’articolo meraviglioso su Gascoigne”, divento quello con cui parlare di Calcio in modo passionale e romantico, e divento un po’, lo ammetto, il prediletto del mio capo. Sono bravo in quello che faccio. Sono un creativo.

Vado a duemila. Ma quell’articolo su Gazza mi dà quella spinta in più. E’ un po’ il Deus ex Machina della mia carriera. Mi vengono assegnate sempre più responsabilità. Compiti in cui oltre all’ingegno bisogna metterci il cuore e un po’ di creatività. Io rispondo presente e cresco. Vengo promosso Manager qualche mese dopo. La mai carriera prende il volo. Grazie a me ma anche un po’ a Paul Gascoigne. Nel 2010, Gazza, il mio cagnolino, muore. Lasciando i segni delle unghie sullo stipite di legno della porta di casa e soprattutto un vuoto che solo chi ha avuto cani, può immaginare. E che non verrà più rimpiazzato da nessuno. Tanto affetto. Ma anche tanto, troppo, dolore.

Nel 2012, dopo tanti anni, Paul Gascoigne torna finalmente all’Olimpico invitato dalla Lazio. La sua Lazio gioca contro il suo Tottenham. Un buon motivo per andare incontro al passato a braccia aperte. Il fuoriclasse, però, ha lasciato il posto all’alcolizzato. Il clown si è tolto la maschera ed è rimasto solo un uomo di quarantacinque anni prigioniero dei suoi demoni e dei suoi vizi. Ma la gente Laziale lo ama ancora. E va allo Stadio, quella sera, per dimostrargli quanto è stato importante, quanto gli ha voluto e gli vuole ancora bene. Perché il tempo passa, ma l’Amore, quello vero, resta. E io sono di nuovo lì. Come tutti. Ma forse, un po’ di più degli altri. In Tribuna Tevere, il mio Nirvana da tifoso.

Con addosso la maglia dedicata a lui e lo sguardo di chi non vede l’ora di commuoversi di fronte a quell’uomo così strano e fragile. Così incredibilmente autodistruttivo. Un uomo che avrebbe potuto avere il Mondo ai suoi piedi e che invece da quel mondo si è fatto schiacciare. La sua passerella sotto la Nord, con gli occhiali finti, è qualcosa di struggente e definitivo. E’ il posto in cui il presente ritrova il passato. Il momento in cui un uomo allo sbando capisce quanto amore c’è. Ancora. Intorno a lui. “Lionhearted, headstrong, pure talent, real man…still our hero.” è il saluto della Nord. Sì, Paul Gascoigne è ancora il nostro eroe. Il mio Eroe. Anche se di anni ora ne ho quarantuno. Anche se non lavoro più per l’azienda in cui feci carriera. E anche e soprattutto, perché io, come lui, ho alternato trionfi a sconfitte.

Come lui, sono caduto e mi sono rialzato. Come lui combatto ogni giorno contro i miei demoni. Che non sono subdoli e tentatori come possono essere l’alcol e la droga, ma stanno lì, ben presenti, a farmi compagnia. Perché Paul Gascoigne, per me, è stato tutto. E forse anche qualcosa di più. E’ stato un poster in camera, un VHS da conservare, una t-shirt da collezionare, un articolo da ritagliare, un libro da rintracciare, un racconto da incorniciare, il doppiopasso da imitare. Paul Gascoigne è stato l’eroe dei miei pomeriggi. Il leit motiv della mia vita sportiva. Il ricordo più puro e struggente del mio essere tifoso. Paul Gascoigne è stata una lunghissima e bellissima Storia d’amore. Che iniziò per caso grazie ad una rivista di videogiochi, ventisette anni fa, continua fino ad oggi e proseguirà fino a domani, fino a dopodomani. Per sempre. Perché se è vero che in un viaggio non conta la meta ma quello che si prova durante, Paul “Gazza” Gascoigne, per me, è stato il miglior compagno di viaggio possibile. “E per questo, non finirò mai di ringraziarti. Grazie, Gazza, Grazie.” Ti voglio bene.

