LAZIO-GENOA: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6,5: reattivo e pimpante su’ du’ tiri dalla distanza der Genoa come Max Pezzali quando, vent’anni fa, la ragazza je diceva: “Dai! Vieni su da me che tanto non ci sono i miei…”

Caceres 6: ordinato come un astuccio, er primo giorno de scuola.

Acerbi 6: fa tutto bene tranne quella piccola sbavatura sul goal del Genoa. Un po’ come Verdone ne “I due carabinieri” quando al test d’ammissione azzecca tutto ma sbajia solo “Viale Alberto Manzoni”.

Wallace 6,5: la prestazione senza macchie de Fortuna te svolta la giornata come quando prendi l’autobus de prima mattina e te rendi conto che nun puzza nessuno.

Marusic 6: mostra confortanti segnali de ripresa come er marito che s’aiuta co’ la pasticchetta blu pe’ soddisfa’ la moje dopo trent’anni de matrimonio.

Patric 7: entra co’ la tigna, l’ardore e l’orgoglio de uno convinto che quella de ieri era la partita valida pe’ assegna’ lo Scudetto der 1915.

Lulic 6,5: lo stop a seguire e il cross perfetto, a giro, sur go’ de Milinkovic smontano anni e anni de teorie sulla non linearità del suo gioco. Un po’ come se a Isaac Newton, la mela nun je fosse cascata addosso ma fosse schizzata verso er cielo. Perché Senad Lulic, quando capisce che tutti l’hanno capito, se reinventa come Giorgio Mastrota, che dopo una carriera da presentatore e da marito de Natalia Estrada, è diventato er più grande venditore de materassi della storia della tv.

Milinkovic-Savic 7: l’oggetto del desiderio de tutte le squadre d’Europa e soprattutto del direttore de Tuttosport torna a deliziare il suo pubblico con l’assist che permette a Caicedo de sblocca’ la partita e soprattutto co’ un colpo de testa magistrale che ridefinisce er concetto de “strapotere fisico”.

Badelj 6: aggiunge sostanza ar centrocampo. Come quelli che se mettevano er calzino pieno d’ovatta nelle mutande pe’ fa bella figura.

Leiva 7: per lui verrà coniato un nuovo ruolo: il déjà vu der centrocampo. Perché mentre gli avversari sono impegnati in un’azione, lui l’ha già vista. Intuita. E interrotta.

Parolo 6,5: l’assist pe’ Immobile e il solito lavoro sporco a centrocampo. Irrinunciabile come l’amaro dopo er caffè. Come la bestemmia quando cali l’asso a Briscola.

Caicedo 7,5: er nemico numero uno dei laziali prigionieri del divano e dei gruppi su Fb timbra er cartellino dopo sette minuti e per qualche minuto trasforma Immobile ner vice-Caicedo. Lotta, sgomita e recupera il pallone che dà il via al primo goal di Immobile. Quando esce dal campo, tutto lo stadio si alza in piedi e fa vivere, a chi ama il Calcio, un bel momento di sport e gratitudine. Chi tifa Lazio sta con Felipe.

Correa 6,5: bello ma timido. Come un quindicenne che ancora nun ha scoperto la gnagna.

Immobile 8: in coppia con Caicedo sembrano Sonny Crockett e Rico Tubbs de “Miami Vice”. Solo che quando Ciro lo fa nota’ a Manzini, questi je risponde “quindi Caicedo sarebbe il Miami Vice Immobile?” Ripresosi dopo qualche minuto dalla freddura, Ciro ci mette poco a tornare sui livelli dello scorso anno e segna una doppietta delle sue.

Inzaghi 10: il suo Bologna segna i primi due goal della stagione e porta a casa tre punti fondamentali per il suo campionato, regalando ai tifosi rossoblu (e a quelli Laziali) una domenica epic…oddio…nell’euforia, ho sbajato fratello. Questo era Pippo.

Inzaghi (Simone) 8: conferma Caicedo accanto ad Immobile e il risultato (oltre al goal della Pantera) gli dà ragione. La Lazio gioca una partita da “Banda Inzaghi”, non rischia quasi mai e doma con facilità una squadra storicamente difficile. Chapeau.

Marchetti 8: gli eroi son tutti giovani e belli. Soprattutto quelli del 26 maggio. Le lacrime di Federico Marchetti sotto la Nord sono la prova evidente che la Lazio è un tatuaggio permanente nell’anima di chi l’ha vissuta. Federico Marchetti nella Lazio ha vinto, perso, fatto miracoli ed errori madornali. Ma soprattutto ha vissuto. Senza mai stare un secondo fuori posto. Che Dio ti protegga.

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LAZIO-APOLLON LIMASSOL: LE MIE PAGELLE

Proto 6: avecce lui come vice Strakosha dopo un anno de Vargic è come quando scopri er confetto Falqui dopo un mese de stitichezza. È tutto un altro vivere.

Bastos 6: c’ha più cali de tensione lui che un palo della luce in America durante l’uragano Florence.

Acerbi 6,5: ce mette più pezze lui che mi’ madre quando me rammendava i majoni da ragazzino.

Caceres 6: è bello ma ogni tanto balla.

Basta 6: parte bene ma se spegne piano piano. Come le scintille che s’accendono a Capodanno.

Durmisi 6: veloce, tecnico, piccolino. È un Bonetto che ce l’ha fatta.

Badelj 6: ordinato e puntuale come un pacco preso su Amazon.

Milinkovic-Savic 6: secondo me st’estate hanno fatto come co’ Jean Louis Rossini. L’hanno rapito e c’hanno mandato er sosia.

Leiva 6: entra e fa un casino. Come Tosca D’Aquino ne “Il ciclone” quando imbocca nel ristorante do’ stavano a cena le ballerine de flamenco: “Buonasera a tutti, ciprioti e non!”

Murgia 6: nun fa progressi dal 2016. Je se dev’esse bloccato l’ormone della crescita.

Lulic 8: dai su, ma voi veramente pensavate che er poro Senad riuscisse a fare “tutto bene” in un’azione sola. Lulic gioca uno sport a sé: quello in cui l’assist arriva dopo uno stop sbagliato o quando sta in una zona del campo dove nun dovrebbe sta’. Oppure segna, quando la vorrebbe passa’ e la passa quando vorrebbe tira’. Perché Senad Lulic è l’uomo del “vorrei ma non voglio”. E ieri, sinceramente, ha chiesto troppo alle sue capacità. Ma noi, a Senad, che in quella zolla del campo, c’ha regalato ben più ampie soddisfazioni, je volevo troppo bene. E chi lo critica, se merita de passa’ una vita come er Romatriste dopo er 26 maggio.

Luis Alberto 6,5: nell’azione del primo goal duetta con Caicedo manco fossero Wes e Dori Ghezzi.

Immobile 6: dopo un’estate passata a cercaje un vice, se ritrova improvvisamente a vive una notte da vice-Caicedo. E la teoria della relatività de Einstein assume tutto un altro significato.

Caicedo 8: signore e signori, the Man of the Match. È Apollo Creed prima di incontrare Rocky Balboa. Michael Jordan contro i Phoenix Suns nelle NBA Finals del 1993. Martin Luther King durante il comizio al Lincoln Memorial. La Pantera Nera se piazza al centro dell’attacco e prima manda in porta Luis Alberto con un colpo di tacco magistrale. Poi dopo una partita de sponde e sportellate, si procura il rigore che chiude il match. Se facesse pure i goal, sarebbe perfetto. Ma nun je se po’ chiede tutto.

Inzaghi 6,5: l’ampio turnover lo ripaga nei tre punti ma non nella prestazione. La Lazio appare una squadra volutamente diversa da quella dello scorso anno. E nella quale i big ancora devono prendersi la scena. Ma intanto contava vincere. Ed è stato fatto. E questo, al netto del bel gioco, è la sola cosa che conta.

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EMPOLI-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 7,5: ce so’ parate e PARATE. Quella ar 94esimo su Caputo, rientra nella seconda categoria. Sul tiro a botta sicura dell’attaccante toscano, mancò Fortuna (Wallace) ma non il valore.

Wallace 6: quando Inzaghi lo redarguisce gridandogli “Acquah non lo contieni mai!”, er poro Fortuna je risponde piccato che “Aho, ah Mister, e mica faccio l’idraulico!”. Nel finale, aggiunge un pizzico de brio al match dimenticandose Caputo e costringendo Strakosha al miracolo decisivo.

