ATALANTA-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 8: er Dottor House della Lazio. Tiene in vita la squadra con due interventi prodigiosi.

Bastos 4: al fallo de rigore me so’ vestito con un lenzuolo bianco, ho fatto du’ buchi alla fodera del cuscino, me la so’ infilata in testa. E me so’ iscritto alla sezione del Ku Klux Klan del Tennessee. Oggi me consegnano pure er cavallo bianco e la croce infuocata.

De Vrij 6,5: gioca’ co’ Bastos vicino è pericoloso come anda’ cor casco in motorino ai Quartieri Spagnoli.

Radu 6,5: quando nun c’arriva con il fisico, se la cava cor mestiere. Un po’ come Geppetto che co’ ‘na sega ha fatto un ragazzino.

Marusic 5,5: ieri viaggiava co’ quindici minuti de ritardo.

Leiva 6,5: Berisha con una parata plastica tipo “portiere de Subbuteo” je nega er go’ che avrebbe cambiato il match.

Parolo 6,5: indispensabile come er Tuttocittà pe’ un Pony Express negli anni ‘90.

Lulic 6: se fosse un album de De Andrè sarebbe “In direzione ostinata e contraria”. Che potrebbe essere anche il titolo della sua biografia.

Milinkovic-Savic 7,5: è talmente prepotente che la FIGC ha istituito il “Telefono Biancoazzurro”, un servizio d’assistenza per tutti i centrocampisti avversari vittima del bullismo del buon Sergej.

Luis Alberto 7,5: Odvaldo Soriano sosteneva che “Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. «Questi sono i profeti. I poeti del gioco».”. Luis Alberto appartiene, senza ombra di dubbio, alla terza categoria.

Caicedo 6,5: nun tira mai in porta. Ma tutto il resto lo fa bene. Un po’ come uno che se limita ar petting ma nun affonda il colpo.

Wallace 5: tra lui e er Papu ce stanno gli stessi centimetri de differenza che ce stanno tra Pippo Baudo e Pupo. In altezza e lunghezza. Ma tutto ciò nun je impedisce de fa’ ‘na cazzata che riapre vecchie ferite e a cui solo un prodigioso Strakosha mette ‘na pezza.

Anderson 6,5: bravino ‘sto ragazzetto riccio. Ma chi è?

Lukaku 6: entra in campo ma non in partita.

Inzaghi 10: “Mi farei espellere altre cento volte per questa maglia che amo da vent’anni”. Ecco. È tutto qui.

AVANTI LAZIO.

AVANTI LAZIALI.

LAZIO-CITTADELLA: LA MIA PARTITA

Dimolo subito. Nun esistono partite facili e partite inutili. Esistono partite più o meno stronze. E er primo turno de Coppa Italia rientra da sempre nel fitto elenco delle partite stronze. Quelle che se vinci hai fatto er tuo, come er marito co’ la moje dopo vent’anni de matrimonio. E se le perdi, vai incontro a ‘na figura de merda colossale. Tipo quando esci ai rigori co’ La Spezia, per dire. E ‘sto Lazio-Cittadella arriva proprio ner momento più difficile della stagione. In un periodo che la Legge de Murphy sulla Lazio fa più danni de quelli che potrebbe fa’ un pm de Rifondazione Comunista a Berlusconi.

E quindi, memore der detto “quando una cosa può andar male, ci andrà” te approcci a ‘sta partita co’ le chiappe strette come un etero al Mucca Assassina. Perché pure se er Cittadella viene qui senza pretese, er ricordo de quel Lazio Siena giocato sempre de dicembre e salvato in zona Cesarini da Ciani prima e da Carrizo poi è sempre vivo. E come dimenticare poi la prima volta che portasti tuo fratello allo Stadio? Un Lazio-Modena degli anni ‘90 quando Ruben Sosa era un idolo e Marco Ballotta, giovane (anzi, no, Marco Ballotta nun è mai stato giovane) portiere avversario si erse a baluardo insuperabile. 1-3. E vajelo a spiega’ a tu’ fratello che er calcio è bello. E tifa’ ancora de più. Vabbè.

Però la Lazio fa la Lazio. Quella che ce piace. Ciro, fascia al braccio e pepe al culo, è sempre on fire. E Giacomelli con quella spocchia de chi se crede stocazzo, appare finalmente lontano. Se poi ce mettemo pure er ritorno al goal de FeLucio “Battisti” Anderson. Se ce aggiungemo du’ passaggi filtranti de Lucas Leiva che valgono da soli er prezzo der bijetto. Se ce mettemo er piacere de incontra’ in Tribuna l’amici de sempre. E pure qualcuno de più. Beh. Se po’ afferma’ tranquillamente che Lazio-Cittadella è stata più de ‘na partita. È stato un inno alla gioia.

Co’ tanti saluti a Ludovico Van. E soprattutto a quer pezzo de merda de Giacomelli. Perché er Laziale non dimentica.

Er Laziale aspetta solo che je riattraversi la strada davanti.

Pe’ acciaccatte.

SAMPDORIA-LAZIO: LA MIA PARTITA

Sì, ok, Genova puzza de pesce, er mare inquinato, etc, etc. Però alla Sampdoria, dopo la vittoria ai rigori in Coppa Italia e quel 25 aprile del 2010 che ce liberò dar male, nun je se po’ vole’ male. Dai su. Perché quando semo tristi, uno mette gli highlights dei go’ de Pazzini. Pensi che potevi nasce romanista. E allora te rendi conto che la vita è bella. E va bene così. Senza parole. Come resti tu quando, ner momento più bello della partita, dopo un palo preso da Parolo e una costante spinta offensiva alla ricerca del vantaggio, Bastos e De Vrij vanno insieme addosso a Quagliarella manco fosse ‘na bella fica e lasciano solo soletto Zapata, noto rivoluzionario messicano, che porta in vantaggio la Samp. Uno a zero nel momento migliore dei tuoi. E visto che la Lazio viene da un paio de settimane in cui, secondo i dettami della Legge de Murphy, tutto quello che po’ anna’ storto, ce va. Anzi, ce VAR. Tu stai lì, sur divano, e pensi che pure oggi è annata. Perché la Samp in casa ha sempre vinto. Che due settimane fa ha schiantato la Juve. E che. E che. E che cazzo. Pure la Lazio però fuori casa ha sempre vinto. Pure la Lazio ha schiantato la Juve. Per ben due volte addirittura ner giro de pochi mesi. E allora eccola che torna la squadra che comoscevi. Ecco Milinkovic che domina er gioco manco fosse Dart Fener ner villaggio dei Puffi. Ecco Marusic che spigne sulla fascia come un treno de quelli che arrivavano in orario quando c’era lui. Ecco la mischia su ‘na punizione ed ecco la zampata de Sergej a dieci minuti dalla fine che rimette le cose in parità. Uno a uno. E Sergej che se guarda i compagni e je fa er gesto tipo “Annamo, va! Che se inculamo pure questi!”

