QUEL CHE RESTA

C’è stato un momento ieri in cui, lo ammetto, ho avuto le lacrime agli occhi. E non è stato quando l’arbitro ha messo la parola fine al campionato della Lazio. No. Perché il mio essere tifoso prescinde, fortunatamente, dal risultato finale. E poi mica stavamo andando in serie B, no?

Dicevo, c’è stato un momento in cui mi sono commosso. Ed è stato quando la tifoseria Laziale ha mostrato a tutta Italia, per l’ennesima volta, come si trasforma il settore di uno Stadio in un’opera d’arte. Un’opera d’arte di cui io ero un piccolo tassello blu. Ecco. In quel momento la mia stagione è finita perché avevo completato il mio dovere di tifoso. E una lacrima catartica è scesa per dirmi che comunque sarebbe andata, avevamo fatto il massimo.

Perché prima di fare i processi a questa Lazio, bisognerebbe ricordare da dove si è partiti. Dalle poche aspettative che molti riponevano nella squadra e nella società. Dagli undicimila abbonati. Perché era il famoso secondo anno. Perché senza Keita non si poteva giocare. E via discorrendo. Gli stessi che ieri sera sono ricicciati fuori. Perché pare non aspettassero altro.

Però questa Lazio ha smentito tutti. Così bella e incosciente, ha mostrato per lunghi tratti il gioco più bello in Italia e se l’è giocata su tutti i fronti a testa alta.

Il rammarico per non essere andati in Champions c’è, ci mancherebbe. Gli errori ci sono stati e da questi si dovrà ripartire. Ma non si dica che questa squadra non ha fatto il salto di qualità perché sareste in malafede.

Perché questi ragazzi si sono arresi solo ad un potere che ha cercato in tutti i modi di frenarne l’incredibile corsa. Una classe arbitrale marcia e in malafede. Senza dimenticare gli attacchi mediatici subiti per il caso figurine. C’è stato un momento in cui, a sentire l’opinione pubblica, tifare Lazio era diventato un marchio d’infamia come la lettera scarlatta.

Resta quindi l’amarezza finale ma restano soprattutto negli occhi e nel cuore i goal di Immobile, le magie di Luis Alberto, lo strapotere di Milinkovic-Savic, il goal di Murgia in Supercoppa, la generosità di Lulic, il carisma di Leiva, la Lazialità di Inzaghi.

Resta una squadra che ha riportato allo Stadio una tifoseria.

E questo, al netto dei risultati, dei goal fatti, delle vittorie, resta il successo più grande di questi ragazzi.

Perché per anni abbiamo chiesto e cercato una Lazio che straripasse di Lazialità e non saranno i sei minuti di Salisburgo o i cinque minuti di ieri sera che devono far cambiare idea su questa squadra e su questo Mister.

Perché quelli che oggi criticate, sono gli stessi che vi hanno convinto a tornare allo stadio. Gli stessi che vi hanno fatto esultare per più di cento volte quest’anno.

Chiudo citando tre frasi che mi stanno particolarmente a cuore e spiegano più di tutte l’essenza del tifoso. O almeno quello che per me dovrebbe essere. Una è di Alessandro Tonno, storica voce del tifo biancoceleste: “sorrido perché in fondo starò male due, tre, giorni, forse più, ma alla fine me metterò tutto alle spalle, così come faccio nella vita di tutti i giorni. Gioie e dolori arricchiranno la mia storia, a me interessa vivere di emozioni, di sbagli, di scelte, non mi interessa campare. Andrò sempre allo stadio con lo stesso spirito, ossia quello di divertirmi, andrò per il piacere di stare nella mia comunità, per sostenere la mia squadra. Non cerco nel calcio rivincite sociali, scegliendo la Lazio ho scelto la mia giusta dimensione. Una vita per la Lazio, la Lazio per la vita.”

La seconda e la terza la prendo in prestito da quel meraviglioso Vangelo calcistico che è “Febbre a 90º”. E con queste mi congedo a livello calcistico per questa stagione.

“Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé.”

“E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi.”

Ecco.

Se tifare una squadra di calcio è confortante.

Tifare Lazio è bellissimo.

Anche e soprattutto quando va come non vorremmo che vada.

BUONE VACANZE LAZIO

BUONE VACANZE LAZIALI

SERGEJ MILINKOVIC-SAVIC: UNA BIOGRAFIA NON AUTORIZZATA

Sergej nasce in Serbia ventitré anni fa ed è er fijo segreto de Ivan Drago e de Brigitte Nielsen, concepito sul set de “Rocky IV” e partorito solo una decina de anni dopo, al termine de ‘na lunga gestazione.

Quando viene ar mondo, infatti, è alto già un metro e cinquanta e viene subito convocato pe’ ‘na partita de spareggio tra la Serbia e la Croazia, categoria Allievi Terminator.

A scuola, nun è bravissimo: sempre seduto all’ultimo banco, è il re dello “schiaffo der soldato” e de “nun se move ‘na foja!”, giochi nei quali sviluppa le sue future abilità di provocatore e di mostratore de diti medi occulti a tutti i compagni de classe. Soprattutto a quelli che nun je passano i compiti.

Quando sbarca a Fiumicino se presenta così a Tare: “Io Sergej”. E il buon Igli, memore delle gare de verbi che faceva a Tirana, je risponde: “…Tu sergesti, egli sergebbe, noi sergemmo, voi sergeste, essi sergerono!”

Fu così che nacque subito un grande feeling che fece sì che Sergej preferì la Lazio alla Fiorentina.

Accolto dal solito mantra del laziale 2.0, “se era bono, te pare ce lo davano a noi?” (lo stesso usato, tra l’altro, per De Vrij, Leiva e Parolo), er buon Sergej co’ er poro Pioli se specializza nella spizzata de palloni su rinvio der portiere e nulla più, nun trovando un’esatta collocazione in campo.

Sarà grazie a Simone Inzaghi, uno che fa colazione co’ Pane e Bielsa, pranza con Spaghetti alla Mourinho e cena co’ Scaloppine alla Sven Goran, che er buon Sergej se piazzerà ar centro der campo. E nun ne uscirà più.

Perché Sergej c’ha er nome ar passato ma è il primo giocatore proiettato nel futuro pe’ quanto è moderno.

Perché Sergej c’ha più ruoli che cognomi.

Perché er fratello che gioca in porta, nun è er fratello, ma è lui che sotto mentite spoje se diverte pure a mettese in porta.

Perché Sergej mena quando deve mena’.

Segna quando deve segna’.

Dribbla quando deve dribbla’

Provoca quando deve provoca’.

Sempre co’ quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, che abbiamo noi che andiamo a tifare la Lazio.

La faccia de chi nun c’ha paura de niente.

La faccia da Laziale fracico.