Acerbi 6,5: la solita diga che mette ‘na pezza un po’ qua e un po’ là. Quando Wallace s’addormenta, lui serafico lo riprende in modo elegantissimo e per niente irritato: “Orsù, Fortuna, non puoi concederti codeste amnesie quando manca un sol battito d’ali al fischio finale.”

Radu 6: come certi colletti de certe camicie, se stira dopo cinquanta minuti.

Caceres 6: viene buttato nella mischia mentre stava tutto concentrato in panchina a modifica’ la patch pe’ Pro Evolution Soccer.

Marusic 6: quando a venti secondi dalla fine s’è magnato er goal del 2-0, nun c’è stato un Laziale, uno de quelli come me che è ancora traumatizzato dal goal subito al novantesimo da Gilardino a Firenze (dopo un assedio in dieci, gli errori/orrori de Zarate e Pandev e la solita quaja de Muslera), che nun ha pensato sul contropiede avversario “Eccallà!”. E invece er buon Adam deve ringrazia’ Strakosha se le gomme der Suv, domani, le troverà ancora gonfie.

Lulic 7: nel pre partita, sente parla’ de Andreazzoli, de Orsato, de calcio d’inizio alle 18 e pe’ Senad da Mostar è subito 26 maggio. E ovviamente, ora come allora, nun poteva nun esse decisivo. Stavolta non con un gol però ma con un assist dei suoi. Che arriva sui piedi de Parolo dopo ‘na serie de carambole degne del “rinterzo ad effetto con birillo centrale” usato dal Rag. Fantozzi nella mitica partita a biliardo contro l’On. Cav. Conte Diego Catellani.

Leiva 7,5: in mezzo ar campo detta legge come Tony Manero er sabato sera.

Parolo 6,5: la palla de Lulic è talmente avvelenata che te costringe a segna’ pure se tu sei lì de passaggio. E te stavi solo a fa’ i cazzi tua parlando der più e der meno coi difensori dell’Empoli.

Milinkovic-Savic 6: attraversa un momento no, ma c’è da capillo. Er lunedì vola a Madrid a stucca’ le pareti della casa appena comprata. Er martedì sta a Manchester a fasse ‘na birra co’ Paul Scholes che je spiega tutti i segreti dell’Old Trafford. Er mercoledì sta a Torino a fa’ er tagliando alla Fiat che j’ha regalato Elkann. Er giovedì sta a Milano a fasse un aperitivo a base de soppressata insieme a Gattuso. Er venerdì sta a Londra a fa’ ‘na gara de palleggi co’ Jorginho. E finalmente er sabato scende a Roma pe’ fa’ la rifinitura. Poi uno dice che è poco lucido.

Durmisi 6: quando fa er coatto co’ Orsato sembra er “cagliaritano Piddu” che fa a botte coi militari americani in quel capolavoro neorealistico che è “Bomber”.

Luis Alberto 6: ancora in rodaggio come quando, vent’anni fa, te compravi er Boosterino e te dovevi fa’ i primi 300 km a 40 all’ora. In pratica, facevi prima a fattela a piedi.

Correa 6: “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette, speramo solo nun c’è farà rimpiange Felipe co’ la maglia numero setteeeeeeeeee!”

Immobile 6: c’ha le polveri bagnate come quando ar poro Corona je se versa er bicchiere der whisky sur tavolino appena acchittato.

Inzaghi 6,5: dopo la seconda vittoria consecutiva per uno a zero, Simone è entrato nello spogliatoio, ha controllato che non ci fosse nessuno e poi, stanco ma felice per i tre punti e per la prestazione tignosa dei suoi, si è tolto la maschera. A quel punto è sbucato alle sue spalle Manzini che con un bicchiere di Grappa Nonino in mano, lo ha riconosciuto e gli ha ridato il benvenuto come si fa con un vecchio amico che non si vede da tanto tempo: “Bentornato a Roma, Edi!”

Andreazzoli 8: la leggenda narra che fosse presente insieme ad uno sparuto manipolo di Eagles Supporters nelle mitiche trasferte di Catanzaro e Cava dei Tirreni. La realtà lo vuole intestatario di un’inutile finta del poro Rodrigo Taddei in un Olympiakos-Roma de qualche anno fa e soprattutto co-artefice insieme a Senad Lulic del più grande trionfo del Calcio Capitolino. Aurelio Andreazzoli, nato a Roma, in Piazza della Libertà il 9 gennaio del 1900. Che quella domenica de maggio fece un passo indietro pe’ permette ai giocatori della Lazio de esulta’ nel migliore dei modi. Laziale Vero.

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LAZIO-FROSINONE: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6: talmente inoperoso che passa tutta la partita a spizzasse su Instagram le infinite storie de Fedez e della Ferragni.

Wallace 6: c’è da capillo, Fortuna. Perché trovasse de fronte quelli del Frosinone dopo che hai annullato CR7, è come pranza’ da Cracco e poi anda’ a prende er caffè al McDonald’s. E lui torna a esse er Wallace che tutti amiamo, alternando cose discrete a qualche Cassata delle sue.

Acerbi 7,5: al centro della difesa avremmo pure perso in eleganza ma abbiamo acquistato in leadership e tigna. Sbroglia situazioni delicate con la nonchalance dei migliori e va pure vicino al goal. Perché Francesco Acerbi non è un difensore normale: è Stefan de Vrij che incontra Chuck Norris.

Radu 7: a sinistra, insieme a Lulic, je riesce tutto. Con una forma così, sarebbe in grado de riporta’ ar governo pure er PD.

Marusic 6: impacciato come Alvaro Vitali di fronte alla Fenech nuda.

Lulic 8: con Luis Alberto che sta a accompagna’ i figli a scuola a Siviglia e Milinkovic indeciso se prende un attico a Torino, un monolocale a Milanello, una villa a Manchester o un seminterrato a Madrid, è lui il vero trequartista della Lazio. Parte dalla fascia e fa tutto: il terzino, l’ala, il regista e l’assist man. Più importante lui, del social media manager della Ferragni sabato sera. E ho detto tutto.

Leiva 6: efficace come l’Autan contro le zanzare, nelle sere d’agosto.

Parolo 6: prende il palo di testa a botta sicura e fa un paio de recuperi a centrocampo su Chibsah, co’ ‘na grinta e un veleno che pare uno appena iscritto ar Ku Kux Klan. Oppure un parente stretto de Salvini.

Milinkovic-Savic 6: l’uomo più desiderato dell’estate è ancora in rodaggio e alterna cose deliziose a errori madornali. Se narra che quando la Ferragni ha scelto la data delle nozze, ha chiamato Fedez e j’ha detto: “Amo’, anziché ad agosto, famo che se sposamo er primo weekend dopo la fine del calciomercato. Perché co’ sta storia della cessione de Milinkovic, sui giornali nun ce se inculerebbe nessuno”.

Luis Alberto 6: nel primo tempo è fuori luogo come Turone in un gruppo FB dedicato ai goal regolari. Nel secondo se ricorda dei piedi e soprattutto del numero che porta sulle spalle e regala alla Lazio i primi tre punti della stagione. Mezzo voto in meno pe’ ave’ rinunciato ar paja e fieno in testa.

Immobile 6: certi errori da Ciro nun te l’aspetti. Ma è pure vero che da Lulic, i compagni nun s’aspettano mai la giocata più lineare. Pe’ sta volta, Ciru’, te perdonamo.

Murgia sv: dà er cambio a Milinkovic che doveva anda’ a firma’ er rogito pe’ le quattro case comprate st’estate.

Badelj sv: entra solo perché così i romanisti davanti alla tv sentono per l’ennesima volta la parola “Milan” nel giro de un paio de giorni. E, ancora sotto shock per la doppietta de Defrel, se rimettono a piagne.

Caicedo sv: sull’onda del successo di “The Ferragnez”, insieme a Fortuna Wallace, er poro Felipe ha dato vita a “The Wallaicedo”, er gruppo dove pote’ insulta’ a buffo tutti i giocatori della Lazio.

Inzaghi 6,5: la Lazio di quest’anno pare meno sbilanciata in avanti e alla ricerca costante di un equilibrio tra i reparti che, sono sicuro, arriverà. Ieri, contavano solo i tre punti. E tre punti sono arrivati. In un campionato dove la figura di merda è dietro l’angolo pe’ tutte (Juve a parte), la Lazio, che ha avuto il solo torto di giocare le prime due partite contro le più forti del campionato, come al solito dirà la sua. E i Laziali, quelli veri, non hanno mai smesso di crederci.