E mentre la fortissima Samp arranca come Apollo Creed sotto i colpi de Ivan Drago, eccolo il momento definitivo. Quer momento in cui er Sergente decide de fa’ come je pare. Pesca in area de rigore con la precisione de Sampei la Pantera Nera. Che dopo ave’ chiesto a Immobile “Ce penz tu, Ciru’?!”, s’appropria der pallone vagante e regala i tre punti alla Lazio. E il VAR muto. Sto cazzo de VAR che pare ‘na socera che vole mette bocca su tutti quelli che so’ i cazzi della Lazio. ‘Na socera che però fa pippa quando se tratta de anna’ a rompe i cojoni a qualcun altro. E mentre Caicedo se concede una delle esultanze più belle della storia. Mentre Inzaghi s’abbraccia Leiva e Lulic come er soldato Ryan dopo che è stato salvato. Mentre i giocatori vanno a esulta’ sotto il magnifico settore ospiti. Capisci pe’ l’ennesima volta che sta squadra c’ha du’ palle così e che pe’ fermalla ce vole solo ‘na Vagonata de Acchitti Reiterati. In poche parole: VAR.

SAMPDORIA-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6,5: il pugno con cui stende Ferrari vale il prezzo del biglietto. Per un match de Floyd Mayweather.

Bastos 5: spaesato come Troisi e Benigni a Frittole nel 1400 (quasi 1500). In questo periodo, fa più danni della neve a Roma sotto la giunta Alemanno.

De Vrij 6: partita quasi perfetta se non fosse per l’errore sul goal di Zapata in condivisione con Bastos. Ricorda Carlo Verdone durante il test di ammissione ne “I due carabinieri”: “Tutto giusto tranne questo Alberto Manzoni!”

Radu 7: co’ Bastos e Lulic se comporta come quell’amico tuo che te veniva sempre a salva’ dalle situazioni de merda un attimo prima de pija’ le pizze.

Marusic 7,5: sulla fascia pare uno uscito da ‘na puntata de Holly e Benji. Potrebbe corre pe’ ore, pe’ più de du’ puntate. E lo troveresti sempre fresco, asciutto e pettinato.

Lulic 5,5: sulla partita ha lo stesso effetto de ‘na fake news: sembra che c’entri qualcosa e invece fa solo tanta confusione.

Leiva 6,5: secondo i principi della teoria del caos, ogni volta che Lucas Leiva recupera un pallone, da qualche parte nel mondo, Luciano Ligabue comincia a canta’ “Una vita da mediano”.

Milinkovic-Savic 8: bullizza il temuto centrocampo della Samp con una prestazione in cui c’è tutto: esuberanza tecnica, prestanza fisica e fijodenamignotticità (che è la caratteristica principale che trasforma un ottimo giocatore in un fuoriclasse). Realizza il goal del pareggio con un tocco di rapina e poi inventa il passaggio geniale che porta al raddoppio. Nel mezzo, una serie di giocate che andrebbero usate per aggiornare le finte del prossimo FIFA.

Parolo 7: imposta, recupera palloni e sfiora il goal. In pratica, è come er Bimby. Fa un po’ tutto e lo fa bene.

Luis Alberto 6: si sta come i parabrezza/ delle auto/ in inverno/ la mattina presto. Appannato.

Immobile 6: c’ha talmente abituati bene che se nun segna pe’ du’ settimane de seguito telefonamo subito a “Chi l’ha visto?”

Patric 6,5: se la grinta avesse valore, Gabarron sarebbe l’omo più ricco del mondo.

Lukaku 6: meno decisivo di altre volte ma utile alla causa come una Ceres durante un falò a Ferragosto.

Caicedo 8: quello che il Var toglie, il Dio del Calcio restituisce. L’uomo più criticato del calciomercato Laziale si trasforma nella Provvidenza Manzoniana e regala tre meritatissimi punti ad una Lazio che non molla mai.

Inzaghi 7: nonostante la Lazio sia inversamente proporzionale al VAR, la sua squadra interpreta una partita da grande sul campo più difficile della serie A. Va sotto, rimonta e poi in evidente superiorità agonistica piazza il colpo del K.O. grazie a Caicedo. Quando sullo zero a zero, Giampaolo prova a vincere la partita, lui se gira verso la panchina doriana e je fa: “Fa er bravo, sennò te scateno l’omo nero!” Detto. Fatto. Se narra che er poro Giampaolo stia ancora a piagne.

AVANTI LAZIO

AVANTI LAZIALI

ESSERE MANAGER

Quello che ho imparato in quindici anni di gestione di risorse umane (aperta e chiusa parentesi: se vengono chiamate “risorse” un motivo ci dovrà pur essere) è che la prima cosa che deve assolutamente fare un manager è “non fare danni”. Se si riesce a gestire un gruppo di lavoro non stravolgendo competenze, ruoli e attitudini, si è già un passo avanti e a metà dell’opera. La seconda cosa che ho imparato è che il manager deve essere credibile agli occhi del proprio team. Deve rispettare e pretendere rispetto. Deve mettere la gerarchia al primo posto e al tempo stesso usare bastone e carota. Ad essere troppo buoni lo si prende nel culo proprio da coloro che si cerca di proteggere a tutti i costi. Ad essere troppo cattivi, si finisce per essere ammutinati. Perché ci sarà sempre qualcuno, nascosto nell’ombra, che ascolterà le loro lamentele e che non vede l’ora di farvi fuori. Ma al tempo stesso, un manager deve sempre dare la sensazione di avere il controllo della situazione. Deve essere in grado di trovare alternative nei momenti di difficoltà. E deve saper mostrare la strada da percorrere, illuminandola il più possibile con le sue idee e il suo carisma.

La terza cosa è che esiste un tempo per gli esperimenti e uno per le certezze. Posso insegnare come si spunta la merce ad un nuovo assunto il giorno che mi arrivano in negozio tre colli di merce e non quando me ne consegnano duecento, per esempio. Posso spiegare come si fa il visual in un martedì mattina di metà novembre e non il ventitré dicembre, altro esempio. Quindi, come diceva John Belushi, “quando il gioco si fa duro, i duri devono cominciare a giocare”. Perché è compito del manager ottenere il meglio dalle proprie risorse e mettere ogni elemento in condizione di rendere al massimo. Il resto, in linea di massima, verrà da sé.

Zdenek Zeman diceva che “il risultato può essere occasionale, la prestazione mai”.

L’Italia allenata da Ventura, allenatore da me stimato quando allenava i club, non ha seguito una sola di queste regole.

E il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Peccato perché non impareremo nulla nemmeno da questa, ennesima, mortificante, lezione.

PENSO CHE UN DERBY COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ

Piove su Roma.

Piove.

Incessantemente.

Ininterrottamente.

Lacrime di pioggia scendono scroscianti sulla città eterna.

E la bagnano. La puliscono. La purificano.

La preparano alla battaglia.

Oggi è l’11 novembre.

Dopo 5 anni dall’omicidio di Gabriele, ecco di nuovo una domenica.

Ecco il Derby.

Ecco Lazio contro Roma.

Gabriele Sandri non c’è più. Ucciso da un colpo di pistola criminale sparato dall’agente della Polizia Stradale, Luigi Spaccarotella.

La Lazio giocava in trasferta contro l’Inter quel giorno.

La sua trasferta si fermò nei pressi della Stazione di Servizio di Badia al Pino.

Gabriele Sandri non c’è più.

Fisicamente.

Ma resta nel cuore della sua famiglia. Di suo padre Giorgio, di sua madre Daniela e di suo fratello Cristiano.

