SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZO MAGGIO

Era la sera del tredici maggio del duemila. Era un sabato. E Marco andò a letto nervoso e demoralizzato. Perché Il giorno successivo si sarebbe concluso il campionato di calcio. E la conclusione stava prendendo, per il secondo anno di seguito, i contorni di una vera beffa.

La sua Lazio si presentava con un distacco di due punti dalla prima in classifica. Era seconda per la seconda volta consecutiva alla penultima giornata. E in Marco era ancora vivo il ricordo della beffa dell’anno precedente. Per questo e per quello che era successo la domenica prima in Juventus Parma, Marco riponeva poche speranze negli ultimi novanta minuti da giocare contro una Reggina che non aveva nulla da chiedere al torneo. I tre punti erano già in cascina mentre la Juventus sarebbe scesa in campo al “Curi” di Perugia di Carlo Mazzone, romano e romanista. I proclami di Luciano Gaucci, presidente umbro, che garantiva trasparenza e impegno della sua squadra mal combaciavano con quello che era successo l’anno prima, quando il Perugia lasciò campo, vittoria e Scudetto al modesto Milan di Zaccheroni.

Per quello, e per tante altre cose, Marco non ci credeva più.

Lui, nato l’anno dopo lo scudetto del settantaquattro, era diventato Laziale per tradizione di famiglia. Come spesso succede. E, da Laziale, ne aveva viste e sentite di tutti i colori, arrivando a credere che tifare Lazio era una più un atto di fede che una questione di tifo e basta.

In fondo, lui era cresciuto negli anni ottanta. Anni sbagliati, o forse no, per diventare tifoso della Lazio.

“Cosa resterà di questi anni 80?” cantava Raf. E proprio gli anni ottanta regalarono alla Lazio poche gioie e molti dolori.

Appena superata la metà del decennio, infatti, la Lazio, appena salvata dal fallimento grazie all’imprenditore Gianmarco Calleri, fu coinvolta nello scandalo scommesse. O meglio, per dirla tutta, solo un suo giocatore, Claudio Vinazzani, risultò indagato. Ma la responsabilità oggettiva della società portò ad una retrocessione in serie C, trasformata, successivamente, in una penalizzazione di nove punti. Che, per molti, aveva il sapore di una retrocessione posticipata.

Sembrava l’inizio della fine.

Fu invece il trampolino per ritornare a vivere.

Salvatasi dai meno nove alla fine di una stagione drammatica, l’anno successivo ottenne la promozione in serie A. E da quel momento, finalmente, arrivò quella stabilità che tanto era mancata nelle ultime due decadi, fatte più di nadir che di zenit.

All’inizio degli anni novanta, poi, un imprenditore romano e Laziale di nome Sergio Cragnotti rilevò la società e iniziò un processo di crescita che portò la Lazio a lottare con le più importanti squadre d’Europa, grazie a investimenti sempre più importanti.

Per Marco, si aprirono così nuovi orizzonti da tifoso. Finalmente, il suo amare a prescindere cominciò a raccogliere i meritati frutti.

Arrivarono una Coppa Italia vinta contro il Milan, una finale di Coppa Uefa persa contro l’Inter a Parigi, arrivarono la Coppa delle Coppe vinta contro il Maiorca e la Supercoppa Europea vinta contro il Manchester United. E Marco fu sempre presente. Nel trionfo e nella sconfitta.

Ma mancava lo Scudetto. E sembrava fosse irraggiungibile. Perché era troppo difficile sconfiggere un certo potere italiano. Marco ne era sempre più convinto. Per questo, dopo aver salutato la foto del padre scomparso due anni prima poggiata sul comodino, spense la luce deluso e amareggiato. Lui così ottimista e idealista si scontrava per il secondo anno di fila con il cinismo dei poteri forti. Quello che era successo la settimana precedente a Torino era il segnale che faceva il paio con l’arbitraggio dell’anno prima a Firenze. Era tutto deciso. Non c’era nulla da fare. Non c’era spazio per la Lazio in Italia. Questa, dall’alto dei suoi venticinque anni, era la sua più grande sconfitta. Decise, così, di andare incontro a Morfeo, il Dio del Sonno però. Non il fantasista talentuoso scuola Atalanta che già si stava perdendo in un Calcio più grande di lui.

Non era sveglio.

Di questo ne era certo. I contorni della stanza erano sfocati, travisati da un’atmosfera onirica. Era nel letto ma non era sveglio quando due uomini sulla trentina gli si avvicinarono. I contorni del viso e del corpo erano sfocati. Non riusciva a vedere chi fossero. Però si avvicinavano verso di lui. E si fermarono a bordo letto. Quando si fecero più nitidi e vivi. Se così si potevano definire. Uno era biondo, l’altro era moro. Entrambi avevano i capelli un po’ lunghi e mossi. Marco non sapeva che pensare.

Si alzò con la schiena sul cuscino. Cercò di accendere la luce sul comodino ma il comodino non c’era più. C’era solo il letto e la stanza non aveva pareti. Sembrava uscita da una canzone di Gino Paoli.

“Chi siete?” chiese spaventato Marco.

Non riusciva a inquadrare il loro viso.

“Ciao Marco, siamo tuoi amici…”- il biondo aveva un accento milanese che lo infastidiva un po’.

“…e siamo venuti per raccontarti due storie…le nostre storie…”- il moro si esprimeva in dialetto romagnolo.

Ma i volti erano ancora troppo poco definiti.

“…sicuramente ci conosci, di nome o di fama…purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista…” – proseguì il biondo.