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21 GIUGNO 1987: SOLSTIZIO BIANCOCELESTE

Fiorini

È il 21 giugno del 1987, l’estate a Roma è esplosa in tutto il suo fragore e lo Stadio Olimpico è pieno in ogni ordine di posto. Ma chi è lì, quel giorno, non sta sperando di alzare al cielo la Coppa dei Campioni. No. Perché quel giorno, a Roma, sta andando in scena un vero e proprio dramma sportivo. Il cronometro del signor D’Elia di Salerno segna l’ottantaduesimo. Mancano otto minuti alla fine di Lazio Vicenza e i biancocelesti allenati da Eugenio Fascetti sono matematicamente retrocessi in serie C quando Antonio Elia Acerbis, soprannominato “Il muto” per la sua idiosincrasia a rilasciare interviste, dalla fascia sinistra, scodella un pallone in area di rigore vicentina…

Quando il 5 agosto del 1986, la CAF ribalta la sentenza di retrocessione della Lazio per lo scandalo calcioscommesse in serie C1 e la trasforma in una penalizzazione di 9 punti da scontare nella serie cadetta, sono in molti, laziali compresi, a pensare che quella sentenza posticipi soltanto di un anno una retrocessione inevitabile. Soprattutto nell’era dei due punti a vittoria.

E quando Eugenio Fascetti, neo allenatore biancoceleste, si ritrova al centro del campo di allenamento di Gubbio, sede del ritiro estivo, per cercare di compattare un gruppo che rischia di sciogliersi prima di iniziare, ancora non lo sa che, le parole pronunciate quel pomeriggio, diventeranno l’incipit di una della pagine più memorabili della Storia del Calcio Italiano: “Chi vuole resti. Chi non se la sente può andar via subito. Ma chi resta combatte fino alla fine.

Restarono tutti. Anche chi aveva le valigie già pronte per tornare a Roma.

…sul cross di Acerbis si avventa Angelo Adamo Gregucci, stopper roccioso con la faccia da bravo ragazzo, uno di quelli che a scuola, quando il ripetente di turno ti voleva rubare la merenda, arrivava sempre a difenderti e poi ti dava una pacca sulla spalla. L’Angelo biancoceleste, quel pomeriggio di giugno, si trova nell’area di rigore avversaria, in modo inversamente proporzionale al proprio ruolo, nel disperato tentativo di infrangere il muro alzato da Ennio Dal Bianco, ultimo baluardo vicentino, che quel pomeriggio arriva ovunque. Ovunque possano crollare le speranze laziali. Ma Angelo Adamo Gregucci viene anticipato e la palla finisce al limite dell’area di rigore, sui piedi del vicentino Lucchetti…

Recuperare nove punti di penalizzazione è difficile e iniziare bene il Campionato di Serie B, una palude sportiva dove è facile passare dal trionfo alla tragedia in un attimo, è fondamentale, ma la Lazio non riesce nell’impresa e la partenza è troppo soft, per non dire drammatica. Pareggio a Parma e sconfitta in casa con il Messina a undici minuti dalla fine. La prima vittoria arriva soltanto alla quarta giornata contro il Bologna, grazie a un 2 a 1 firmato da Magncavallo e Mandelli. Dopo otto partite, finalmente, il segno “meno” viene tolto dalla classifica e tutto appare più normale. Si comincia a parlare la stessa lingua delle altre squadre ma otto partite di ritardo sono tante. Anche se la squadra, che presenta un buon mix di giocatori esperti come Terraneo, Fiorini e Mimmo Caso e giovani promettenti come Gabriele Pin, Mandelli e Gregucci, ha tutto per centrare l’impresa.

…Lucchetti, al limite dell’area, svirgola il pallone e anziché spedirlo dall’altra parte del campo, lo consegna sui piedi di Esposito. La palla quel pomeriggio è infuocata come il Sole romano e pesa tanto quanto il respiro all’unisono dei 62000 dell’Olimpico. Esposito stoppa il pallone e potrebbe provare il tiro. Ma non lo fa. Allora guarda a destra e vede Gabriele Podavini, terzino destro dai piedi buoni e dai polmoni inesauribili, uno nato a Brescia ma Laziale dentro, dopo cinque anni di militanza con l’Aquila sul petto e nel cuore. Gabriele Podavini non ha paura di provare il tiro della disperazione. L’ennesimo. Perché ogni pallone calciato negli ultimi dieci minuti di una partita così è un pallone disperato. Calciato con il nodo in gola e con il fiato sospeso. E allora il “Poda” chiude gli occhi, carica il destro e prova il tiro della vita. Quello che può cambiare il Destino della sua squadra del cuore….

La Lazio di Mister Fascetti, sospinta da un pubblico incredibile che fa registrare una media di 35/40000 spettatori a partita, prende il ritmo giusto e viaggia a gonfie vele. La rabbia dei tifosi sugli spalti alimenta gli animi dei giocatori in campo in un unisono sportivo che lascia presagire traguardi molto più elevati che una semplice salvezza. Lo zenit della stagione laziale arriva alla ventottesima giornata, dopo la vittoria con il Cesena in casa, grazie a un goal del bomber Giuliano Fiorini, uno che ha attraversato, sorridendo e facendo a sportellate, le aree di rigore di tutte le categorie calcistiche. La Lazio, a dieci giornate dalla fine, è tredicesima con venticinque punti, ma se gli vengono sommati i nove di penalizzazione recuperati, i punti diventano trentaquattro. Gli stessi della Cremonese prima in classifica. Tenere a bada gli entusiasmi in una piazza carica di rabbia e d’amore come Roma è molto difficile. Eugenio Fascetti intuisce che il pericolo della facile esaltazione è dietro l’angolo e dichiara che “non siamo ancora salvi”. Il mister toscano conosce la serie B. E non si fida. Ma l’entusiasmo è difficile da frenare.

…Podavini vede partire il tiro e non crede ai suoi occhi. Proprio lui che ha calciato quel rigore pazzesco a Campobasso sotto l’incrocio dei pali a quattro minuti dalla fine, quando nessuno dei suoi compagni aveva il coraggio di andare sul dischetto. Lui che da quel giorno è diventato il rigorista della squadra. Lui, a cui il compagno meno esperto ha affidato le speranze di una svolta, lascia partire un tiro sbilenco, lento, che non arriva nemmeno in porta. Ma che finisce sui piedi di Giuliano Fiorini, che si è accampato in area di rigore, nell’attesa del pallone giusto…

Dopo la vittoria con il Cesena, i timori di Fascetti si avverano e la Lazio precipita in una crisi di risultati drammatica: infila tre pareggi consecutivi con Modena, Taranto e Sanbenedettese poi perde a Trieste e soprattutto in casa contro l’Arezzo a cinque minuti dalla fine. I due punti tornano grazie al successo sul Cagliari ma la sconfitta a Genova, il pareggio a reti inviolate in casa con il Lecce e, soprattutto, il crollo a Pisa per tre a zero alla penultima giornata, sbattono la Lazio sull’orlo del precipizio. Quel punto esatto in cui il confine tra il dramma e il sollievo, tra la disperazione e la speranza diventa labile. All’ultima giornata, la Lazio ha trentuno punti ed è penultima insieme al Taranto. Il Cagliari, con ventisei punti, è matematicamente retrocesso. Un punto sopra i Laziali e i pugliesi ci sono il Catania e il Vicenza, che, la domenica successiva, scende a Roma in un match da dentro o fuori. Da vita o morte. Alla Lazio serve una vittoria per continuare a sperare. Per continuare a vivere. Trentasette partite non sono servite a nulla. Ne servirà una trentottesima, e forse non basterà nemmeno quella, per scrivere il finale di un campionato drammatico.

…Giuliano Fiorini è con le spalle alla porta, appoggiato con il corpo al numero cinque Bertozzi, quando riceve sul destro il tiro infelice di Podavini…

Quella domenica, all’Olimpico non entra uno spillo, 62000 spettatori sono quelli ufficiali. Ma probabilmente sono molti di più. La Curva Nord, all’ultimo atto di una stagione al cardiopalma, espone uno striscione che è un grido di amore e di battaglia allo stesso tempo: “Noi con la Voce…Voi con il Cuore!”
Per sopravvivere serviranno entrambi, per novanta interminabili minuti.