Già, Cristiano, con cui Gabriele aveva un legame speciale.

Forte.

Un legame che un proiettile sparato in modo infame non può interrompere.

Se non in modo fisico.

Per questo, Cristiano chiama Gabriele il suo primogenito.

Per questo, Roma ha di nuovo un figlio che si chiama Gabriele.

E la Lazio ha un nuovo piccolo tifoso che si chiama Gabriele.

Quel bambino piccolo che Cristiano porterà allo Stadio nel pomeriggio per il suo primo Derby.

Per la celebrazione di un popolo nei confronti di un tifoso speciale.

Speciale e sfortunato.

Un volto e un sorriso diventati un’icona.

Il simbolo di un giorno che non dovrà mai più ripetersi.

E se su Roma piove.

Se la pioggia scende e bagna.

Se bagna e purifica.

Beh…

Forse non sono gocce normali.

Ma sono lacrime.

Le lacrime di una città…di un popolo…che piange e ricorda il proprio figlio.

Eh già.

Non è una semplice pioggia di novembre.

Arrivo allo Stadio intorno alle due. Ho evitato la prima parte del diluvio mattutino. Anzi. Un discreto Sole mi ha permesso anche di godermi una corsetta domenicale. Di quelle che non mi concedevo da un po’. Quasi otto chilometri.

Ma sono teso e il fisico non mi segue.

Poi, la velocità delle nuvole ha fatto il resto. Ha coperto il cielo. Gli ha cambiato colore. Lo ha incattivito.

Gli ha ricordato che giorno è oggi.

E lo ha fatto piangere.

Per preparare l’atmosfera.

Per preparare la città.

Alla battaglia.

Civile e sportiva.

Arrivo allo Stadio. Parcheggio la moto al solito posto. Di fronte al ministero degli Esteri. Mi rendo conto di essermi dimenticato il copri casco.

Cazzo.

Verrà giù il mondo, hanno detto.

Il mio casco, legato al disco anteriore, raccoglierà millimetri di acqua. Ma lo interpreto come l’ennesimo fioretto che faccio per strappare un risultato positivo.

Sto perdendo il conto. Delle scaramanzie fatte.

Basteranno?

Lo scopriremo solo vincendo.

Mi avvio verso la mia Tribuna Tevere.

In silenzio. E ripenso.

Ripenso al Derby dell’anno prima. Quello di Miro Klose all’ultimo secondo. Ripenso a chi era con me lo scorso anno e ora non c’è più. Perché ha scelto un’altra strada.

E allora mi avvio solo. In mezzo a tanta gente.

Ma poi mi guardo intorno, vedo negli altri tifosi, il mio stesso sguardo, la mia stessa carica, la mia stessa passione e mi rendo conto che, solo, in fondo, non lo sono stato mai. E non lo sarò mai.

Finché ci sarà la Lazio accanto a me.

Metto in testa il cappello celeste. Lo stesso dello scorso anno. Tiro fuori il documento e l’abbonamento e entro.

Cerco la bancarella che vende “La voce della Nord” ma non la trovo.

Ripenso all’ultima volta che ho comprato la fanzine degli Irriducibili.

Lazio Milan 3 a 2.

Una vittoria netta con tanta sofferenza finale.

Ma comunque una gran vittoria.

E allora ecco l’ultima di tante scaramanzie.

Torno indietro.

Perché un flash visivo mi aveva fatto notare la bancarella fuori dai cancelli e non dentro.

Percorro la strada contromano.

Mentre tutti entrano, io esco.

In fondo, è una vita che vado contromano e sento il vento in faccia.

Che mi fa sentire vivo.

Sempre.

Supero i carabinieri.

Chiedo allo Steward di bloccare la gente in entrata per farmi uscire.

Esco. Vedo la bancarella. Compro.

Vini. Vidi. Comprai.

E rientrai.

Percorro i trecento metri che vanno dai tornelli all’ingresso della Tevere.

Arrivo ai cancelli.

Mi metto in fila. Nel solito cordolo. Anche se gli altri sono più vuoti.

Mi autoassegno la legge di Murphy.

Mi guardo intorno.

Tanta gente intorno a me.

Io lo so che non sono solo.

Anche quando sono solo.

Salgo le scale. Quelle che portano all’ingresso. Allo scavallamento di tutti i sogni e di tutte le aspettative che solo un Derby può dare.

E che solo un Derby sa dare.

Vado al mio posto. Il mio solito posto. Quello che resterebbe libero anche se arrivassi due secondi prima dell’inizio della partita. Seggiolino 12d.

Guardo la nostra splendida curva che ha in programma una coreografia speciale per Gabriele.

Guardo gli ospiti.

Ospiti oggi.

Ospiti da sempre.

Nonostante il nome che portano.

Ma è quel “La” all’inizio che svela l’inghippo.

Un inghippo nato nel 1927 per volere di qualcuno che voleva regalare una squadra da tifare a chi emigrava a Roma. E che voleva sentirsi subito romano. Senza esserlo.

Saluto i compagni di ogni domenica.

Le signore del “Bruno Giordano Fans Club”, il signore e la moglie, Fausto, Marco e Franco. E tutti gli altri. Tutti presenti. Come ogni domenica. Come sempre.

Appoggio lo zaino. E scendo a prendere un caffè. Ci vuole.

Incontro i soliti volti.

Gente incontrata a Londra, ad Atene.

Lo Stadio, in fondo, è una parentesi dove ci si ritrova amici senza frequentarsi mai.

Che cancella le differenze di età. Che ti rende eterno e sempre in voga. Che crea legami.

Che ti fa stare bene e che ti permette di non pensare ai problemi che nascono fuori da quei cancelli verdi.

Ti protegge da tutto.

Come la placenta per il neonato.

Solo che i nove mesi, lasciano spazio ai 90 minuti.

Di uguale, c’è solo il Travaglio.

Torno in postazione.

Sono nervoso. Più che mai.

Anche se le due vittorie dello scorso anno, ci hanno ridato fiato.

Mi isolo.

Abbasso lo sguardo. Prendo “la Voce della Nord”.

Ma poi sento il boato e capisco che stanno entrando per il riscaldamento.

Marchetti è sempre il primo.

Entra correndo e saluta.

Deve essere bello avere una curva che applaude solo te.

Applaudo e il sangue comincia a sciogliersi.

A tornare in circolo.

A riprendersi il mio corpo.

Passa qualche minuto ed entra il resto della squadra.

Ledesma guida il Gruppo. Capitano dentro. Non gli serve la fascia per essere un leader. Vero. Testa fredda e cuore caldo.

E poi tutti gli altri.

Tutti carichi.

Stefano, Miro, Senad, Alvaro, Abdoullay, Andre, Giuseppe, il Profeta, Antonio.

Tutti bellissimi nel completo celeste e nei pantaloncini bianchi.

La Nord è carica a pallettoni.

Si riscaldano loro, ci riscaldiamo noi.

Loro i muscoli, noi le corde vocali.

Poi, entra la Roma. La As Roma.

Ma non sono in undici. Sono tutti i convocati a scaldarsi. Segno che il Boemo vuole confondere le idee.

Molto Strano per uno che non cambia atteggiamento tattico da vent’anni.

Ripenso a Zeman e mi passa la mia vita da tifoso davanti.