“…e siamo qua perché ti abbiamo sempre seguito a distanza…ci ha colpito la tua passione, il tuo modo di amare la tua squadra del cuore, in modo puro e totale….”- il moro lo stava coinvolgendo.

“…ma sono un po’ di giorni che ti vediamo giù…triste…svuotato…nervoso…”- il biondo continuava.

“…siamo qui per ricordarti che il vero laziale non molla mai…il vero laziale ne ha passate tante…troppe…e se sta ancora qui, a combattere e a sperare che domani succeda qualcosa di speciale…romantico, direi…è perché ha dentro una forza morale che non l’abbandona mai…”- il moro proseguiva.

“Abbiamo conosciuto un signore qualche tempo fa dove siamo ora…è un uomo serio ma di spirito, un Laziale come te…ci ha chiesto di seguirti…si chiama Mario, è il tuo Papà…”

Marco si commosse. Non sapeva cosa pensare ma stranamente si fidava.

Parlavano di Lazio. Conoscevano il suo papà morto due anni prima per colpa di un brutto male. Bastava quello.

“Vieni con noi…” – gli dissero all’unisono.

Marcò si alzò dal letto. Si avvicinò a loro. Una luce fortissima investì la stanza. Come il flash enorme di una macchinetta fotografica. Quando la luce scomparve, la stanza non c’era più.

C’era, però, lo Stadio Olimpico. Pieno di gente. E c’erano maglie attillate, pantaloni a zampa d’elefante e colletti extralarge.

Era il dodici maggio del millenovecentosettantaquattro. Era il giorno di Lazio Foggia. Il giorno dello scudetto.

Marco si girò verso l’angelo biondo.

“Ma tu, quindi, sei Luciano…Luciano Re Cecconi…”

“Si…sono io…” – e i lineamenti presero forma. Mostrando quel viso semplice ma tenace. Simpatico ma deciso.

Sì, era Luciano Re Cecconi. “Cecco Netzer” come lo avevano ribattezzato i tifosi, perché con il suo dinamismo e la sua chioma bionda ricordava il mediano dell’allora fortissima Germania Ovest, Gunter Netzer.

Era Luciano Re Cecconi. L’idolo del suo Papà e di tutti i Laziali. Colui che, complice un destino maledetto passò dalle pagine della cronaca sportiva a quelle della cronaca nera nel giro di poche ore.

Era Luciano Re Cecconi, l’angelo biondo, e portò Marco ad assistere al suo più grande trionfo sportivo.

“La prima storia che ti voglio raccontare è la storia di un Sogno spezzato e rimandato all’anno successivo. La storia di una squadra pazzesca. E di un uomo eccezionale…”

“Tommaso Maestrelli…” lo interruppe Marco.

“Si…un uomo eccezionale…era stato il mio allenatore a Foggia e lo seguii con entusiasmo nella sua avventura a Roma…tutti si ricordano lo Scudetto ma il vero capolavoro lo facemmo l’anno prima, con la Lazio appena promossa dalla serie B. Una cavalcata fantastica terminata sul più bello, all’ultima giornata, quando “qualcuno” decise di vendere il proprio onore e di consegnare lo Scudetto alla Juve…”

“Già…la Juve…come quest’anno…”

“Già…però cosa abbiamo fatto noi, l’anno dopo? Non mollammo…anzi…eravamo ancora più carichi e vogliosi di prenderci ciò che ci era stato tolto…eravamo imbattibili…pazzi furiosi e nemici in allenamento, un blocco unico la domenica in campo con il Mister che sapeva consigliarci e guidarci e che ci trattava come figli…beh…forse a Giorgio concedeva qualcosa di più…però andava bene così…tutti per uno e uno per tutti…come quella volta che, sotto di un goal contro il Verona alla fine del primo tempo, decidemmo di non fare l’intervallo e di aspettare in campo, già schierati ai nostri posti, gli avversari. Per intimidirli. Non ci fu partita: finì quattro a due in rimonta. Quello era lo spirito che animava quella squadra. Questo è il senso di ciò che voglio dirti, io, oggi: non dare per scontato il risultato di domani. Quello che è stato lo scorso anno non conta più. Domani sarà un’altra partita. Vai sicuro e orgoglioso della tua fede e dei tuoi colori e credi sempre…Sempre…e ora goditi lo spettacolo…” chiosò Luciano.

Marco si trovò in Tribuna Tevere. Proprio all’altezza del suo posto allo stadio ogni domenica. Al suo fianco Luciano e l’angelo moro di cui non riusciva a vedere i lineamenti e che se ne stava in silenzio.

Re Cecconi era spettatore in tribuna e giocatore in campo. La Lazio aveva bisogno della vittoria per centrare il trionfo. Il Foggia, l’ex squadra di Maestrelli e Luciano si giocava la permanenza in serie A. Strani incroci che solo ai Laziali potevano capitare. Lo stadio era stracolmo. Pronto ad assaporare, per la prima volta sulla sponda biancoceleste, il sapore dello Scudetto.

La Lazio di Maestrelli era la versione italiana del tanto famoso e glorioso calcio-totale di scuola olandese. Si schierava con Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi e Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e D’Amico. Mischiava tecnica e dinamismo. Furore e classe. Era invincibile.

Chinaglia era il leader e il centravanti di sfondamento. Viveva per il goal e voleva sempre il pallone. A costo di litigare con tutti i compagni di squadra. Nella vita di tutti i giorni, andava in giro con una 44 Magnum. Era l’Ispettore Callaghan dell’area di rigore avversaria.