…Giuliano Fiorini arpiona il pallone con il piede destro ma non lo stoppa. No. Giuliano Fiorini sa come si fa in quei casi. Il piede destro invita il pallone a passargli sotto le gambe. Un auto tunnel voluto che manda fuori tempo Bertozzi. Giuliano Fiorini si gira su stesso facendo perno proprio sul suo marcatore e si trova lì. A pochi metri dall’invalicabile Dal Bianco…

Al Vicenza basta un punto per salvarsi. E il catenaccio di quel pomeriggio, unito ai miracoli del suo portiere, eroe per un giorno, i tifosi della Lazio se lo ricorderanno bene. Per sempre. Lo Stadio è un inferno. I minuti passano e il fortino eretto dagli uomini guidati da Magni resiste. E resiste anche quando D’Elia espelle al sessantasettesimo il biancorosso Montani per doppia ammonizione. La Lazio è un toro ferito. Furiosa e poco razionale. Butta il cuore oltre l’ostacolo sospinta dai suoi tifosi che, minuto dopo minuto, vedono lo spettro della Serie C sempre più vicino. Sempre più grande. Il Campobasso pareggia a Messina, il Taranto vince con il Genoa. Alla Lazio serve una vittoria per arrivare a giocarsi la salvezza in uno spareggio a tre. Ma Lazio e Vicenza sono sullo zero a zero. La Lazio è in serie C e il Vicenza andrà allo spareggio. Fino all’ottantaduesimo. Quando Antonio Elia Acerbis, dalla sinistra, crossa un pallone in area di rigore. Angelo Adamo Gregucci salta di testa ma viene anticipato. Al limite dell’area, Lucchetti svirgola il pallone e lo consegna a Esposito che lo controlla e lo allarga a Gabriele Podavini. Il terzino di Brescia lascia partire un tiro sbilenco che finisce però sui piedi del numero undici biancoceleste, Giuliano Fiorini. Spalle alla porta, Fiorini controlla a seguire il pallone, si gira su se stesso e…

…c’è poco tempo per pensare in quei momenti. Giuliano Fiorini ha il pallone davanti a sé. Bertozzi si è girato su se stesso e sta per intervenire. Dal Bianco è pronto a coprirgli lo specchio. È una morra cinese calcistica dove vince chi ha più fame. Dove esulta chi ci mette il cuore. E il cuore di Giuliano Fiorini scende per un secondo dal petto e finisce nello scarpino destro. Solo per un istante. Quello più importante. Quello che cambia per sempre la storia di un giocatore, di un club e di un Popolo. Giuliano Fiorini si allunga in una spaccata sgraziata e decisiva. Anticipa Bertozzi e con la punta del piede destro colpisce il pallone che si insacca nell’angolino alla destra di Dal Bianco….

Subito dopo è solo catarsi. Lo Stadio Olimpico esplode in un boato innaturale. C’è chi sostiene che abbia sentito lo Stadio tremare, in quel momento.

…Giuliano Fiorini sorride, scavalca i cartelloni pubblicitari, evitando un fotografo davanti a sé e vola sotto la Nord, a raccoglierne l’abbraccio. A farsi ringraziare. Giuliano Fiorini viene sommerso dagli abbracci dei compagni. E’ stremato. Quando sta per tornare in campo, ha un sussulto. Si libera allora dalla morsa dei compagni, si rigira ancora verso la Nord, ed esulta di nuovo. Stavolta in modo rabbioso, con il pugno. È un’esultanza diversa, stavolta. Consapevole del gesto appena compiuto. È un gesto che sembra dire “Ce l’abbiamo fatta! Tutti insieme! Noi con voi!!

Il suo rientro in campo, abbracciato ad Acerbis, è lento. Lentissimo. Giuliano Fiorini guarda la Tribuna Monte Mario ed esulta con il braccio al cielo. Poi rientra sul prato verde. Felice, solitario e final. Indica la panchina dove sono i suoi compagni e il Mister Fascetti ed esulta anche in direzione loro. Con loro.

Mancano otto minuti ma la partita è mentalmente finita. Lo sanno tutti. La Lazio si andrà a giocare gli spareggi sul campo neutro del San Paolo di Napoli con Taranto e Campobasso.
Ma questa è un’altra storia.

…questa che avete appena letto invece è la storia di Giuliano Fiorini, la storia di una stagione pazzesca e la storia del goal che salvò la Lazio.

IO, RINO (29/10/1950-02/06/1981)

Che poi ripensandoci adesso, io avevo già capito tutto.

E quarant’anni fa, stavo quarant’anni avanti a tutti.

E ci ridevo su. Perché prima ci si poteva ancora ridere sopra. Adesso, invece, no.

Adesso uno come me, non avrebbe più senso.

Perché la realtà ha superato la satira.

Perché le viole sfioriscono ancora, ma nessuno fiorisce. Nemmeno tu. Che spendi, spandi e offendi. Da dietro una tastiera.

Perché mio fratello è figlio unico. Di genitori unici. Ma di spermatozoi multipli.

Perché il cielo è sempre meno blu e il rapido Taranto-Ancona non esiste più.

E perché Gianna con tutte quelle tesi non ci farebbe niente. Ci annaffierebbe solo le sue illusioni. E farebbe la part-time da Zara. Insieme ad Aida, che ha perso battaglie ed è scesa a compromessi. Per evitare la povertà.

Perché il vile maschio non resta e se ne va. Mentre una ragazza chiede aiuto e muore.

Perché, nessuno è più fedele. Escluso il cane.

Perché Berta filava. Berta chattava. Berta twittava.

E perché il Frosinone è venuto in Serie A ed è subito retrocesso. Ma forse con Chinaglia si sarebbe salvato.

Ma, soprattutto, perché ‘sto mondo nun s’arreggae più.

Ma io ve lo avevo già detto quarant’anni fa.

E ora ve lo tenete così.

SS LAZIO 2017/18: IL PAGELLONE FINALE

Strakosha: la sua stagione è perfettamente incastrata tra il rigore parato a Dybala, i miracoli con l’Atalanta e le incertezze in alcuni momenti clou. Molto reattivo tra i pali peccato però che l’ultima volta che è uscito, c’aveva sedici anni ed era annato a un pub de Tirana co’ Berisha e Lorik Cana. RIMANDATO IN INIZIATIVA.

Vargic: credibile come er curriculum de Giuseppe Conte. BOCCIATO.

Guerrieri: je volevano dedica’ un servizio a “Chi l’ha visto?” ma pare nun esistano foto sue. RIMANDATO IN VISIBILITÀ.

Bastos: l’unico giocatore al mondo capace di passa’ dalla modalità Thuram a quella Diakite nel giro de pochi secondi. Il suo punto de forza è che almeno segna in maniera direttamente proporzionale ai goal che ce fa pija’. RIMANDATO IN COSTANZA E CONCENTRAZIONE.

Wallace: elegante come er pinocchietto d’estate. Efficace come la mano sudata quando te presenti a un colloquio de lavoro. Ma ha fatto anche delle cose buone. RIMANDATO IN ESTETICA E AFFIDABILITÀ.

De Vrij: difende, segna e gioca co’ continuità. Peccato pe’ ‘sto finale de stagione che fa molto Salvini pre-governo. A Roma, dice a Di Maio de sta tranquillo che va tutto bene mentre a Milano prepara l’alleanza co’ Berlusconi per le prossime elezioni. RIMANDATO A MILANO.

Caceres: arrivato a gennaio nella Capitale. Da ottobre in poi nasceranno tanti nuovi aquilotti che parleranno spagnolo. RIMANDATO IN MONOGAMIA.

LuizFelipe: se diploma a Salerno con il minimo dei voti ma è a Roma che trova la giusta dimensione. Tanta personalità e senso dell’anticipo e qualche, inevitabile, peccato de gioventù tipo quando te inculavi i pacchetti de Brooklyn alla Standa. PROMOSSO.

Radu: la sua miglior stagione da quando è alla Lazio. Appare ringiovanito de dieci anni come le donne che se tolgono le rughe co’ le applicazioni dell’IPhone. PROMOSSO.

Patric: nun se po’ nun voleje bene. RIMANDATO IN TECNICA DE BASE.

Basta: er poro Dusan comincia ad accusa’ un po’ troppo i segni dell’età che avanza. Un po’ come tu nonna quando a tombola je devi ripete all’orecchio i numeri estratti da chi tiene er tabellone. RIMANDATO A DIECI ANNI PRIMA.