E i miei pensieri si ritrovano davanti ad un bivio:

Sarà lo Zeman dei quattro derby su quattro romanisti…che poi sarebbe lo stesso del nostro 0 a 3 contro la Roma di Mazzone…spavaldo e presuntuoso…o sarà quello che permette ai suoi giocatori di autogestirsi per salvare la faccia? Quello del 2 a 0 con goal di Signori e Casiraghi o quello del 3 a 1 per la Roma e del “vi ho purgato ancora”?

Mentre la mia mente viaggia nei miei corsi e ricorsi storici e i giocatori terminano il riscaldamento, sui monitor parte un video prepartita.

E mi blocco. A livello emotivo.

La base è inconfondibile ed emozionante.

La voce è roca. E ci ha regalato emozioni infinite.

Tracce di vita, ricordi di falò estivi, pomiciate in spiaggia e cori a squarciagola sul pullman della gita scolastica.

Le immagini ci mostrano Giorgio Chinaglia e Tommaso Maestrelli, Miro Klose e Beppe Signori.

Mostriamo le sciarpe. Bellissime. Che trasformano lo Stadio in cielo. Un cielo sereno e bianco celeste. Al contrario di quello vero. Grigio. Chiuso. E vendicativo.

Piove. A dirotto.

Mentre Lucio, da lassù, ci chiede che anno è…che giorno è…

E tutto lo stadio bianco celeste gli risponde che “è il tempo di vincere con te”.

Lazio mia.

Le squadre rientrano negli spogliatoi mentre lo speaker annuncia le formazioni.

Zeman rinuncia a Castan e al Taxi greco e preferisce Goicoechea a Stekelemburg.

E se la gioca così:

Goicoechea, Piris, Balzaretti, Marquinhos e Burdisso, Bradley, De Rossi e Florenzi, Lamela, Totti e Osvaldo.

Il Colonnello Petkovic, uno che parla cinque lingue, che non fa mai polemiche, che ti guarda negli occhi e ti convince che puoi e devi farcela, va avanti per la sua strada e presenta la sua Lazio migliore. Senza dubbi.

Marchetti tra i pali

Konko a destra.

Lulic a spingere a sinistra.

Biava e Dias come Bud Spencer e Terence Hill.

Non passate, altrimenti ci arrabbiamo.

Ledesma a bloccare la mediana e a cercare lanci lunghi nelle praterie Zemaniane.

Gonzales a fargli da fido scudiero. Come Kit Carson con Tex Willer.

Hernanes libero di portare il suo verbo a spasso per il Prato verde.

Mauri a cercare gli inserimenti giusti.

Candreva è l’assaltatore cambiare passo al centrocampo con la sua corsa e le sue folate.

E Klose.

Che è come la pubblicità di quel cofanetto di caramelle di tanti anni fa.

Basta la parola.

Klose.

E li vedi già tutti impauriti al solo pensiero di vederlo esultare di nuovo.

Klose.

E sai già che stai con un goal di vantaggio.

Klose.

E s’abbracciamo.

Come lo scorso anno.

Poi, però, dieci minuti prima dell’inizio del match, tutto si ferma. E diventa emozione.

Le gocce di pioggia diventano lacrime.

Entra in campo, accompagnato dal presidente Lotito e da Fabrizio “Diabolik”, Cristiano Sandri, che porta in braccio il suo piccolo Gabriele, splendido e puro nei suoi 3 anni.

Il numero 3.

Vorrà dire pur qualcosa.

L’ombrello bianco celeste li ripara dalla pioggia e Cristiano va sotto quella curva che tante volte con il fratello, lo ha visto protagonista.

Quante volte Cristiano avrà sognato di andare sotto la curva ad un Derby. Quante volte.

La vita, infame e bastarda, glielo ha concesso per il motivo più assurdo che c’è.

Piove.

E Cristiano sorride e piange. Mentre guarda il suo Gabriele in braccio e pensa a Gabbo che non c’è più.

Applaudito da 50000 spettatori. Senza distinzioni di colori, stavolta. Almeno per una volta.

“Un’Ultras non dimentica. Gabriele per sempre con noi”

Lo striscione che gli riserva la Curva Nord è un atto di fede. Un marchio di fuoco. Un tatuaggio indelebile.

Cristiano applaude e ringrazia tutti.

Il piccolo Gabriele capirà tra qualche anno.

Quando conoscerà il significato di queste due semplici parole.

“Meravigliosa Creatura”

Sono le tre. Ma di lacrime ne ho già versate abbastanza.

Troppa emotività.

Eh già, sto diventando vecchio.

E mi rendo conto che il cinismo e l’ironia che mi fanno da scudo nella vita, spariscono davanti a quel campo verde, a quei colori e a quei giocatori.

Sono le tre. Ancora le tre.

I giocatori salgono le scale che portano dagli spogliatoi al campo.

I tifosi avversari vorrebbero farci salire altri scalini. Di altri edifici. Soprattutto a Stefano Mauri. Che l’anno scorso, nel derby di ritorno, ha fatto la giocata giusta e li ha mandati a casa.

E proprio Mauri guida la truppa biancoazzurra in campo. Testa alta e Petko in fuori.

Totti, in dubbio come al solito prima di ogni Derby, è il Re giallorosso. Con tutto quello che ne consegue.

Mentre le squadre si preparano, scende maestosa, per l’ennesima volta, la bellissima coreografia della Nord.

Non servono rime, slogan o versi di canzoni, stavolta.

Non serve provocare l’avversario. Ricordargli la propria inferiorità storica.

No.

Bastano quel volto sorridente. Quel sorriso. Quegli occhiali da Sole.

Per squarciare il cielo e renderlo bianco celeste per un attimo.

Basta il volto di Gabriele. Fiero, sorridente e laziale.

Per ricordarsi che l’11 novembre è data nostra.

Purtroppo.

Gli altri. Quelli dell’altro reparto. Non hanno scampo. Lo sanno anche loro.

E così, quando dopo 4 minuti, Lamela spinge Lulic e si fionda di testa sul calcio d’angolo calciato da Francesco Totti e porta la Roma in vantaggio, ai più sembra un film già visto.

Lamela esulta. La Curva Sud esulta.

Io mi rilasso. Il più è fatto. Ormai è andata.

Mi guardo intorno. Cerco sguardi di incoraggiamento ma non ne trovo nemmeno uno.

Si. Ok. Le Date. Il Destino. Tutto bello. Ora. Tutto con il senno di poi. Ma al prima e al durante?

Chi ci pensa?

E il durante mostra una Roma che si finge sicura. Un Totti giovanile. Un Lamela maturo. Al contrario di quello che hanno mostrato finora con tutte quelle rimonte subite.

Poi. Però.

Poi nelle nuvole che sommergono Roma, compare lo Stellone.

Quello di sempre. Che ci accompagna da 112 anni. Quello del goal di Fiorini, del diluvio di Perugia, del goal di Behrami, del goal di Firmani, del goal di Klose.

Quello che rende la Lazio, un romanzo popolare e aristocratico allo stesso tempo.

E non una semplice squadra di pallone.

E allora prima lo Stadio si spegne completamente. O quasi.

Lasciandoci nel buio dei nostri pensieri.

Roma Nord è sotto il diluvio universale.

Noè avrebbe paura ad uscire di casa.