D’Amico era il genio e la sregolatezza, giovane promessa del calcio italiano, aveva un talento pari alla sua anarchia in campo come nella vita.

Re Cecconi era il dinamismo e il coraggio. Colui che abbinava quantità e qualità senza mai fermarsi un attimo. Era il miglior poster di questa squadra. E l’unico facilmente individuabile grazie al suo casco biondo.

Marco vide il rigore di Chinaglia al sessantesimo. Vide uno stadio esplodere. Si emozionò come mai gli era successo. E pensò che lì, da qualche parte tra gli ottantamila spettatori, c’era suo padre Mario, che tante volte gli aveva raccontato di quel giorno e di quante emozioni uno scudetto poteva portare.

E pianse ancora di più. Nel rivivere emozioni del passato che sembravano così attuali.

Quando l’arbitro Panzino di Catanzaro fischiò la fine la catarsi emotiva esplose in tutta la sua bellezza. Il sogno si avverava. Luciano, il mister Maestrelli e la squadra tutta ci avevano creduto fino alla fine. Un sogno nato sulle ceneri della delusione dell’anno precedente.

Un sogno che si era avverato perché, da veri laziali, non avevano mollato mai.

Marco si girò verso Luciano. Lo abbracciò mentre le lacrime ancora scendevano copiose e lo ringraziò per avergli fatto vivere quelle emozioni.

Luciano ebbe una smorfia di dolore.

“Non stringere forte, piccolè…” – lo redargui sofferente – “…non ti dimenticare che…” e gli mostrò, spostando la maglietta che gli copriva il petto, quella ferita che fu la fine di tutto.

Quella tragedia che interruppe per sempre la corsa di “Cecco Netzer”.

Ci fu di nuovo un flash. Un bagliore di luce accecante.

Quando tutto svanì, rimase il cielo e un ambientazione di montagna.

C’erano un campo sportivo con al centro i giocatori della Lazio. Attaccati alle reti, c’erano i tifosi. E un brusio del quale Marco riuscì a intuire solo alcune sporadiche parole: “Con nove punti di penalizzazione, era meglio la retrocessione diretta…”

Era l’estate dell’ottantasei. I Mondiali in Messico erano passati da poco. Paolo Rossi era un ragazzo come Venditti.

Marco e i suoi due angeli si trovarono a Gubbio, sede del ritiro della Lazio.

Sulle tribunette del campo sportivo, mischiati tra gli altri tifosi, Marco si apprestò a conoscere l’angelo moro.

“Ciao Marco, la seconda storia di oggi è dedicata a un gruppo di ragazzi e al suo allenatore che, quando il Destino sembrava li avesse condannati a una morte calcistica sicura, ebbero la forza di schienare le avversità e di riportare in alto l’aquila biancoceleste….è la storia di una rimonta e di una vittoria all’ultima giornata…”

I contorni del viso si delinearono.

“Ma tu sei Giuliano Fiorini…l’eroe dei meno nove…” – Marco non credeva ai suoi occhi.

“Si, sono Giuliano…ma in questa storia di eroi ce ne sono molti…a partire dal nostro Mister…”

“Eugenio Fascetti…”

“Già…un grande uomo…lo vedi ora in mezzo al campo? Sai cosa ci disse quel giorno?”

“No…”

“Beh…oggi è il giorno dopo il verdetto definitivo del processo legato al calcio scommesse…la CAF ci ha appena revocato la retrocessione ma ci ha inflitto nove punti di penalizzazione…” – Giuliano si accese una sigaretta. Fece un tiro e tossì. – “…maledetto tabacco…” – ma continuò a fumare e a raccontare – “…il Mister ci riunì al centro del campo…c’erano sgomento e preoccupazione in tutti noi…ma bastarono poche parole…semplici ed efficaci per compattarci…”

“Cosa vi disse il Mister?” – Marco era affascinato da quella situazione. Sembrava stesse vivendo nel “Canto di Natale” di Dickens. Era consapevole della realtà onirica. Ma ci si trovava bene. Era sereno.

“Ci disse le fatidiche parole: ‘Chi vuole resti…chi non se la sente può andar via subito…chi resta, però, combatte fino alla fine.”

“E voi?”

“Rimanemmo tutti…” – rispose Giuliano. Fece l’ultimo tiro e poi gettò la sigaretta per terra.

“Quella era una Lazio che aveva due palle così…” – e ne mimò la consistenza e la grandezza – “…c’erano il Mister e il suo secondo, Giancarlo Oddi…te lo conosci bene, eh, Lucià?”

Luciano sorrise e annuì. Erano stati compagni di squadra in quella squadra dello Scudetto.

“C’erano Piscedda e Gregucci, Magnocavallo e Terraneo, c’erano il muto Acerbis e il timido Poli, Marino, Caso, Mandelli, Esposito, Podavini, Camolese…eravamo mestieranti del calcio, nessun fenomeno, ma eravamo uomini veri. E se la Lazio domani si va a giocare lo Scudetto e non scomparve nelle paludi della serie C…beh…ragazzì…un po’ è merito anche nostro…”

“Già…” – Marco sorrise – “…quella Lazio me la ricordo…io avevo undici anni…mi ricordo il goal di Poli contro il Campobasso negli spareggi a Napoli che ci salvò…”

“Si…ma prima di quel goal…ci fu un’altra partita…” – lo corresse Giuliano.

“Lazio Vicenza…” – rispose Marco.