Marusic: costante come le dichiarazioni de Di Maio nei confronti de Mattarella. RIMANDATO IN CORAGGIO.

Lukaku: spesso devastante a partita iniziata, vedi in Supercoppa, quando gioca titolare, entra in partita con la stessa rapidità con cui Di Maio e Salvini trovano un punto d’incontro per il Governo. RIMANDATO IN PROATTIVITÀ.

Lulic: Capitano, mio Capitano. L’unico giocatore imprevedibile per gli avversari e per i compagni de squadra. Solca il campo senza senso apparente ma fa sempre la cosa giusta pur non sapendo di volerla fare. L’unico uomo al mondo che, se lo schermo dell’iPhone je se mette in modalità orizzontale, nun deve inclina’ la testa pe’ legge bene. PROMOSSO.

Leiva: è come quando vai sempre al solito ristorante sulla Cassia e prendi sempre la specialità argentina della casa. Poi un giorno, all’improvviso, lo chef albanese cambia er menù e te propone un piatto brasiliano, che ha scoperto in un vecchio pub de Liverpool. Tu prima storci la bocca. Poi però dopo le prime due forchettate, nun ne poi fa’ più a meno. E cominci a ordina’ solo quello. Pe’ tutto l’anno. PROMOSSO.

Parolo: è quell’amico tuo silenzioso e con la faccia da bravo ragazzo che sta sempre in disparte ma quando nun esce er sabato sera, manca a tutta la comitiva. PROMOSSO.

Milinkovic-Savic: gioca una stagione con la stessa convinta strafottenza con cui Verdone mette er record al flipper in “Troppo Forte”. Talmente coatto che j’avrei voluto vede’ gioca’ ‘na partita con gli occhiali da sole. PROMOSSO.

Murgia: er go’ ad agosto in Supercoppa è come quando imbocchi in discoteca e, pronti via, rimedi subito er numero de telefono della guardarobiera. Il resto della stagione è quando entri in pista e scopri che sei finito in una serata over70. RIMANDATO IN PERSONALITÀ.

Di Gennaro: purtroppo per la Lazio, non ripete la stagione strepitosa che lo portò a vince lo Scudetto con il Verona di Bagnoli, Pietro Fanna e Nanu Galderisi. Dà il suo meglio come commento tecnico durante le telecronache di Mediaset. BOCCIATO.

LuisAlberto: illumina il gioco della Lazio con la stessa pratica essenzialità della torcia dell’IPhone quando cerchi le chiavi della macchina che te so’ cascate pe’ terra de notte. Confeziona capolavori in serie ispirato come Leopardi di fronte all’ermo colle. PROMOSSO.

Anderson: i capelli e la tecnica di Vincenzo D’Amico. La cattiveria dell’orso Yoghi. Frenato da un brutto infortunio a inizio stagione, se accende a intermittenza come le lucette del Presepe. RIMANDATO IN CONVINZIONE E TIGNA.

Nani: s’è venuto a diverti’. BOCCIATO.

Caicedo: evidentemente quando Iglone Tare l’ha comprato, s’è dimenticato de fa’ la più classica delle domande: “Sì, le sponde, er gioco de squadra, er fisico, le sportellate. Bello tutto. Ma fa anche i goal?” RIMANDATO IN CONCRETEZZA.

Immobile: capocannoniere in Italia e in Europa e basterebbe questo per definire la grandezza della sua annata. Segna con la stessa continuità con cui er Pupone sbaglia i congiuntivi e vive una stagione esaltante come er finale de “Bomber”. PROMOSSO.

Inzaghi: la sua Lazio vince er primo trofeo della stagione contro la Juve e gioca a testa alta sempre. Contro tutto e tutti. Avversari e arbitri. Forse, se avesse abbassato ogni tanto la testa e coperto un po’ più er culo, la stagione avrebbe avuto un finale diverso. Ma nun bisogna dimentica’ da dove semo partiti e quante emozioni abbiamo provato. È stato un anno intenso. Un anno da Laziali. E a ‘sta squadra e a ‘sto Mister je se po’ solo di’ “Grazie!” PROMOSSO.

AVANTI LAZIO.

AVANTI LAZIALI.

IN SPIAGGIA.

PS: quella appena finita è stata una stagione intensa e mi piace pensare che queste pagelle siano state il giusto contorno anche per sdrammatizzare un contesto in cui spesso riversiamo troppe aspettative. Vi ringrazio per gli attestati di stima e i complimenti che mi hanno sempre spinto a fare del mio meglio e a presentarle con la giusta puntualità. Credo fermamente che uno scrittore o chi pretende di essere tale debba sempre rispettare i propri lettori. Io non so se ci sono riuscito. Ma di sicuro, ce l’ho messa tutta.

Con affetto

Alessandro Aquilino

PAUL GASCOIGNE, GAZZA & ME (Una storia d’amore, anche se lui non lo sa)

La prima volta che vidi Paul Gascoigne avevo quattordici anni e stavo nell’aula di reparti dell’ITIS. E anziché limare un pezzo di metallo, sfogliavo di nascosto Zzap, mitica rivista di videogiochi della mia generazione. Il suo faccione biondo e sorridente mi ammiccava dalla pubblicità di “Gazza’s Super Soccer“. Il suo nome completo e a me sconosciuto era rappresentato sotto forma di autografo. Quasi illeggibile.

Conquistato dalla simpatia che trasmetteva la foto e sempre a caccia di nuovi giochi di calcio per il mio Commodore64 a cui immolare i pomeriggi adolescenziali, interpellai l’esperto di calcio estero della mia classe, tale Cristian Saragoni. “Ah Cri’, ma chi è ‘sto Gazza?” “Si chiama Paul Gascoigne, gioca nel Tottenham…” “È forte?” “Sì, ed è pure mezzo matto…” Forte e pure mezzo matto. Tenni là la considerazione del buon Saragoni e la sovrapposi a quello che vidi pochi mesi dopo. Quando l’empatia diventò colpo di fulmine.

Le notti magiche di Italia ’90. Un’Inghilterra sensazionale. Ed un giocatore con la maglia 19 che esplose in tutto il suo talento e la sua potenza, trascinando la sua squadra fino alla semifinale contro la Germania Ovest. Ricordo il cartellino giallo che l’arbitro gli sventolò sotto gli occhi e che gli avrebbe impedito di giocare la successiva Finale. E ricordo le lacrime. Le lacrime di chi dietro quell’istrionismo e quella classe, mal celava una fragilità che lo avrebbe accompagnato per il resto della carriera. E della vita soprattutto. Continuai perciò a seguire Gazza e il suo Tottenham con interesse e simpatia, sfruttando i potenti mezzi dell’epoca (Telemontecarlo e il Televideo su tutti) fino a quando una notizia nata come rumor prima e come trattativa poi arrivò a sconvolgere i miei pomeriggi primaverili di sedicenne tutto acne e Subbuteo: la mia Lazio voleva Paul Gascoigne.

Non potevo crederci. La Lazio era da poco ritornata in Serie A al termine di una decade piena di difficoltà. E Paul Gascoigne era il pezzo pregiato del Calcio Internazionale. Era un matrimonio impossibile, pensavo. “Ma te pare che…” E invece no. Dopo una trattativa infinita, in cui imparai a memoria i nomi di tutti i dirigenti del Tottenham, Paul Gascoigne divenne un giocatore biancoazzurro. Paul “Gazza” Gascoigne era un giocatore della Lazio. La mia Lazio. Appresi dell’ufficialità grazie all’Ultima Ora di Televideo. E mi emozionai.

Paul Gascoigne sarebbe stato il primo tassello di una Lazio che sognava di diventare grande. Mancavano poche settimane e poi lo avrei finalmente abbracciato e fatto mio. E invece no. Il 18 maggio 1991, mentre la Lazio perdeva 2 a 0 a Milano contro l’Inter, Gazza stava per scendere in campo per l’ultima volta con la maglia del Tottenham. Contro il Nottingham Forest, a Wembley. Finale di FA Cup. Ero a casa del mio amico Daniele quel pomeriggio, quando “Tutto il calcio minuto per minuto”, sottofondo alle nostre partite al computer, annunciò l’infortunio di Gazza. Rimasi impietrito. Si parlava di legamento crociato. Si parlava di un anno di stop. UN-ANNO-DI-STOP. La Lazio decide di aspettarlo e io con lei. E il poster in cui lui è vestito da cowboy che il Corriere dello Sport regala ai suoi lettori diventa un feticcio nella mia cameretta.