Io penso al Tavolino. Alla loro vittoria su ricorso a Cagliari. E penso che un derby a tavolino non lo voglio perdere.

A Subbuteo, pure pure.

Ma a tavolino, no.

E allora, dopo un paio di minuti interminabili, l’arbitro decide che si può proseguire.

Le luci piano piano si riaccendono.

La Luce in campo comincia a illuminare.

Ha la maglia bianco celeste e il numero 8 sulle spalle. Si chiama Anderson Hernanes de Carvalho Viana Lima. Ma per noi è semplicemente “Il Profeta”.

E ha classe, fisico e visione. Di ciò che accadrà.

Prende in mano la squadra e comincia a dipingere calcio. Come pochi.

Per lui il campo non è bagnato.

Lui cammina sulle acque.

E allora, Hernanes si procura una punizione a trenta metri dalla porta difesa da Goicoechea.

Hernanes ne ha spedita, poco prima, una alle stelle mentre penso che basta farla schizzare per terra per sfruttare il campo bagnato.

Oppure basterebbe tirare un siluro dritto per dritto per piegare le mani al portiere avversario.

Candreva si collega in Bluetooth con il mio cervello e sceglie la seconda opzione di quelle che gli ho messo a disposizione.

La botta è terrificante.

Dritta per dritta.

Centrale.

Goicoc’è.

Penso.

No.

Goicoc’era.

E la rete si gonfia.

Io non capisco subito.

Ho un ritardo di qualche decimo su ciò che avviene in campo. Sto in differita pur stando dal vivo.

Schizofrenia da tifoso.

Ma poi vedo la rete che si gonfia.

E Candreva, nuova aquila battezzata in quella notte magica dedicata a Giorgio Chinaglia, si fa mezzo campo per crollare in ginocchio come Willem Defoe nella locandina di Platoon.

Mentre la pioggia continua a scendere e a purificare.

Mentre Zeman, ripensando ai suoi schemi da giocare solo su un tavolo da biliardo, mastica amaro e pensa:

“Chi fermerà la pioggia?”

Uno pari.

E allora palla al centro.

La tensione sale. Perché dallo sprofondo giallorosso in cui ero entrato, ora emerge la speranza. La consapevolezza che siamo di nuovo in partita. E che siamo più forti.

Perché questa è l’unica certezza che ho e che li manda ai matti.

Siamo più forti.

Lo dice la classifica.

Lo dice la storia degli ultimi due campionati.

Ma non basta.

Siamo uno pari.

Palla al centro.

Via.

Il campo si mostra schizofrenico.

Pesante sotto la Monte Mario. Ai limiti della praticabilità.

Mentre sotto la Tevere il pallone schizza e scivola via.

Dottor Jekill e mister Hyde Park.

E arriviamo al 43esimo.

Ledesma mette una punizione in mezzo. La difesa della Roma respinge. Ma la palla finisce, per loro, nel posto sbagliato.

Tra i piedi di Hernanes.

Che irride Lamela e se ne va. Scherzando.

Con la leggerezza dei grandi. E la falcata degli Dei.

Arriva al limite dell’area di rigore. Bradley prova a chiuderlo. Ma lui tira. In porta.

La palla viaggia spedita ma poi si ricorda che solo il Profeta può camminare sulle acque.

La palla no. Non è divina.

E allora incontra un pozzanghera e si ferma. Per non mostrarsi blasfema.

Klose è da quelle parti non per caso. Perché lui, lì, ci vive. Tra le linee di difesa avversarie.

Alla ricerca di palle vaganti da accudire e spedire in porta.

L’uno due con cui Miro controlla con il destro e segna con il sinistro è degno del gioco delle tre carte.

Ora c’è. Goicoc’è. Goiconc’èpiù.

E noi esplodiamo. E ci abbracciamo. Ed esultiamo. E non ci crediamo nemmeno noi. A tanta bellezza.

Klose mostra il suo indice e pollice uniti.

“Ok, il goal è giusto” sembra dire.

E il suo nome scandito dai 35mila laziali entra nelle ossa dei 15mila romanisti e non lascia più.

Un’osmosi emotiva al contrario che rimette in circolo i loro vecchi fantasmi. E che ci fa fare voli pindarici.

Ma è ancora tutto da giocare, penso.

Mentre guardo la pioggia scendere incessante.

Mentre vedo Mauri agonizzante.

E mentre vedo Capitan Futuro andare sotto la doccia in anticipo per un pugno vile e senza senso.

2 a 1 per noi. Un uomo in più. E il primo tempo che finisce tra gli applausi.

Ora si che me la sto facendo sotto.

Perché, ora, noi, abbiamo tutto da perdere.

Loro no.

Hanno già perso tutto.

Di peggio non può succedergli.

Mi provo a rilassare ma non ci riesco.

Passa Mimmo, che avevo aiutato a Londra prima di Tottenham Lazio, a rintracciargli il figlio che si era perso, e mi dice:

“Annamose a fa’ ‘na birra…”

Accetto.

In trance.

Faccio la cosa giusta?

Mah si…ci vuole una birra.

Scendiamo le scale.

Offre lui.

In fondo, gli ho recuperato il figlio prestandogli il mio cellulare in terra straniera.

Gli confido le mie speranze e le mie paure.

“Ora dobbiamo restare calmi e aspettare…e fargli il terzo goal nei primi dieci minuti…così li ammazziamo definitivamente…”

Lui conviene con me. E con me viene di nuovo ai nostri posti.

Mentre la Roma rientra in campo e ci aspetta.

Avranno visto la puntata di “Sfide” di un paio di settimane fa. Penso.

Quella sulla Lazio di Maestrelli e Chinaglia.

Ma questa non è Lazio Verona.

E Totti non è, e non sarà mai, Giorgio Chinaglia.

Il Boemo toglie Lamela, il più in forma dei suoi, e mette il Taxi greco a dirigere il gioco.

Sono stato ad Atene qualche giorno fa e ho preso un paio di volte il taxi.

Ora…se prendi un taxi greco e lo metti in mezzo al traffico romano, questo si blocca. Perché non è abituato a Roma e ai romani. E alla quantità di macchine che puoi incontrare per strada.

Questa è la fine che farà Tachsidis. Ma prima che se ne possa accorgere, Ledesma lancia in area di rigore. La palla va da una parte, però, e Mauri dall’altra.

Però.

Il bello della Roma di Zeman è che c’è sempre un però. E la maggior parte delle volte, è a suo sfavore.

Il “però” di questa domenica, e di molte altre domeniche giallorosse di quest’anno, si chiama Piris.

Che interviene sbilenco. Come farebbe un giocatore di curling prestato al calcio.

E la palla finisce perfetta sui piedi di Stefano Mauri.

Che prima la stoppa. Poi se la mette sul destro. Poi spara imparabile alle spalle di Goicocestava.

3 a 1.

Dopo due minuti.

All’intervallo avevo chiesto un goal nei primi dieci per chiudere il match.

Sono stato accontentato.

Ma non ci penso a questa autoprofezia, mentre volo per la Tevere abbracciando e baciando chi mi capita a tiro.

No, non ci penso mentre Mauri fa l’ennesima giocata giusta della sua sottovalutata carriera di trequartista incursore.

Vola Stefano sotto la Nord.