“Già…quel Lazio Vicenza…vieni…andiamo…”

E di colpo l’ambientazione cambiò.

I tre si ritrovarono di nuovo allo Stadio Olimpico. Stesso posto in Tribuna Tevere di poco prima.

Lo Stadio era gremito in ogni posto. Anche il papà di Marco c’era. Da qualche parte in curva Nord. Come sempre.

Ma stavolta l’aria che si respirava era diversa. Non c’era l’attesa del trionfo. C’era la paura della serie C. Con la certezza di sparire per sempre dal calcio che contava.

Gli ottantamila dell’Olimpico lo sapevano.

E tifarono.

E tremarono.

E sperarono.

La Lazio indossava quella che, probabilmente, rimarrà la maglia più bella della sua storia: un’aquila blu stilizzata al centro su sfondo bianco e celeste. A pensarci ora, con il senno di poi, poteva sembrare una Fenice che rinasceva dalle ceneri. Una maglia profetica.

Ma gli ottantamila che erano lì. Quel giorno. Il ventuno giugno del millenovecentottantasette non potevano ancora saperlo.

La partita sembrava stregata. La Lazio dominò e tentò il goal in ogni modo possibile. Ma il portiere del Vicenza, Dal Bianco, sembrava insuperabile.

Erano le sei del pomeriggio. Mancavano otto minuti alla fine delle speranze. Otto minuti all’inizio del dramma sportivo. Ogni miracolo del portiere vicentino veniva accompagnato da urla di disapprovazione e sconforto.

Quando.

Quando Podavini decise di provare il tiro della disperazione. La palla era indirizzata fuori dallo specchio della porta ma, in agguato, sul secondo palo, c’era Giuliano Fiorini, bomber d’altri tempi e vecchio filibustiere dell’area di rigore. L’uomo del Destino. Uno che si accendeva la sigaretta alla fine delle partite e non disdegnava un goccetto di whisky.

Giuliano arpionò la palla con il destro e se la fece scorrere tra le gambe. Si girò su stesso mandando fuori tempo l’avversario e, di punta, come solo chi ha attraversato in lungo e largo le aree di rigore avversarie, facendo a sportellate per conquistare spazio e presenza, mise la palla tra palo e portiere.

Un goal sceso dal cielo.

Fu il delirio biancoceleste.

La corsa di Giuliano Fiorini sotto la Curva Nord impazzita di gioia rimase nella storia della Lazio come il momento più catartico di sempre.

Giuliano rientrò in campo come se la partita fosse finita in quel momento. Ciondolante. Con il corpo invaso da un’adrenalina infinita.

Era il re, in quel momento.

E aveva un popolo intero in adorazione per lui.

Marco in tribuna si commosse, esultò come se non sapesse come sarebbe andata a finire. Come se fosse tutto in diretta. E abbracciò Giuliano che piangeva rivedendo se stesso.

Un corto circuito emotivo che solo i sogni potevano creare.

“Ma la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?” – la frase storica di Marzullo pronunciata alle tre di notte su Raiuno lo svegliò.

Era sicuro di aver spento la televisione prima di dormire. E, invece, la trovò accesa. E fu strano che a svegliarlo fu quella frase banale e sempre uguale. Leit motiv di tanti sonnambuli italiani.

Marco si trovò nel suo letto. Nella sua stanza. Il comodino vicino con sopra la foto di suo papà.

Nessuna traccia dei suoi angeli. Di Luciano e Giuliano.

Accese la luce.

E c’era qualcosa di strano sui muri.

Insieme ai poster di Salas e Mancini, di Nesta e Veron, di Nedved e Almeyda, idoli del presente, c’era qualcosa di diverso.

C’erano due poster che prima non c’erano.

Uno, in bianco e nero, ritraeva Luciano Re Cecconi, palla al piede e sguardo deciso.

L’altro era dedicato a Giuliano Fiorini, a colori, mentre si apprestava ad andare sotto la Nord dopo il goal contro il Vicenza.

Marco sorrise e capì.

Potenza dei sogni.

Si rimise a dormire in attesa del Sole della domenica.

Una domenica di mezzo maggio.

Arrivò allo Stadio due ore prima.

La Curva Nord avrebbe scioperato per un quarto d’ora per protestare contro un finale di campionato che puzzava di bruciato.

Gli “Irriducibili” avevano organizzato, addirittura, il “funerale del calcio italiano” con tanto di bare e processione che partiva da Piazza della Libertà.

Marco no.

Prima di quella notte si sarebbe unito anche lui ai tanti manifestanti per protestare. Ma quella notte, quella strana notte, gli portò consiglio e lo convinse a vivere quella giornata a petto in fuori e con orgoglio. Fiducioso nella sua squadra e in quel Destino che spesso si era divertito a scherzare con i colori biancocelesti. Ma che spesso, proprio quando sembrava tutto deciso, veniva sconfitto dall’Aquila biancoceleste e da quello stellone che proteggeva dall’alto il popolo Laziale.

Parcheggiò il Booster vicino al Ministero degli Esteri e si diresse verso la Tribuna Tevere.

Il cappellino degli “Irriducibili” in testa, farcito delle spillette di molte squadre inglesi, i pantaloncini al ginocchio che rendevano vivibile un pomeriggio già estivo e, come maglietta, la scelta cadde sulla replica della maglia di Giuliano Fiorini che gli regalò lo zio Luciano per il compleanno, l’anno prima.