Passano i mesi e in un mercoledì di fine settembre del 1992, vestito a festa, sotto il classico diluvio romano che sancisce la fine dell’estate, mi ritrovo in Distinti Nord, con tanto di macchinetta fotografica, insieme a mio fratello, per festeggiare il suo ritorno al calcio giocato proprio contro il suo Tottenham. E’ Roma ma sembra Londra. E allora a Gazza bastano dieci minuti per mettere il pallone alle spalle di Walker, sfruttando un comodo assist di Thomas Doll. “Incredibile!! Proprio lui!!!” ripeterà cento volte Sandro Piccinini, ossia ogni volta che farò rewind per rivedere la registrazione della partita. E quattro giorni dopo, arriva anche l’esordio in Serie A. Contro il Genoa. E io sono là. E sono là anche contro il Parma, quando la forma fisica è migliore, lui è più sciolto. E contribuisce alla vittoria per 5-2. E sarò lì ogni volta. Ogni domenica. Inseguendo una Passione senza fine.

Il colpo di fulmine, per una proprietà transitiva che non conosce regole, si trasforma così in amore puro. Per il primo bacio, però, devo attendere ancora un po’. Come in tutti gli amori sofferti. E’ una domenica di fine novembre. C’è il Derby. In Curva Sud, i romanisti espongono uno stendardo con su disegnata una carrozzella da invalido e la scritta “It’s ready for you, Gazza”. E Gazza si fa trovare pronto, a pochi minuti dalla fine, su una punizione scaraventata in area da Signori. Il contrasto biondo con Silvano Benedetti premia il nostro idolo. Il colpo di testa è perfetto e finisce alle spalle di Zinetti. Uno pari. E corsa senza direzione che termina sotto la Nord impazzita di gioia. Grazie, Gazza, Grazie. Il poster di quel goal, pubblicato da Lazialità va a fare compagnia a tutti gli altri, sulla parete della mia cameretta.

Passano gli anni, io mi diplomo e parto militare. In quelle notti venete e senz’alba, comincio a scrivere. Tanto. Riempio blocchi e fogli. Invento storie. E poi le chiudo nel cassetto. Non c’è Facebook che mi dà un riscontro immediato con i like. E quel cassetto è lo scudo della mia timidezza. Di cui non ho ancora la chiave. E dentro quel cassetto, tra i tanti, c’è un racconto dedicato proprio a Paul Gascoigne. L’amore calcistico della mia adolescenza. Nel 1999, la nostra cagnolina partorisce. E’ maschio. Sono indeciso su due nomi. Cholo o Gazza. Ma l’amore calcistico di una vita ha la meglio sull’infatuazione del momento. E Gazza cresce con noi, compagno fedele, sbarazzino e affettuoso. Arriviamo al 2001, il Guerin Sportivo, a gennaio, pubblica un inserto in cui scrittori e giornalisti raccontano il proprio mito calcistico. Quell’inserto si chiama “Io e Lui”. E io ho in Paul Gascoigne il mio “Lui” calcistico. E allora, prendo il coraggio a due mani. Apro il cassetto. E attraverso la mia mail, gazza4ever@yahoo.it, invio al Direttore del Guerino di allora, Ivan Zazzaroni, il mio racconto su di Lui, “Parliamone, Paul”. Lo mando così, senza aspettarmi nulla. Quando però, due settimane dopo, lo vedo pubblicato in seconda e terza pagina nella Posta del Direttore, le mani mi tremano e gli occhi si bagnano. Il commento che lo accompagna è il seguente: “L’ho pubblicato, caro Alessandro, perché non è un “Io e Lui”. E’ qualcosa di più.” Ed è una di quelle frasi che non scorderò mai.

Come il primo “Ti amo”, per intenderci. Sono entrato da poco in una grande multinazionale. E’ il mio primo lavoro serio e ufficiale. Ho venticinque anni e tanto entusiasmo. Un mio collega, romanista ma amante del Calcio come me, compra il Guerino dove c’è il mio articolo e lo porta in negozio. Quell’articolo finisce nelle mani del mio capoarea di allora che rimane colpita da ciò che avevo scritto e, sfruttando una condivisione ante litteram, molto prima di Facebook, lo ripubblica su un bollettino aziendale che arriva in tutti i negozi dell’azienda per cui lavoravo. Non può fare copia e incolla. Lo ricopia a mano. Parola per parola. Da quel momento, per i miei colleghi di tutta Italia, divento “quello che ha scritto quell’articolo meraviglioso su Gascoigne”, divento quello con cui parlare di Calcio in modo passionale e romantico, e divento un po’, lo ammetto, il prediletto del mio capo. Sono bravo in quello che faccio. Sono un creativo.

Vado a duemila. Ma quell’articolo su Gazza mi dà quella spinta in più. E’ un po’ il Deus ex Machina della mia carriera. Mi vengono assegnate sempre più responsabilità. Compiti in cui oltre all’ingegno bisogna metterci il cuore e un po’ di creatività. Io rispondo presente e cresco. Vengo promosso Manager qualche mese dopo. La mai carriera prende il volo. Grazie a me ma anche un po’ a Paul Gascoigne. Nel 2010, Gazza, il mio cagnolino, muore. Lasciando i segni delle unghie sullo stipite di legno della porta di casa e soprattutto un vuoto che solo chi ha avuto cani, può immaginare. E che non verrà più rimpiazzato da nessuno. Tanto affetto. Ma anche tanto, troppo, dolore.

Nel 2012, dopo tanti anni, Paul Gascoigne torna finalmente all’Olimpico invitato dalla Lazio. La sua Lazio gioca contro il suo Tottenham. Un buon motivo per andare incontro al passato a braccia aperte. Il fuoriclasse, però, ha lasciato il posto all’alcolizzato. Il clown si è tolto la maschera ed è rimasto solo un uomo di quarantacinque anni prigioniero dei suoi demoni e dei suoi vizi. Ma la gente Laziale lo ama ancora. E va allo Stadio, quella sera, per dimostrargli quanto è stato importante, quanto gli ha voluto e gli vuole ancora bene. Perché il tempo passa, ma l’Amore, quello vero, resta. E io sono di nuovo lì. Come tutti. Ma forse, un po’ di più degli altri. In Tribuna Tevere, il mio Nirvana da tifoso.

Con addosso la maglia dedicata a lui e lo sguardo di chi non vede l’ora di commuoversi di fronte a quell’uomo così strano e fragile. Così incredibilmente autodistruttivo. Un uomo che avrebbe potuto avere il Mondo ai suoi piedi e che invece da quel mondo si è fatto schiacciare. La sua passerella sotto la Nord, con gli occhiali finti, è qualcosa di struggente e definitivo. E’ il posto in cui il presente ritrova il passato. Il momento in cui un uomo allo sbando capisce quanto amore c’è. Ancora. Intorno a lui. “Lionhearted, headstrong, pure talent, real man…still our hero.” è il saluto della Nord. Sì, Paul Gascoigne è ancora il nostro eroe. Il mio Eroe. Anche se di anni ora ne ho quarantuno. Anche se non lavoro più per l’azienda in cui feci carriera. E anche e soprattutto, perché io, come lui, ho alternato trionfi a sconfitte.

Come lui, sono caduto e mi sono rialzato. Come lui combatto ogni giorno contro i miei demoni. Che non sono subdoli e tentatori come possono essere l’alcol e la droga, ma stanno lì, ben presenti, a farmi compagnia. Perché Paul Gascoigne, per me, è stato tutto. E forse anche qualcosa di più. E’ stato un poster in camera, un VHS da conservare, una t-shirt da collezionare, un articolo da ritagliare, un libro da rintracciare, un racconto da incorniciare, il doppiopasso da imitare. Paul Gascoigne è stato l’eroe dei miei pomeriggi. Il leit motiv della mia vita sportiva. Il ricordo più puro e struggente del mio essere tifoso. Paul Gascoigne è stata una lunghissima e bellissima Storia d’amore. Che iniziò per caso grazie ad una rivista di videogiochi, ventisette anni fa, continua fino ad oggi e proseguirà fino a domani, fino a dopodomani. Per sempre. Perché se è vero che in un viaggio non conta la meta ma quello che si prova durante, Paul “Gazza” Gascoigne, per me, è stato il miglior compagno di viaggio possibile. “E per questo, non finirò mai di ringraziarti. Grazie, Gazza, Grazie.” Ti voglio bene.