A prendersi l’abbraccio dei suo tifosi.

Mentre Zeman fuma silenzioso in panchina, sotto la pioggia e ripensa ad Agosto, a quando tutto sembrava così bello, lanciato verso l’ennesimo scudetto estivo.

Mentre ora piove e “Agosto è ancora nei miei sensi”

Chissà cosa ne pensi, eh Boemo?

3 a 1.

E l’ennesima palla al centro.

Ora li ammazziamo, penso.

Non voglio prigionieri.

Ma la Lazio è ancora una squadra femmina. Va vicina al quattro a uno più volte. Ma cincischia e si piace troppo. E lascia campo ad una Roma disperata.

A venti minuti dalla fine, Zeman richiama in panchina Totti.

Capitano di mille battaglie. Spesso perse.

Se lui è l’uomo dei record. Lo è anche per quello dei Derby persi. Sono 13.

Diventeranno 14?

Me lo chiedo, mentre mi ritrovo ad applaudirlo mentre esce.

Mi osservo dall’esterno e mi rivedo nel generale tedesco di “Fuga per la Vittoria”…quello che, talmente malato di calcio, applaude il goal in rovesciata del prigioniero Pelé.

Non che io sia innamorato di Totti, sia chiaro. Ma, in fondo, con lui ci sono cresciuto.

Siamo diventati uomini insieme.

Quando iniziò a giocare facevo il quinto superiore. Ora ho quasi quarant’anni.

È stato il mio miglior nemico.

Per questo lo applaudo.

E non me ne vergogno.

Poi però si torna a giocare.

La partita è incanalata bene.

La Lazio non la chiude ma la Roma cozza contro la nostra difesa.

Io controllo distratto il cronometro sui cartelloni pubblicitari.

Mancano 5 minuti.

Solo 5. Più recupero.

Quando.

Se la Roma di Zeman ha sempre un “però”…la Lazio ha sempre un “te pareva”.

E il “Te Pareva” laziale di questa settimana ha le fattezze del braccio di Stefano Mauri.

Punizione sulla trequarti.

Secondo giallo a Mauri.

Espulsione.

“Te pareva”

Punizione per la Roma.

Pjanic, subentrato a Totti, vede Marchetti fuori dai pali.

Tiro.

Goal.

“Te pareva”

Marchetti sorpreso.

La Sud esplode e ci crede.

“Te pareva”

Penso mentre sto per collassare.

Impreco il signore e gli chiedo perché non mi ha fatto tifoso della Juve Stabia, della Triestina, del Carbonia.

Guardo l’orologio e vedo che mancano cinque minuti.

Più almeno quattro di recupero.

Nove minuti in tutto.

“Te pareva”

Lo penso io.

Lo pensano altri 34999 laziali allo stadio come me.

Mentre i romanisti riprendono fiato e dignità e ci credono.

Al miracolo.

I minuti scorrono lentissimi. Sembra quasi abbiamo rimesso l’ora legale e abbiano spostato le lancette indietro di un’ora.

Quattro minuti di recupero. CVD.

Io non parlo più.

Impreco dentro di me.

Mentre, con l’occhio alla Marotta, guardo contemporaneamente il cronometro sul tabellone e la partita in campo.

Quando.

Manca un minuto.

“Te pareva”

La Roma riparte.

“Te pareva”

Dalla destra parte un cross lunghissimo.

“Te pareva”

La difesa della Lazio va a vuoto.

“Te pareva”

Arriva Osvaldo.

“Te pareva”

Ci arriva Osvaldo.

“Te pareva.”

A botta sicura.

“Te parevaaaaaaaaa…..”

Fuori.

“Ma annatevelatuttiquantiapianderculo…”

Crollo sul seggiolino, più inebetito del solito.

Lo Stellone si è riacceso al momento giusto.

E spinge fuori il pallone dell’Italoargentino.

Mancano pochi secondi.

La pioggia non ha mai smesso di scendere.

La panchina laziale si alza in piedi. Pronta a festeggiare.

Io guardo fisso l’arbitro.

Lo vedo mettersi il fischietto in bocca.

Lo vedo gonfiare le guance.

Lo sento fischiare la fine.

Tre fischi.

Come quelli che abbiamo dato alla Roma.

Tre come le dita mostrate dal piccolo Gabriele Sandri a Osvaldo che gli chiedeva quanti anni avesse.

Tre come i Derby consecutivi vinti.

Tre.

E lo Stadio Biancoazzurro esplode finalmente e ancora.

Mentre quello romanista scivola via.

Lontano.

Furioso per l’ennesima rimonta subita, per l’ennesimo derby perso, per il gesto criminale di De Rossi.

E mentre su Roma continua a piovere in modo incessante.

E mentre noi ci abbracciamo e cantiamo, mi rendo conto che in un pomeriggio così buio e tetro, a tratti senza luce, gli occhiali da sole di Gabriele Sandri immortalati nella coreografia ci stanno proprio bene.

E hanno il loro significato.

Perché il nostro Sole non lo dobbiamo cercare tra le nuvole.

Ma solo e sempre dentro di Noi.

E Gabbo, con il suo sorriso immortale e con i suoi occhiali da Sole ci ha insegnato, oggi più che mai, che, anche nel peggior diluvio, si può nascondere il Sole più bello.

Puro e bellissimo come i suoi 3 anni.

E oggi a Roma, diluvia solo per una tifoseria.

Ciao Gabbo.

Questa vittoria è tutta tua.

E per il tuo splendido nipotino.

L’UNDICI DA SOGNO

“Insomma, mi spiegate bene cos’è questo Derby? Perché è così importante? Ai miei tempi, c’eravamo solo noi…lo portammo noi il Calcio a Roma, nel 1900…”Luigi cercava di capire. Quello che non poteva sapere. Perché lui era un figlio della Roma di fine ‘800. E non poteva capire cosa significava, fino in fondo, la parola “Derby”.

A Roma. Nel 2013.

Per questo, guardò i compagni che si stavano preparando con lui per scendere in campo e chiese. Perché Luigi Bigiarelli era stato un precursore. C’era stato prima lui. E poi tutti gli altri. Figuriamoci se poteva sapere cosa fosse l’As Roma.

“Il Derby è la Madre di tutte le partite, Luigi…perché è uno scontro tra due mentalità…tra la nostra élite e la volgarità giallorossa. Tra chi nasce a Roma e chi, di Roma, ha preso solo il nome. Sporcandolo. Con un “La” davanti.

Bob rispose a Luigi mentre si infilava i guanti. Perché lui, della Lazio, era stato sempre il custode a guardia della porta. E, da due anni, ne era anche l’angelo. Custode. Perché Bob Lovati era sinonimo di Lazio. L’aveva vissuta come si vivono solo i grandi amori. Perché lui, di Lazio, era innamorato.

“Fidati di quello che dice Bob, Luigi…è così, vedrai…per me il Derby è una questione di vita o di morte. Di trionfo o di tragedia. E quanto mi piace provocarli. Magari andando sotto la loro curva dopo un mio goal. E puntargli il dito contro. Sono emozioni che non puoi capire se non le vivi in prima persona. Ma ormai ci siamo…manca poco…”

Giorgio, con il suo parlare burbero, rafforzò la tesi di Bob mentre si allacciava gli scarpini di pelle di canguro. Indossò la maglia con il numero 9 senza aspettare che il Mister assegnasse i numeri. Perché il 9 era suo. Perché lui era Giorgio Chinaglia. Il grido di battaglia.