QUEL CHE RESTA

C’è stato un momento ieri in cui, lo ammetto, ho avuto le lacrime agli occhi. E non è stato quando l’arbitro ha messo la parola fine al campionato della Lazio. No. Perché il mio essere tifoso prescinde, fortunatamente, dal risultato finale. E poi mica stavamo andando in serie B, no?

Dicevo, c’è stato un momento in cui mi sono commosso. Ed è stato quando la tifoseria Laziale ha mostrato a tutta Italia, per l’ennesima volta, come si trasforma il settore di uno Stadio in un’opera d’arte. Un’opera d’arte di cui io ero un piccolo tassello blu. Ecco. In quel momento la mia stagione è finita perché avevo completato il mio dovere di tifoso. E una lacrima catartica è scesa per dirmi che comunque sarebbe andata, avevamo fatto il massimo.

Perché prima di fare i processi a questa Lazio, bisognerebbe ricordare da dove si è partiti. Dalle poche aspettative che molti riponevano nella squadra e nella società. Dagli undicimila abbonati. Perché era il famoso secondo anno. Perché senza Keita non si poteva giocare. E via discorrendo. Gli stessi che ieri sera sono ricicciati fuori. Perché pare non aspettassero altro.

Però questa Lazio ha smentito tutti. Così bella e incosciente, ha mostrato per lunghi tratti il gioco più bello in Italia e se l’è giocata su tutti i fronti a testa alta.

Il rammarico per non essere andati in Champions c’è, ci mancherebbe. Gli errori ci sono stati e da questi si dovrà ripartire. Ma non si dica che questa squadra non ha fatto il salto di qualità perché sareste in malafede.

Perché questi ragazzi si sono arresi solo ad un potere che ha cercato in tutti i modi di frenarne l’incredibile corsa. Una classe arbitrale marcia e in malafede. Senza dimenticare gli attacchi mediatici subiti per il caso figurine. C’è stato un momento in cui, a sentire l’opinione pubblica, tifare Lazio era diventato un marchio d’infamia come la lettera scarlatta.

Resta quindi l’amarezza finale ma restano soprattutto negli occhi e nel cuore i goal di Immobile, le magie di Luis Alberto, lo strapotere di Milinkovic-Savic, il goal di Murgia in Supercoppa, la generosità di Lulic, il carisma di Leiva, la Lazialità di Inzaghi.

Resta una squadra che ha riportato allo Stadio una tifoseria.

E questo, al netto dei risultati, dei goal fatti, delle vittorie, resta il successo più grande di questi ragazzi.

Perché per anni abbiamo chiesto e cercato una Lazio che straripasse di Lazialità e non saranno i sei minuti di Salisburgo o i cinque minuti di ieri sera che devono far cambiare idea su questa squadra e su questo Mister.

Perché quelli che oggi criticate, sono gli stessi che vi hanno convinto a tornare allo stadio. Gli stessi che vi hanno fatto esultare per più di cento volte quest’anno.

Chiudo citando tre frasi che mi stanno particolarmente a cuore e spiegano più di tutte l’essenza del tifoso. O almeno quello che per me dovrebbe essere. Una è di Alessandro Tonno, storica voce del tifo biancoceleste: “sorrido perché in fondo starò male due, tre, giorni, forse più, ma alla fine me metterò tutto alle spalle, così come faccio nella vita di tutti i giorni. Gioie e dolori arricchiranno la mia storia, a me interessa vivere di emozioni, di sbagli, di scelte, non mi interessa campare. Andrò sempre allo stadio con lo stesso spirito, ossia quello di divertirmi, andrò per il piacere di stare nella mia comunità, per sostenere la mia squadra. Non cerco nel calcio rivincite sociali, scegliendo la Lazio ho scelto la mia giusta dimensione. Una vita per la Lazio, la Lazio per la vita.”

La seconda e la terza la prendo in prestito da quel meraviglioso Vangelo calcistico che è “Febbre a 90º”. E con queste mi congedo a livello calcistico per questa stagione.

“Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé.”

“E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi.”

Ecco.

Se tifare una squadra di calcio è confortante.

Tifare Lazio è bellissimo.

Anche e soprattutto quando va come non vorremmo che vada.

BUONE VACANZE LAZIO

BUONE VACANZE LAZIALI

“MA QUANTO CORRI, LEO?”