QUEL CHE RESTA

C’è stato un momento ieri in cui, lo ammetto, ho avuto le lacrime agli occhi. E non è stato quando l’arbitro ha messo la parola fine al campionato della Lazio. No. Perché il mio essere tifoso prescinde, fortunatamente, dal risultato finale. E poi mica stavamo andando in serie B, no?

Dicevo, c’è stato un momento in cui mi sono commosso. Ed è stato quando la tifoseria Laziale ha mostrato a tutta Italia, per l’ennesima volta, come si trasforma il settore di uno Stadio in un’opera d’arte. Un’opera d’arte di cui io ero un piccolo tassello blu. Ecco. In quel momento la mia stagione è finita perché avevo completato il mio dovere di tifoso. E una lacrima catartica è scesa per dirmi che comunque sarebbe andata, avevamo fatto il massimo.

Perché prima di fare i processi a questa Lazio, bisognerebbe ricordare da dove si è partiti. Dalle poche aspettative che molti riponevano nella squadra e nella società. Dagli undicimila abbonati. Perché era il famoso secondo anno. Perché senza Keita non si poteva giocare. E via discorrendo. Gli stessi che ieri sera sono ricicciati fuori. Perché pare non aspettassero altro.

Però questa Lazio ha smentito tutti. Così bella e incosciente, ha mostrato per lunghi tratti il gioco più bello in Italia e se l’è giocata su tutti i fronti a testa alta.

Il rammarico per non essere andati in Champions c’è, ci mancherebbe. Gli errori ci sono stati e da questi si dovrà ripartire. Ma non si dica che questa squadra non ha fatto il salto di qualità perché sareste in malafede.

Perché questi ragazzi si sono arresi solo ad un potere che ha cercato in tutti i modi di frenarne l’incredibile corsa. Una classe arbitrale marcia e in malafede. Senza dimenticare gli attacchi mediatici subiti per il caso figurine. C’è stato un momento in cui, a sentire l’opinione pubblica, tifare Lazio era diventato un marchio d’infamia come la lettera scarlatta.

Resta quindi l’amarezza finale ma restano soprattutto negli occhi e nel cuore i goal di Immobile, le magie di Luis Alberto, lo strapotere di Milinkovic-Savic, il goal di Murgia in Supercoppa, la generosità di Lulic, il carisma di Leiva, la Lazialità di Inzaghi.

Resta una squadra che ha riportato allo Stadio una tifoseria.

E questo, al netto dei risultati, dei goal fatti, delle vittorie, resta il successo più grande di questi ragazzi.

Perché per anni abbiamo chiesto e cercato una Lazio che straripasse di Lazialità e non saranno i sei minuti di Salisburgo o i cinque minuti di ieri sera che devono far cambiare idea su questa squadra e su questo Mister.

Perché quelli che oggi criticate, sono gli stessi che vi hanno convinto a tornare allo stadio. Gli stessi che vi hanno fatto esultare per più di cento volte quest’anno.

Chiudo citando tre frasi che mi stanno particolarmente a cuore e spiegano più di tutte l’essenza del tifoso. O almeno quello che per me dovrebbe essere. Una è di Alessandro Tonno, storica voce del tifo biancoceleste: “sorrido perché in fondo starò male due, tre, giorni, forse più, ma alla fine me metterò tutto alle spalle, così come faccio nella vita di tutti i giorni. Gioie e dolori arricchiranno la mia storia, a me interessa vivere di emozioni, di sbagli, di scelte, non mi interessa campare. Andrò sempre allo stadio con lo stesso spirito, ossia quello di divertirmi, andrò per il piacere di stare nella mia comunità, per sostenere la mia squadra. Non cerco nel calcio rivincite sociali, scegliendo la Lazio ho scelto la mia giusta dimensione. Una vita per la Lazio, la Lazio per la vita.”

La seconda e la terza la prendo in prestito da quel meraviglioso Vangelo calcistico che è “Febbre a 90º”. E con queste mi congedo a livello calcistico per questa stagione.

“Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente, senza pensare al dolore o allo sconvolgimento che avrebbe portato con sé.”

“E la cosa stupenda è che tutto questo si ripete continuamente, c’è sempre un’altra stagione. Se perdi la finale di coppa in maggio puoi sempre aspettare il terzo turno in gennaio, che male c’è in questo? Anzi, è piuttosto confortante, se ci pensi.”

Ecco.

Se tifare una squadra di calcio è confortante.

Tifare Lazio è bellissimo.

Anche e soprattutto quando va come non vorremmo che vada.

BUONE VACANZE LAZIO

BUONE VACANZE LAZIALI

“MA QUANTO CORRI, LEO?”

Il Mister è teso. Cerca di spronarci ma si vede lontano un miglio che non vede l’ora che finisca la partita. In un modo o nell’altro. Eppure noi siamo il Milan, la squadra più titolata d’Italia. Accanto a me ci sono ragazzi come Zlatan, Clarence, Massimo, Christian. Gente abituata a stare sotto pressione. E a vincere. Ma lui è Massimiliano Allegri. È un Mister senza la giusta esperienza. E noi lo sentiamo che sta per confrontarsi con un avversario più grande di lui. Il Barcellona. La squadra più forte del mondo. Dove gioca Leo Messi. Il giocatore più forte del mondo. Io sono Alessandro Nesta. E sono stato il difensore più forte del mondo.

Scendiamo in campo con ancora nelle orecchie le ultime parole del Mister: “È importante non prendere goal, ragazzi…”

Questo deve essere il nostro credo, oggi. Per noi che siamo cresciuti dominando, è un passo indietro. Mentale più che tattico. Perché noi siamo il Milan.

“…e mi raccomando il raddoppio di marcatura su Messi. È fondamentale.”

Fondamentale. Fondamentale. Fondamentale. E i suoi occhi attraversano i miei, quelli di Philippe, Antonio, Daniele, Massimo, Luca. Sei uomini. Dodici occhi per due gambe. Argentine e corte. Ma imprendibili.

Fino a qualche anno fa, lo avrei fermato da solo. Magari lasciandolo andare via per poi riprenderlo in scivolata. E pettinarmi subito dopo. Fino a qualche anno fa. Certo. Il tempo passa, però. Per tutti.

Entriamo a San Siro. C’è il pubblico delle grandi occasioni. Record assoluto di presenze. Ce lo ha detto il dottor Galliani prima del match. Ma quello non è un problema. Mi preoccupano solo quelle gambe argentine e corte.

Il Barcellona è perfetto nel suo blaugrana. Elegante e storico. Noi abbiamo la maglia bianca delle grandi occasioni e dei grandi trionfi. Quella degli Invincibili.

Suona l’inno della Champions League e mi guardo intorno. San Siro può far paura. Ti può uccidere ed esaltare. Io sono morto e risorto varie volte. Non mi fa più paura. È casa mia, ormai. E la mente vola via. A quel pomeriggio d’aprile di diciotto anni fa. Il campo di calcetto dove stavamo facendo una partitella di allenamento. Io, giovane, talentuoso difensore della Primavera laziale. E Paul Gascoigne. L’idolo di una tifoseria intera. Lui mi entra male. Duro. E si rompe tibia e perone. Io sto sotto shock. La Lazio e i Laziali perdono il suo idolo. Il giorno dopo, finisco su tutti i giornali. “Il giovane Nesta rompe Gazza”. Amen.

Salutiamo gli avversari. Incrocio i suoi occhi. Lui è un finto umile. Consapevole della propria forza e della propria superiorità. Mi saluta con il capo. Ci conosciamo già. Ma questo è un duello definitivo. Quelli di qualche mese fa erano solo scontri tra due squadre consapevoli di superare entrambe il girone a braccetto.

Ci sistemiamo in campo. Mi sistemo i capelli lunghi. Quei capelli che mi hanno accompagnato per una carriera. Mi abbraccio con Ambro. Cerco lo sguardo di Philippe. Scambio un cenno d’intesa con Antonini e con Bonera. Faccio il pollice a Christian in porta. Sono pronto. E dove non arrivo io, sono sicuro che arriverà un mio compagno.

A raddoppiare. Raddoppiare. Raddoppiare. Come vuole il Mister. L’arbitro fischia l’inizio. E il Barcellona comincia il suo giochetto di passaggi. Che mi snervano. Xavi, Keita, Xavi, Iniesta, Xavi, Busquets, Iniesta, Xavi. E palla a Messi che fa il primo scatto della sua partita. Veloce. Imprendibile.

“Ma quanto corri, Leo?”