“Poi se oggi…” continuò Giorgio “…Mario e Luciano giocano come sanno, non ce n’è per nessuno…dammi retta…insieme a loro, abbiamo dato spettacolo ovunque…vero, Mister?”

Mario Frustalupi e Luciano Re Cecconi sorrisero. Perché, per loro, la frase di Giorgio era l’ennesimo deja vu di tante partite affrontate insieme. Di tante battaglie vinte.

Il Mister osservava divertito la scena. Sapeva che, in partite come quella che stavano per disputare, c’era poco da dire. Perché conosceva Giorgio come i suoi due gemelli. Era un altro figlio. E lo adorava. Perché Tommaso Maestrelli considerava tutti i suoi giocatori un po’ suoi figli. Ma Giorgio, di più. Giorgio era Giorgio.

“Basta che passi la palla pure a me, ogni tanto…Gio’…in fondo se stiamo qui a giocarci ‘sta Coppa, il merito è pure un po’ di quel mio goal con il Vicenza…che non ci ha fatto scomparire…”

Giuliano fece l’ultimo tiro di sigaretta, prima di alzarsi e andarsi a prendere la sua maglia. Quella che era solo sua. Perché aveva l’aquila blu stilizzata sul petto. E profumava di leggenda. Di meno nove. Perché Giuliano Fiorini aveva ripreso la Lazio per i capelli, in un caldo pomeriggio di giugno, e l’aveva riportata in vita. Quando tutti la davano per morta. Per questo, la Lazio moderna era anche un po’ sua.

“Tranquillo, Giuliano, te la passo io la palla…” la voce timida di Rosario interruppe quella chiassosa conversazione. Perché si erano tutti dimenticati di lui. Di Rosario Aquino. Attaccante giovane ed estroso che, mentre la Lazio si aggiudicava il Derby dello Scudetto, tredici anni prima, andò incontro al proprio Destino. A vent’anni.

Giuliano sorrise e gli accarezzò i capelli. E si commosse.

“A crossare a Giorgio, invece, ci penso io…che su quella fascia vado come un treno…” Mirko era emozionato ma anche sicuro di sé e della sua giovinezza. Perché sarebbe stato il suo primo Derby vero. Lui che era stato un bravo Allievo. Ma non aveva mai vissuto il Calcio professionistico. Però Mirko Fersini, un giorno così lo sognava da una vita. E non avrebbe fallito. Per niente al mondo.

“Bravo piccole’…così mi piaci…” Giorgio gli fece l’occhietto, mentre tutti risero.

Mancavano ancora pochi minuti alla partita. Alla Finale che avrebbe deciso una Stagione. E una Città.

Il Mister prese la parola. Guardò la porta dello spogliatoio.

“Potete entrare…voi due…”

Paolo e Alessandro entrarono. In silenzio. Rispettosi di quello che vedevano davanti ai loro occhi. Quanta Lazialità. Quanta commozione.

“Gli ho chiesto di venire a darci una mano, perché a undici, fortunatamente, non ci arrivavamo…” – sorrise amaro, Tommaso – “…e perché loro hanno imparato, in modo opposto, sulla loro pelle, cosa significa “il Derby a Roma”.”

Paolo Di Canio e Alessandro Nesta presero posto nello spogliatoio. In silenzio. Consapevoli della grandezza e della sacralità del momento. E ripensarono ai loro Derby.

Paolo ripensò ai suoi due goal sotto la Sud. Ai romanisti increduli. Ad un popolo in estasi.

E promise a se stesso che quella sera avrebbe fatto il tris.

Alessandro pensò ai quattro su quattro in una stagione. E ai quattro goal di Montella, in un derby maledetto. E, se si trovava lì, era perché aveva deciso che era giunto il momento di lavare quell’onta. Finalmente.

“Mister, siamo comunque dieci…mica vorremmo giocarci la Finale di Coppa Italia in inferiorità numerica?”

Ci fu un attimo di silenzio.

“E io che ci sto a fa’?” la voce di Gabriele interruppe quel momento di imbarazzo e diede slancio nello spogliatoio.

“Certo, non sono un professionista come voi, ma me la cavo…e poi, sono Laziale dentro. Da sempre. Una Passione che mi hanno trasmesso mio padre Giorgio e mio fratello Cristiano. Che mi hanno fatto capire, fin da bambino, cosa significa essere Laziali a Roma. Scozzesi in terra Inglese. Ma con orgoglio infinito. Vi ho seguito ovunque. Non ho dormito per voi. Perché VOI siete la mia Vita. E questo Derby lo gioco al vostro fianco. Fino all’ultimo secondo. Fosse l’ultima cosa che faccio. E ora sbrighiamoci che su c’è Vincenzo che ce sta a aspettà…”

L’applauso nello spogliatoio partì spontaneo. Tutti si alzarono ad abbracciare Gabriele. E a dargli il cinque di incoraggiamento. Con le lacrime agli occhi.

“Allora, Mister, dove gioco?” chiese Gabbo.

“Ti metti a centrocampo…a protezione…” gli spiegò il Mister.

“Della difesa?” lo interruppe Gabriele

“No…del Sogno…tu sai come si fa…”

Erano pronti.

26 maggio 2013.

LORO l’avrebbero preparata così.

(Da “La Voce della Nord”, Speciale Coppa Italia, 26 maggio 2013)

LAZIO-UDINESE: LA PARTITA CHE NON C’È

Che poi, dimose la verità, qui l’unico che la voleva gioca’ era er poro Lulic.”Signor Arbitro, guardi, pe’ me meno rimbalza e mejo è.”

Mentre noi tutti se guardavamo intorno spaesati.

“Se gioca?”

“Nun se gioca.”

“Mo’ drena!”

“Te pare che la rinviano?”

E allora tu, sfogliando l’album dei ricordi alla voce “diluvio”, stavi lì a ripensa’ ar Derby della quajia clamorosa de Goicoechea. Quello che ha permesso a Candreva de batte tutte le punizioni della Lazio da lì a venire. Quella dell’assist de Hernanes in compartecipazione co’ la pozzanghera.

E poi, ovviamente, t’è rivenuta in mente Perugia-Juve, la madre de tutti i diluvi. Quella che quando fai un fijo, speri che al battesimo lo possano fracica’ co’ un po’ de acqua presa da qualche pozzanghera del Renato Curi, il 14 maggio der 2000.

E poi come nun ripensa’ a Lazio-Milan de quest’anno. A quando sei partito da casa, che sembravi Noè a caccia de coppie d’animali da porta’ in salvo. E sei tornato a casa co’ un sorriso che trentadue denti nun bastavano. E un’erezione che Rocco Siffredi levate proprio.

E invece no.

L’arbitro Banti. Lino Banti da Livorno decide che oggi nun se po’ gioca’. Perché lui lo sa che la pioggia è della Lazio. E che visto che nun ce po’ nega’ un rigore o caccia’ un giocatore, l’unica cosa che po’ fa è rimannacce a casa. Senza ave’ consumato l’ennesimo pomeriggio d’amore co’ ‘sta Lazio.