Il Mister è teso. Cerca di spronarci ma si vede lontano un miglio che non vede l’ora che finisca la partita. In un modo o nell’altro. Eppure noi siamo il Milan, la squadra più titolata d’Italia. Accanto a me ci sono ragazzi come Zlatan, Clarence, Massimo, Christian. Gente abituata a stare sotto pressione. E a vincere. Ma lui è Massimiliano Allegri. È un Mister senza la giusta esperienza. E noi lo sentiamo che sta per confrontarsi con un avversario più grande di lui. Il Barcellona. La squadra più forte del mondo. Dove gioca Leo Messi. Il giocatore più forte del mondo. Io sono Alessandro Nesta. E sono stato il difensore più forte del mondo.

Scendiamo in campo con ancora nelle orecchie le ultime parole del Mister: “È importante non prendere goal, ragazzi…”

Questo deve essere il nostro credo, oggi. Per noi che siamo cresciuti dominando, è un passo indietro. Mentale più che tattico. Perché noi siamo il Milan.

“…e mi raccomando il raddoppio di marcatura su Messi. È fondamentale.”

Fondamentale. Fondamentale. Fondamentale. E i suoi occhi attraversano i miei, quelli di Philippe, Antonio, Daniele, Massimo, Luca. Sei uomini. Dodici occhi per due gambe. Argentine e corte. Ma imprendibili.

Fino a qualche anno fa, lo avrei fermato da solo. Magari lasciandolo andare via per poi riprenderlo in scivolata. E pettinarmi subito dopo. Fino a qualche anno fa. Certo. Il tempo passa, però. Per tutti.

Entriamo a San Siro. C’è il pubblico delle grandi occasioni. Record assoluto di presenze. Ce lo ha detto il dottor Galliani prima del match. Ma quello non è un problema. Mi preoccupano solo quelle gambe argentine e corte.

Il Barcellona è perfetto nel suo blaugrana. Elegante e storico. Noi abbiamo la maglia bianca delle grandi occasioni e dei grandi trionfi. Quella degli Invincibili.

Suona l’inno della Champions League e mi guardo intorno. San Siro può far paura. Ti può uccidere ed esaltare. Io sono morto e risorto varie volte. Non mi fa più paura. È casa mia, ormai. E la mente vola via. A quel pomeriggio d’aprile di diciotto anni fa. Il campo di calcetto dove stavamo facendo una partitella di allenamento. Io, giovane, talentuoso difensore della Primavera laziale. E Paul Gascoigne. L’idolo di una tifoseria intera. Lui mi entra male. Duro. E si rompe tibia e perone. Io sto sotto shock. La Lazio e i Laziali perdono il suo idolo. Il giorno dopo, finisco su tutti i giornali. “Il giovane Nesta rompe Gazza”. Amen.

Salutiamo gli avversari. Incrocio i suoi occhi. Lui è un finto umile. Consapevole della propria forza e della propria superiorità. Mi saluta con il capo. Ci conosciamo già. Ma questo è un duello definitivo. Quelli di qualche mese fa erano solo scontri tra due squadre consapevoli di superare entrambe il girone a braccetto.

Ci sistemiamo in campo. Mi sistemo i capelli lunghi. Quei capelli che mi hanno accompagnato per una carriera. Mi abbraccio con Ambro. Cerco lo sguardo di Philippe. Scambio un cenno d’intesa con Antonini e con Bonera. Faccio il pollice a Christian in porta. Sono pronto. E dove non arrivo io, sono sicuro che arriverà un mio compagno.

A raddoppiare. Raddoppiare. Raddoppiare. Come vuole il Mister. L’arbitro fischia l’inizio. E il Barcellona comincia il suo giochetto di passaggi. Che mi snervano. Xavi, Keita, Xavi, Iniesta, Xavi, Busquets, Iniesta, Xavi. E palla a Messi che fa il primo scatto della sua partita. Veloce. Imprendibile.

“Ma quanto corri, Leo?”

Lo fermo non senza difficoltà. Passo la palla a Massimo. Mi pettino. E una è andata.