Era perfettamente identica, con lo sponsor “Cassa di risparmio di Roma” e il marchio “Tuttisport” in rosso, sul petto. Non l’aveva mai messa. La tirò fuori dal cassetto dove conservava tutte le maglie della Lazio e pensò che, mai come quel giorno, meritava di essere indossata.

Perché se si era arrivati al maggio del nuovo secolo a giocarsi lo scudetto era, soprattutto, grazie a chi, tredici anni prima, tirò fuori la Lazio dall’Inferno.

Lo stadio si riempì. La gente tifava ma era disillusa.

I tifosi, dopo una rimonta in cui la squadra aveva recuperato sette punti nelle ultime sette giornate a una Juventus stremata, avevano paura che sarebbe svanito tutto all’ultima giornata. Come l’anno prima. E non volevano vivere un nuovo Lazio Parma.

La partita viaggiava sulle ali della monotonia quando un mani in area di rigore calabrese, portò l’arbitro Borriello a fischiare il rigore per i padroni di casa.

Dal dischetto, Simone Inzaghi portò la Lazio in vantaggio.

Passarono pochi minuti e Pancaro venne atterrato dal terzino amaranto in area di rigore. Altro penalty. E stavolta si presentò sul dischetto Juan Sebastian Veron, il tuttocampista, che non fallì. Due a zero e partita archiviata.

Intanto, a Perugia, la Juventus non riusciva a mettere sotto un Perugia arcigno e mai domo. Il che alimentava le speranze dei più ottimisti. Che non erano tanti. Ma Marco era tra questi.

In caso di parità, Lazio e Juve si sarebbero giocate lo Scudetto allo spareggio.

Era il traguardo massimo a cui i Laziali aspiravano.

Ma stava per succedere qualcosa di strano ed epocale.

Alla fine del primo tempo, la radio diede la notizia che, a Perugia, si era scatenato il diluvio universale. Cosa da non crederci visto che a Roma e, in generale, in tutta Italia, c’era un Sole che spaccava le pietre.

Sembrava la nuvola dell’impiegato tanto cara a Fantozzi.

Era molto di più.

Marco sorrise e capì.

L’intervallo all’Olimpico durò trentacinque minuti, in attesa che ricominciasse anche il secondo tempo al “Renato Curi”.

La contemporaneità degli eventi garantiva la regolarità del campionato.

Ma a Perugia non smetteva di piovere e Pierluigi Collina, il miglior arbitro del mondo, mandato dal Palazzo a gestire una partita così problematica e delicata, si trovò a prendere la più importante e scomoda decisione sportiva della sua carriera.

I giocatori della Juve, guidati dal capitano Antonio Conte, spingevano l’arbitro a rinviare il match.

Intuivano che quella era una partita maledetta e non avevano in corpo più energie a sufficienza per portare a casa i tre punti.

La zebra sentiva il fiato dell’aquila sul collo.

Il Destino si apprestava a darle il colpo di grazia.

Nel secondo tempo, Diego Pablo Simeone, il Cholo, uno dei tanti leader di quella Lazio, fissò il risultato sul tre a zero. Le orecchie di tutti posero così l’attenzione su quello che stava accadendo a Perugia.

Per Marco e per i tifosi, ci fu, però, ancora il tempo di applaudire Roberto Mancini che, sostituito a pochi minuti dalla fine, diede l’addio al calcio giocato e fu portato sotto la curva a cavalcioni dal suo amico e compagno Attilio Lombardo. Erano le sedici e quarantanove.

Quando l’arbitro Borriello decretò la fine del match dell’Olimpico, quasi in contemporanea, Collina fischiò l’iniziò del secondo tempo dopo la sospensione di un’ora.

Il campo era ancora pesante.

Ma si doveva giocare. Non si sarebbe potuto fare altrimenti. Dopo quello che era accaduto la settimana prima.

Quando Alessandro Calori, stopperone grezzo e Capitano del Perugia infilò alle spalle di Van Der Sar il goal del vantaggio dei Grifoni, l’Olimpico esplose in un boato clamoroso.

In quel momento, con quel risultato, la Lazio sarebbe stata Campione d’Italia.

Marco cominciò a piangere.

Mentre tutti si abbracciarono speranzosi, Marco si chiuse nel suo silenzio scaramantico.

Fino al giorno prima non avrebbe mai pensato che sarebbe stato possibile un evento del genere.

Ma quella notte, e quel sogno, avevano cambiato tutte le sue convinzioni. Sportive e non.

Il campo di gioco dell’Olimpico fu invaso dai tifosi. Ma, con i cancelli aperti, molta gente raggiunse lo Stadio e l’effetto visivo fu quello di uno stadio strapieno in ognidove, in campo e sugli spalti.

Alle diciassette e quarantacinque, partì il collegamento audio con “Tutto il Calcio minuto per minuto”: Riccardo Cucchi era il profeta del verbo in arrivo da Perugia. La sua voce veniva emanata dagli altoparlanti dello Stadio in vivavoce.

Sembrava la scena di un sogno.

In tribuna, i commenti erano i più disparati.

Si passava dal “Nun ce credo…” al “Male che va, se pareggiano, andiamo allo spareggio…”

Marco non proferì parola. Ma piangeva e pensava.

Pensava al papà Mario e a quanto avrebbe voluto dividere con lui questo momento.

Pensava a Luciano e a Giuliano, angeli di un sogno di metà maggio.

E pensava che, finalmente, era giunta l’ora del trionfo.

Bisognava crederci sempre.

E così fu.

Quando Collina fischiò la fine delle ostilità a Perugia, erano le diciotto e zero quattro.