E quando lo speaker annuncia che la partita è rinviata a data da destinarsi, l’unica cosa che il vero Laziale po’ fa è fischia’ la decisione dell’arbitro. E della FIGC.

E allora te incammini verso la macchina. Metti in moto e parti. Seconda stella a destra. E poi dritto. Fino a Lotito.

Poi la strada la trovi da te.

Questa è Lazio-Udinese.

La partita che non c’è.

GLI EFFETTI DI HALLOWEEN SULLA GENTE COMUNE

Immaginate i ragazzini di adesso.

Quelli che abbreviano tutto. Quelli che dai dodici ai diciotto anni pare abbiano sempre la stessa età. Quelli che giocano on line. Che comprano on line. Che scopano on line. Quelli che fanno cazzate per noia. On line.

Immaginate ora le signore romane di sempre.
Quelle che sono nate sposate. Con almeno due figli. Di solito, un maschio e una femmina. Con il marito che ormai è un tutt’uno con il divano. Quelle che saprebbero sopravvivere pure sul pontile del Titanic. Mentre affonda e l’orchestra suona.
Quelle che portano le buste della spesa con la stessa nonchalance con cui Schwarzenegger alzava 200 kili in panca. Quelle che fanno l’occhietto ar pizzicarolo e rimediano venti grammi in più di Prosciutto di Milano. “Quello buono”. Si, bravi. Proprio quelle.
I ragazzini di adesso, la notte di Halloween, suonano al citofono. Di sera, dopo le dieci.
Quando pure i testimoni di Geova stanno a casa a guarda’ X-Factor. Perché pure loro lo sanno che c’è un tempo pe’ caca’ er cazzo al prossimo e un tempo pe’ ingrifasse cor televoto. E poi vuoi mette i tatuaggi de Fedez?!?
Driiiiiiiin.
“E mo’ chi è che rompe li cojoni?”
La signora romana di sempre si rivolge al marito che, contemporaneamente, sta smanettando sul telecomando alla ricerca spasmodica di una partita di calcio qualsiasi. A lui andrebbe bene anche la replica di Juve Stabia-Lumezzane. Basta che sia calcio. Basta che non debba parlare con sua moglie. E invece no.
“Boh…sarà Teresa, la vicina…lo sai che quella nun conosce il significato del termine ‘rompicojoni’…toccherebbe faje lo spelling, secondo me: R come “Rompicojoni”…O come “Oh, hai rotto i cojoni”…M come “Mo’ m’hai rotto li cojoni”…P come “Però m’hai rotto li cojoni”…eccetera eccetera…”
La signora romana di sempre prende il citofono in mano, con la stessa noia con cui da trent’anni prende in mano la stessa cosa. Che dà meno segni di vita del citofono.
“CHI ÈÈÈ???”
E i ragazzini di adesso, innocenti come Eva che dice ad Adamo che vorrebbe una mela, “Solo una mela, che vuoi che succeda?”, rispondono:
“Dolcetto o scherzetto?”
Così. Netto. Brutale. Traslato in rima. Perché in inglese è “Trick or treat”. Ma a noi italiani, se nun c’è un mezzo scudo de rima, le cose nun ce piacciono.
“Che? Er Folletto??? No, guarda, c’ho già tutto…e c’ho pure i pezzi de ricambio…guarda, ragazzi’, c’ho un Folletto che manco Tolkien che è pratico…”
Le signore romane di sempre cominciano ad avere problemi di udito intorno ai sessanta. E vivono di assonanze.
Il ragazzino romano di adesso che ha citofonato, non senza difficoltà, visto che è vestito da Freddy Krueger (di Primavalle), si volta verso i suoi compagni d’avventura, Guy Fawkes (di Prenestina), Alex DeLarge (di Collina Fleming) e il Joker (di Prati Fiscali), si batte la tempia con l’indice come a dire “Questa sta fori come un balcone…” e risponde:
“No, Signora, non siamo della Folletto. Ho detto: D O L C E T T O O S C H E R Z E T T O? È Halloween! AL LO UIN!!! Signora, capisce?!? 31 Ottobre! Ognissanti!!! C’ha presente?!? Yuuhh-huuuh!!” E fa ampi gesti con le mani, sperando che la signora romana di sempre li stia guardando dallo spioncino.
La signora romana di sempre tappa con una mano la parte inferiore del citofono e si rivolge al marito, concentrato suo malgrado sulle sovrapposizioni del terzino del Lumezzane. E tutto il resto è noia. No, non ho detto gioia. Ma noia, noia, noia. Maledetta noia.
“Aho, ma che è sta cosa? Che è sto Allouin? Su “Tv, Sorrisi e Canzoni” nun c’era scritto niente!! Che è sta storia del dolcetto-scherzetto? Ma nun era mejo quanno i ragazzini, a sedici anni, stavano già co’ i N.A.R. o co’ Lotta Continua o chiedevano la stecca para pe’ tutti?”
“E che te devo dì???!?? Sai com’è sta società moderna: le feste importate, er televoto, Feisbuc, mariadefilippi, er vuoto generazionale….”
La signora romana di sempre guarda il marito con fare schifato come a dire:”Ma chi cazzo me so’ sposato trent’anni fa??? De che me sarò innamorata?!? Boh, vai a capì…” toglie la mano dal citofono, elabora l’ennesimo piano di sopravvivenza della sua vita e risponde:
“No, guarda, a voi della Allouin ve conosco già e nun me fregate ‘n altra volta…tra l’altro, le mollette a pannelli solari che asciugano i panni stesi pure quando è nuvoloso che v’ho comprato er mese scorso, nun funzionano…” e attacca il citofono con un tono finto risentito che Stanislavskij je spiccia casa.
Freddy Krueger guarda sconsolato Guy Fawkes che guarda a sua volta Alex DeLarge che guarda a sua volta il Joker che per due soldi Batman ammazzo’. Alla fiera dell’Est.
Si tolgono tutti le maschere. Sconsolati. Sconfitti da un cinismo e da un istinto di sopravvivenza tutto romano.
“Rega’, io ve l’avevo detto che sto Halloween nun fa pe’ noi…che Roma nun è New York…ve l’avevo detto che è come se facessimo la sagra della porchetta nel Maine o la festa della pajata in Ontario…ve l’avevo detto che se volemo svolta’, tocca punta’ sulla tradizione indigena e non sulle abitudini di riflesso…ma, Diocristo, nun era mejo continua’ a fa’ li scippi?!?”
Annuisce suo malgrado Guy Fawkes e si toglie la maschera.
Annuisce suo malgrado Alex DeLarge e si toglie la bombetta.
Annuisce suo malgrado il Joker e si toglie il trucco.
Freddy e Guy montano sui rispettivi “Sì Piaggio”. Si alzano in piedi sui pedali restando in equilibrio sul cavalletto. Danno un paio di pedalate, giusto il tempo necessario di metterli in moto. Accelerano facendo girare la ruota posteriore come se non ci fosse un domani. Tolgono il motorino dal cavalletto con una botta pelvica in avanti. Fanno salire Alex e il Joker dietro di loro e ripartono.
E tornano alla loro normalità.
Altro giro.
Altra borsa.
Solo perché non hanno ancora inventato lo Scipp on line.
Altrimenti se sarebbero scaricati la App.