Lo fermo non senza difficoltà. Passo la palla a Massimo. Mi pettino. E una è andata.

Attacchiamo noi. E la carriera mi passa davanti. La Lazio mi passa davanti. Finale di Coppa Italia, quattordici anni prima. Lazio contro Milan. Strano il destino. Abbiamo perso uno a zero all’andata con un goal di Weah all’ultimo minuto. Al ritorno, Albertini segna su punizione dopo pochi minuti dall’inizio del secondo tempo. Zero a uno. E tutti a casa. Poi, però, si accende il Mancio. Che è sempre stato come quegli amici più grandi che ti risolvono le situazioni più difficili e sanno sempre ciò che fare nei momenti di difficoltà. Mancio fa segnare Gottardi. Poi, Jugovic lancia Guerino che viene steso da Maldini. Calcio di rigore. Vladimir non sbaglia mai un colpo. Non per niente, lo chiamiamo “Mezzasquadra”. Lo Stadio diventa una bolgia. C’è un calcio d’angolo. Io vado in area di rigore. Anche se non ho mai segnato. C’è una mischia. Fuser prova a buttarla dentro. C’è una respinta, la palla resta lì. Arrivo io. E gonfio la rete. Capitano, io capitano. Che sarò, dopo quella sera. Esulto con il dito alzato e non ci capisco più niente. Diego alza la Coppa Italia al cielo. E settantamila tifosi la alzano con noi. È il primo trofeo di una lunga serie. Ma Xavi ruba palla. E io torno collegato a San Siro. Xavi, Iniesta, Busquets, Sanchez, Messi, Iniesta, Xavi. Poi Messi che riparte. Ma lo chiudiamo in due. Philippe e io. Il Mister ci dice bravi. Perché abbiamo chiuso bene gli spazi. Cominciamo a soffrirlo. Ma resta innocuo. Due per uno. Nemmeno al supermercato del calcio, fanno offerte così. Christian rilancia. Massimo salta di testa. Kevin Prince la prende e imposta l’azione. Io volo a Birmingham. Villa Park. Lazio contro Maiorca. Ultima finale di Coppa delle Coppe della Storia. Siamo uno pari. Bobo Vieri ha fatto un goal impossibile ma i rossi di Cuper hanno pareggiato poco dopo. Mancano pochi minuti alla fine. Quando Vieri si avventa su un pallone sporco e la prepara per Pavel. Che la infila all’angolo. E mi fa alzare l’ennesimo trofeo. Con la maglia gialla e nera.

Xavi, Iniesta, Busquets, Puyol, Dani Alves, Sanchez, Xavi. Non finiscono più. Keita, Iniesta, Messi, Iniesta, Xavi, Messi, Xavi. Messi. Messi. Messi. Mi fa male la schiena.

“Ma quanto corri, Leo?”

Gli tiro la maglia. È piccolo, veloce. Argentino. E imprendibile. Lo fermo insieme a Daniele. Lo fermo. E mentre passo la palla a Kevin Prince, ripenso a Montecarlo e al goal di Salas contro lo United. Siamo la squadra più forte d’Europa. Ci manca solo lo Scudetto. Io, Capitano di una squadra di Capitani. Sono cose che Capitano. Luca, Paolo, Nestor, Giuseppe, Sinisa, Matias, Diego Pablo, Juan Sebastian, Pavel, Roberto, Dejan, Marcelo, Alen. Carisma, tecnica, ego all’ennesima potenza. Mister Sven che miscela il tutto. Il trionfo è dietro l’angolo. Ma l’arbitro fischia la fine del primo tempo. Zero a zero. Abbiamo tenuto. Chiuso. Raddoppiato. E limitato i danni.

Tanti anni fa, il Milan di Capello ne fece quattro al Barcellona di Crujiff in finale di Coppa Campioni. Ora noi stiamo elemosinando uno zero a zero. E proteggendolo con le unghie. E siamo sempre il Milan e loro sono sempre il Barcellona. Loro erano sempre blaugrana e il Milan aveva sempre la maglia bianca.

Negli spogliatoi, il Mister ci fa i complimenti per la fase difensiva ma dice che dobbiamo essere più incisivi in avanti. Zlatan è nervoso. Vuole segnare a tutti i costi. E chiudere il suo conto personale con Guardiola.

Mentre il Mister parla, ripenso a quel giorno di Maggio. Ai tre goal alla Reggina. Al diluvio di Perugia. Al goal di Calori. All’Olimpico invaso e in estasi. A me che sono il Capitano dello Scudetto. Romano e Laziale. Il massimo della vita. Penso al Mister in lacrime che dice: “Si deve credere sempre”. Al trionfo di una vita. A noi nudi nello spogliatoio che saltiamo e cantiamo. Penso che un sogno così non ritorni mai più.

“L’arbitro fischia l’inizio del secondo tempo. E loro ricominciano. Lo chiamano “tiki-taka” ma sembra una goccia cinese. È una tortura lenta e costante. Xavi, Iniesta, Xavi, Busquets, Sanchez, Keita, Puyol, Alves, Xavi, Messi. E poi ancora Xavi, Iniesta, Busquets, Xavi. San Siro li applaude e li teme. Dottor Jeckyll sportivo e Mr. Hyde tifoso. Pubblico esigente e mai sazio di vittorie e trionfi.

Attacchiamo noi. Zlatan vuole lasciare il suo segno. La sua Zeta sulla partita. Mentre io ripenso al Derby. Non ai quattro derby consecutivi. Non alla punizione di Veron. No. A “quel” Derby. E a quella difesa a tre mai provata. A Dino esterno di centrocampo. A noi che ci guardiamo intorno stupiti. A Montella che mi vola intorno tre volte in pochi minuti. E mi uccide. Lui piccolo aeroplano giallorosso. Io kamikaze biancazzurro. Mi costringe alla resa nell’intervallo. Scappo. E sbaglio. Fernando mi aggredisce. Io sto sotto shock. Ho la fascia al braccio. Ma non la sento mia. Non quel giorno. E sbaglio. Sbaglio. Sbaglio. Ma chi non sbaglia? Pure Messi sbaglia uno stop e la palla finisce in fallo laterale. Io ritorno sulla terra.

Leo è un UFO. Da vicino ancora di più. Mi costringe a scatti che il mio fisico non può più permettersi. La schiena mi chiede aiuto. Le gambe vanno da sole. Ma non ce la fanno a stargli appresso. Nonostante tutto lo contengo. Con la malizia e l’esperienza. E con l’aiuto dei compagni.

“Ma quanto corri, Leo?”

Lui mi guarda, capisce e sorride. Il Calcio è una lingua internazionale. Guardo il tabellone e vedo che mancano cinque minuti. Zero a zero. Non abbiamo segnato. Ma non abbiamo nemmeno preso goal. Questo era il nostro obiettivo.

Proviamo l’ultimo affondo. E io mi ritrovo al 31 di agosto del 2002 a Formello. Manca poco alla fine del calcio mercato. Mi chiama il nostro Direttore Sportivo. Sono stato venduto per salvare la Lazio. Salvare la Lazio. Salvare la Lazio.

Shock.

Rewind.

Montella che mi uccide. Lo Scudetto del 2000. La Supercoppa con lo United. La Coppa delle Coppe. La Coppa Italia e il mio goal. La fascia di Capitano. L’esordio in serie A. L’infortunio di Gascoigne. La prima maglia biancoazzurra. La mia vita a ritroso. Tutta davanti in pochi secondi.

Non posso rifiutare. Devo accettare. Per forza. La Lazio è in crisi.

Io al Milan. Hernan all’Inter.

Piango.

Finisce un Amore.

Inizia un lavoro.

E mentre Messi prova l’ultimo allungo della sua partita, trovo la forza chissà dove per fermarlo. Gli tolgo la palla. San Siro mi applaude. Passo la palla a Kevin Prince. E mi sistemo i capelli dietro le orecchie. La schiena mi urla per il dolore. Non ce la fa più. Leo corre troppo. E come lui, corrono troppo in tanti. Me ne rendo conto oggi. Di fronte alla squadra più forte del Mondo. Dico basta. Oggi. Il mio corpo me lo chiede. Me lo urla.

L’arbitro fischia la fine della partita. Zero a zero.

Missione compiuta.

Ancora una volta.

Contro il più forte del mondo.

Perché io sono Alessandro Nesta.

Il difensore più forte del mondo.

Ed ero il Capitano della mia Città.