Riccardo Cucchi, fiero e solenne, decretava: “La Lazio è Campione d’Italia millenovecentonovantanoveduemila, la Juventus è stata battuta a Perugia per uno a zero dalla squadra di Carletto Mazzone…la linea all’Olimpico…”

Fu il trionfo.

Gente che piangeva.

Che si abbracciava.

Che non ci credeva.

Marco guardò verso il cielo e sorrise.

Sorrise ai suoi due angeli e al suo papà che lo avevano guidato da lassù.

E, colto da tanta emotività e da tanto entusiasmo, non si accorse che, nonostante lo Stadio scoppiasse e fosse pieno come un uovo, tre seggiolini intorno a lui erano rimasti sempre vuoti e non furono mai occupati per tutta la durata della partita.

Potenza dell’amore e di un sogno di una notte di metà maggio.

QUATTRO PERSONAGGI IN CERCA DI UN GOAL

Piove su Roma. Un’altra volta. Sembra che la pioggia non debba smettere mai. Sembra quasi che la pioggia debba lavare chissà che. Chissà cosa. Per purificare la città.

Ma con questa pioggia, non fitta e lacerante come quella del Derby di qualche settimana prima, ma fastidiosa e improvvisa, Roma, oggi, sembra Milano.

E non va bene.

Perché stasera c’è Lazio Inter.

E Roma non deve fa la stupida stasera.

Luciano arriva allo Stadio alle sette e mezza. Parcheggia la sua “Mito” sulla salita del Don Orione. Vicino allo Chalet, la discoteca dove qualche lustro prima, viveva i suoi sabato sera. Quando era un trentacinquenne con un bel lavoro e tante donne ai suoi piedi.

Luciano passa davanti all’ingresso della discoteca, e ora che ne ha poco più di cinquanta, di anni, ora che ha una figlia di pochi mesi che gli ha cambiato la vita, ora che le poche certezze della sua vita sono la Lazio e gli affetti che lo aspettano a casa, beh, Luciano sorride e pensa che è felice così. Perché la vita ha i suoi cicli. E quello che sta vivendo è il suo ciclo più bello. Quello definitivo.

Si accende la sigaretta, si sistema la sciarpa biancazzurra intorno al collo, si alza il bavero del giaccone, guarda verso lo Stadio illuminato mentre la pioggia lo bagna in modo fastidioso, sorride e scende giù.

Direzione Tribuna Tevere.

Miro detto “Mito” scende dal pullman della squadra alle sette e mezza. Non ha le cuffie enormi di tanti suoi colleghi. Non ne ha bisogno per mostrarsi fashion e per isolarsi. Per cercare la concentrazione. Perché lui, concentrato, ci è nato.

Miro entra nello spogliatoio e si mette al suo solito posto. Dove i magazzinieri gli hanno già preparato tutto. La maglia numero 11 ben piegata. Gli scarpini Nike di due differenti colori. Miro si emoziona ancora, ogni volta che entra nello spogliatoio. Perché il calcio è la sua vita. Insieme alla sua splendida famiglia. Ed è per questo che per lui, ogni goal è sempre speciale e non è mai banale.

Miro si spoglia e si riveste. Cambia pelle. Si toglie i panni dell’uomo, si trasforma nel cecchino infallibile che sta guidando la propria squadra in alto.

Diventa uno dei giocatori più temuti in Italia.

Sicuramente, quello più decisivo.

Ascolta il Mister che comunica la formazione e gli da gli ultimi consigli.

“…Miro, tu gioca come sai…vieni a prendere palla e fai salire la squadra…cerca di allargare il gioco quando puoi e punta la porta…e cerca il movimento che abbiamo provato in allenamento…”

Si allaccia gli scarpini bianco e verdi, sorride, si infila la felpa da allenamento, sbatte i tacchetti sul pavimento e si incammina verso l’uscita.

Direzione campo di calcio.

Marcolino parcheggia lo scooterone al solito posto. Di fronte al Ministero degli Esteri. Sono le sette e mezza. Ha fatto tutto di corsa per arrivare in tempo. Alle sette è uscito dal negozio dove lavora in centro da pochi mesi. Con lo scooter ha eluso ogni trappola dell’infernale traffico romano di un qualsiasi sabato prenatalizio. Ed è volato allo stadio. Noncurante della pioggia che lo tormenta da giorni. Lui che è un animale delle due ruote.

Si toglie le cuffiette dell’Iphone. “Sei un Mito” degli 883 termina sul più bello. Quando lei gli dice di salire su perché non ci sono i suoi. Controlla i messaggi ricevuti sul cellulare, prima di entrare in clima partita. Risponde a Jessica, la ragazza con cui si frequenta da qualche giorno.

“Sono allo Stadio. A dopo. Se sopravvivo. Come sempre. Ciao…:-)”

Mette la catena allo scooter. Chiude il casco nel bauletto. Si sistema la sciarpa del gruppo intorno al collo. Indossa i guanti di pelle nera e il cappello della “Stone Island”. Alza gli occhi verso lo stadio illuminato in lontananza e sorride. Dall’alto dei suoi diciannove anni. E si avvia.

Direzione Curva Nord.

Stefano scende dal pullman dopo Andre. Per ultimo. Da buon Capitano. Come sempre. Soprattutto quando manca Tommaso. Stefano è sereno. Ha le cuffie in testa. Quelle enormi. Le usa per distrarsi. Per concentrarsi. A dire la verità, le hanno tutti i suoi compagni. Tutti tranne uno. Miro. Ma a lui non servono. Lo sa anche Stefano. Miro è Miro. Punto. “E oggi voglio mandarlo in porta”. Pensa tra se e se Stefano. Se lo ripromette. Mentre saluta l’autista. Che gli fa l’in bocca al lupo per la partita.