Attacchiamo noi. E la carriera mi passa davanti. La Lazio mi passa davanti. Finale di Coppa Italia, quattordici anni prima. Lazio contro Milan. Strano il destino. Abbiamo perso uno a zero all’andata con un goal di Weah all’ultimo minuto. Al ritorno, Albertini segna su punizione dopo pochi minuti dall’inizio del secondo tempo. Zero a uno. E tutti a casa. Poi, però, si accende il Mancio. Che è sempre stato come quegli amici più grandi che ti risolvono le situazioni più difficili e sanno sempre ciò che fare nei momenti di difficoltà. Mancio fa segnare Gottardi. Poi, Jugovic lancia Guerino che viene steso da Maldini. Calcio di rigore. Vladimir non sbaglia mai un colpo. Non per niente, lo chiamiamo “Mezzasquadra”. Lo Stadio diventa una bolgia. C’è un calcio d’angolo. Io vado in area di rigore. Anche se non ho mai segnato. C’è una mischia. Fuser prova a buttarla dentro. C’è una respinta, la palla resta lì. Arrivo io. E gonfio la rete. Capitano, io capitano. Che sarò, dopo quella sera. Esulto con il dito alzato e non ci capisco più niente. Diego alza la Coppa Italia al cielo. E settantamila tifosi la alzano con noi. È il primo trofeo di una lunga serie. Ma Xavi ruba palla. E io torno collegato a San Siro. Xavi, Iniesta, Busquets, Sanchez, Messi, Iniesta, Xavi. Poi Messi che riparte. Ma lo chiudiamo in due. Philippe e io. Il Mister ci dice bravi. Perché abbiamo chiuso bene gli spazi. Cominciamo a soffrirlo. Ma resta innocuo. Due per uno. Nemmeno al supermercato del calcio, fanno offerte così. Christian rilancia. Massimo salta di testa. Kevin Prince la prende e imposta l’azione. Io volo a Birmingham. Villa Park. Lazio contro Maiorca. Ultima finale di Coppa delle Coppe della Storia. Siamo uno pari. Bobo Vieri ha fatto un goal impossibile ma i rossi di Cuper hanno pareggiato poco dopo. Mancano pochi minuti alla fine. Quando Vieri si avventa su un pallone sporco e la prepara per Pavel. Che la infila all’angolo. E mi fa alzare l’ennesimo trofeo. Con la maglia gialla e nera.

Xavi, Iniesta, Busquets, Puyol, Dani Alves, Sanchez, Xavi. Non finiscono più. Keita, Iniesta, Messi, Iniesta, Xavi, Messi, Xavi. Messi. Messi. Messi. Mi fa male la schiena.

“Ma quanto corri, Leo?”

Gli tiro la maglia. È piccolo, veloce. Argentino. E imprendibile. Lo fermo insieme a Daniele. Lo fermo. E mentre passo la palla a Kevin Prince, ripenso a Montecarlo e al goal di Salas contro lo United. Siamo la squadra più forte d’Europa. Ci manca solo lo Scudetto. Io, Capitano di una squadra di Capitani. Sono cose che Capitano. Luca, Paolo, Nestor, Giuseppe, Sinisa, Matias, Diego Pablo, Juan Sebastian, Pavel, Roberto, Dejan, Marcelo, Alen. Carisma, tecnica, ego all’ennesima potenza. Mister Sven che miscela il tutto. Il trionfo è dietro l’angolo. Ma l’arbitro fischia la fine del primo tempo. Zero a zero. Abbiamo tenuto. Chiuso. Raddoppiato. E limitato i danni.

Tanti anni fa, il Milan di Capello ne fece quattro al Barcellona di Crujiff in finale di Coppa Campioni. Ora noi stiamo elemosinando uno zero a zero. E proteggendolo con le unghie. E siamo sempre il Milan e loro sono sempre il Barcellona. Loro erano sempre blaugrana e il Milan aveva sempre la maglia bianca.

Negli spogliatoi, il Mister ci fa i complimenti per la fase difensiva ma dice che dobbiamo essere più incisivi in avanti. Zlatan è nervoso. Vuole segnare a tutti i costi. E chiudere il suo conto personale con Guardiola.