Stefano percorre il tunnel che porta agli spogliatoi. È l’ultimo del gruppo. Incrocia Juan Sebastian Veron. Che è appena arrivato allo Stadio invitato dalla Lazio.

“Ciao Sebastian…Come stai?”

“Io bene…Grazie Stefano, in bocca al lupo per stasera…”

“Crepi…eri il mio Mito…ti studiavo quando giocavi…per capire come facevi ad inventare i corridoi dal nulla…”

Veron sorride e gli stringe la mano. Stefano sorride. Ed è pronto. Entra nello spogliatoio. Entra il Mister, elegante come sempre. Che comunica la formazione.

“…Stefano tu parti alto a destra…”

Stefano è pronto. Come sempre. Comincia a cambiarsi e ripensa agli ultimi eventi della sua vita. Al carcere, alle battute gratuite, ad una stampa sempre con il dito puntato.

Pensa a tutte le rivincite che si sta togliendo sul campo. E pensa che un’altra se la toglierà stasera. Ne è sicuro.

Per questo sorride quando sale le scale.

Direzione prato verde.

Luciano compra e beve un “Caffè Borghetti” prima di arrivare ai cancelli. Gli piace il “Borghetti”. Gli ricorda gli anni passati. Quelli delle trasferte con gli amici, quelli dello Stadio con i gradoni bianchi e senza copertura, quelli in cui non bisognava avere la Tessera del Tifoso per poter seguire in modo costante la propria squadra. Quella stessa tessera del Tifoso che usa per superare il controllo ai cancelli gialli e ai tornelli interni. Una routine che affronta senza nemmeno pensarci. Proprio in quanto routine. Come tante altre cose della sua vita. Sale le scale che lo portano al suo settore. Ma prima di raggiungere il suo posto, si ferma a guardare il campo e le squadre che entrano per il riscaldamento.

Batte le mani ai suoi ragazzi. E sorride.

Fa l’ultimo tiro alla seconda sigaretta della serata e la getta via.

Sono le otto.

Luciano raggiunge il suo posto.

Miro entra in campo e va verso la Tevere correndo. Batte le mani ai tifosi che lo applaudono. È concentrato. Ancora più del solito. Questa sera è fondamentale vincere. Lui lo sa. Corre nel suo solito modo. Inconfondibile. Spalle strette. Schiena dritta. Elegante. Miro si trova bene a Roma. L’ha scelta per cercare di raggiungere il suo sogno. Superare Gerd Müller come cannoniere di tutti i tempi della Nazionale Tedesca e giocare il Mondiale in Brasile per superare Ronaldo nella classifica dei marcatori delle fasi finali dei Mondiali.

Obiettivi che ne testimoniano la grandezza, la professionalità e la motivazione. Per Miro, ogni partita è una finale. Ogni goal, una Polaroid della sua carriera. Indelebile. E a colori. Il preparatore chiama i giocatori per iniziare il riscaldamento. Miro si avvicina a Stefano. Prima di iniziare l’allungo e gli fa:

“Dammela sulla corsa, quando taglio verso l’area. Stasera ci penso io.”

E scatta con l’entusiasmo di un ventenne alla prima di serie A.

Marcolino compra “La Voce della Nord” al banchetto fuori l’ingresso della Curva. La colleziona da sempre. Da quando va allo Stadio da solo. E quando non può andare per vari motivi, se la fa comprare dai suoi amici di Curva. Supera l’ingresso dopo essere stato perquisito da capo a piedi. L’abito fa il monaco. Da sempre. E a lui lo perquisiscono tutte le volte. Anche se, in fondo, è un bravo ragazzo. Ma ai tornelli non lo possono sapere. Che fa volontariato e che è donatore di sangue. E che sogna di adottare un figlio a distanza. Ma tutto questo, mentre appoggi la Tessera del Tifoso al lettore ottico, nessuno lo sa. Il laser legge un codice a barre. Non le intenzioni.

Marcolino sale le scale che lo portano dentro lo Stadio. Si ferma quado arriva a gustarsi il prato nella sua interezza. Lo stadio gli trasmette serenità. Lo rilassa. Lo fa sentire a casa. Guarda i giocatori entrare in campo per il riscaldamento. Vede Miro andare verso la Tevere applaudendo e Stefano venire verso la Nord.

Parte il primo coro della Curva. Lui comincia a scaldare la sua voce.

La Voce della Nord.

Stefano entra in campo per il riscaldamento e si avvia verso la Nord. Come ogni domenica. Arriva fino alla linea di fondo e saluta la Curva. È carico e concentrato. E poi, l’incontro con Veron lo ha galvanizzato. Sa che lui è in Tribuna. Doppio ex di livello mondiale. Lui, invece, è un discreto centrocampista con i tempi giusti negli inserimenti e ottime intuizioni di prima e in verticale. Spesso azzarda e sbaglia. E la cosa gli procura critiche. Lui sa di essere amato e odiato. Ma sa pure che, cambiando gli allenatori, lui il posto lo trova sempre. Un motivo ci sarà. Stefano palleggia un po’ per scaldarsi con Senad. Poi il preparatore li chiama per iniziare gli allunghi e il riscaldamento vero e proprio. Gli si avvicina Miro che gli suggerisce come servirlo in profondità.