Mentre il Mister parla, ripenso a quel giorno di Maggio. Ai tre goal alla Reggina. Al diluvio di Perugia. Al goal di Calori. All’Olimpico invaso e in estasi. A me che sono il Capitano dello Scudetto. Romano e Laziale. Il massimo della vita. Penso al Mister in lacrime che dice: “Si deve credere sempre”. Al trionfo di una vita. A noi nudi nello spogliatoio che saltiamo e cantiamo. Penso che un sogno così non ritorni mai più.

“L’arbitro fischia l’inizio del secondo tempo. E loro ricominciano. Lo chiamano “tiki-taka” ma sembra una goccia cinese. È una tortura lenta e costante. Xavi, Iniesta, Xavi, Busquets, Sanchez, Keita, Puyol, Alves, Xavi, Messi. E poi ancora Xavi, Iniesta, Busquets, Xavi. San Siro li applaude e li teme. Dottor Jeckyll sportivo e Mr. Hyde tifoso. Pubblico esigente e mai sazio di vittorie e trionfi.

Attacchiamo noi. Zlatan vuole lasciare il suo segno. La sua Zeta sulla partita. Mentre io ripenso al Derby. Non ai quattro derby consecutivi. Non alla punizione di Veron. No. A “quel” Derby. E a quella difesa a tre mai provata. A Dino esterno di centrocampo. A noi che ci guardiamo intorno stupiti. A Montella che mi vola intorno tre volte in pochi minuti. E mi uccide. Lui piccolo aeroplano giallorosso. Io kamikaze biancazzurro. Mi costringe alla resa nell’intervallo. Scappo. E sbaglio. Fernando mi aggredisce. Io sto sotto shock. Ho la fascia al braccio. Ma non la sento mia. Non quel giorno. E sbaglio. Sbaglio. Sbaglio. Ma chi non sbaglia? Pure Messi sbaglia uno stop e la palla finisce in fallo laterale. Io ritorno sulla terra.

Leo è un UFO. Da vicino ancora di più. Mi costringe a scatti che il mio fisico non può più permettersi. La schiena mi chiede aiuto. Le gambe vanno da sole. Ma non ce la fanno a stargli appresso. Nonostante tutto lo contengo. Con la malizia e l’esperienza. E con l’aiuto dei compagni.

“Ma quanto corri, Leo?”

Lui mi guarda, capisce e sorride. Il Calcio è una lingua internazionale. Guardo il tabellone e vedo che mancano cinque minuti. Zero a zero. Non abbiamo segnato. Ma non abbiamo nemmeno preso goal. Questo era il nostro obiettivo.

Proviamo l’ultimo affondo. E io mi ritrovo al 31 di agosto del 2002 a Formello. Manca poco alla fine del calcio mercato. Mi chiama il nostro Direttore Sportivo. Sono stato venduto per salvare la Lazio. Salvare la Lazio. Salvare la Lazio.

Shock.

Rewind.

Montella che mi uccide. Lo Scudetto del 2000. La Supercoppa con lo United. La Coppa delle Coppe. La Coppa Italia e il mio goal. La fascia di Capitano. L’esordio in serie A. L’infortunio di Gascoigne. La prima maglia biancoazzurra. La mia vita a ritroso. Tutta davanti in pochi secondi.

Non posso rifiutare. Devo accettare. Per forza. La Lazio è in crisi.

Io al Milan. Hernan all’Inter.

Piango.

Finisce un Amore.

Inizia un lavoro.

E mentre Messi prova l’ultimo allungo della sua partita, trovo la forza chissà dove per fermarlo. Gli tolgo la palla. San Siro mi applaude. Passo la palla a Kevin Prince. E mi sistemo i capelli dietro le orecchie. La schiena mi urla per il dolore. Non ce la fa più. Leo corre troppo. E come lui, corrono troppo in tanti. Me ne rendo conto oggi. Di fronte alla squadra più forte del Mondo. Dico basta. Oggi. Il mio corpo me lo chiede. Me lo urla.

L’arbitro fischia la fine della partita. Zero a zero.

Missione compiuta.

Ancora una volta.

Contro il più forte del mondo.

Perché io sono Alessandro Nesta.

Il difensore più forte del mondo.

Ed ero il Capitano della mia Città.