“Io cerco di infilarla subito. Appena vedo uno spiraglio. Tu parti, Miro, che con me la palla arriva sempre. Ricordi Milano?”

E mentre Miro scatta ricordando il suo goal all’esordio in serie A a San Siro contro il Milan, lui ripensa alla “Strega” Veron. A come apriva gli spazi e a come creava corridoi dal nulla. Stefano sorride e scatta anche lui.

Ci vorrà un po’ di magia per battere l’Inter.

Luciano è nervoso. La Lazio gioca bene, fa la partita ma non riesce a concludere. L’Inter si copre. Aspetta l’avversario chiusa nella propria metà campo e non riparte mai. Sembra di assistere ad un Lazio Atalanta qualsiasi. Il colore delle maglie, in fondo, è lo stesso. Luciano è nervoso. Perché l’Inter fa catenaccio e, soprattutto, perché ha un’interista vicino che non sta mai zitto. E Luciano, come confessa a Marco, il suo compagno di Stadio da anni, si sta rompendo le scatole.

“Nun gliela faccio più…mo’ je meno…”

E quando Klose viene atterrato in area di rigore e l’arbitro fa segno di continuare, lo Stadio esplode veemente nella protesta. Tutto lo Stadio unito nei fischi tranne i diecimila tifosi dell’Inter presenti e il vicino di posto di Luciano. Che non fa nulla per nascondere la sua fede nerazzurra. E allora Luciano esplode. Come mai gli era successo negli ultimi anni di Stadio. Quelli della tranquillità. Il suo tono romano prende il sopravvento. Il turpiloquio diventa il leit motiv della discussione. Tra le risate dei suoi compagni di Tribuna e gli occhi impauriti del malcapitato e poco accorto tifoso. Che capisce l’antifona e abbandona il posto. Per manifesta inferiorità.

“Oooooohhh….e che cazzo….nun gliela facevo più…se doveva mette proprio accanto a me, sto infiltrato de merda…”

E si accende un’altra sigaretta. La quinta della serata.

Tutti ridono. Luciano no. È nervoso.

L’Inter continua a fare catenaccio.

Quando l’arbitro fischia la fine del primo tempo, Miro scuote la testa. È nervoso. L’Inter si chiude troppo e lui ha ricevuto pochi palloni giocabili. E poi, l’arbitro gli ha negato un rigore netto. Mentre scattava verso la porta di Handanovic, ed è stato sgambettato da un avversario. Mazzoleni ha fatto segno di continuare. Lui si è arrabbiato. All’inizio. Ma tanto, arrabbiarsi non serve a nulla. È questo il motto di Miro. Che ha continuato a giocare e a lottare ma senza mai trovare il guizzo. E mentre scende negli spogliatoi per l’intervallo, osserva i suoi compagni e gli avversari. Osserva il fumo che esce dai loro corpi. Colpa del contrasto calore-umidità. E ripensa a quante volte, lo ha visto nei campi della sua Germania, quell’effetto di contrasto. E allora, per un attimo, si sente a casa. Di nuovo. E giura a se stesso che su questa partita lascerà il segno.

Questo pensa mentre sorseggia il the.

Fumante. Anche lui. Come i suoi compagni di squadra.

Marcolino paga la birra per lui e per Big Mac, il suo amico di Stadio da sempre. Una Peroni alla spina ghiacciata ci sta sempre bene. Brindano. Con il bicchiere di plastica. La partita non si sblocca. Sono tutti un po’ nervosi. Ma fiduciosi. Sono i finiti i tempi dell’Inter di Mourinho. Quella invincibile. Sono due anni di seguito che l’Inter ne prende tre all’Olimpico. Big Mac è convinto che sarà così anche quest’anno.

“Ma che non li hai visti quanto so’ scarsi?…avemo giocato solo noi…ci manca solo il goal…”

“Già…speriamo che non ci fanno la sorpresa…quante ne avemo viste di partite così?”

“Ma dai…’ndo vanno?! Oggi li sfonnamo…”

Marcolino invidia la sfrontatezza di Big Mac. Per questo, lui per gli amici è “Ino” e l’altro è “Big”. Anche se fa di tutto per apparire ciò che non è. E nasconde dietro al look aggressivo, le sue insicurezze di ventenne. E allora, prima che inizi il secondo tempo, si prepara una sigaretta con le cartine e il tabacco. Controlla il suo profilo Facebook. E riparte verso il suo posto insieme a Big Mac. Che sta a lui, come Jimmy Cinquepance stava a Paul Gascoigne. Il mito di suo fratello maggiore che ora si gode le partite in Tribuna Tevere.

Lui, no. È troppo piccolo per la Tribuna.

Lui è un animale da Curva.

Ha i suoi istinti, le sue necessità.

Ha bisogno del branco. E lo trova solo lì.

Il branco. Che gli disinibisce l’istinto represso di una vita da bravo ragazzo.

Ce ne sono tanti come Marcolino in Curva.

Che si perdono nel branco e guardano le stelle.

Stefano rientra in campo. Insieme ai suoi compagni. Ha fretta di chiudere il match. Sa che la sua squadra è superiore. Il Mister, negli spogliatoi, gli ha chiesto più velocità nel verticalizzare il gioco. Gli ha detto “Stefano, tu sai come si fa…fallo…veloce…due tocchi…nello spazio…sulla corsa di Miro e dai che facciamo goal…”.

Stefano incrocia gli sguardi dei suoi compagni. Devono solo essere più veloci nella manovra e più cinici. Guarda Miro. Gli fa il segno del pollice. Sperando che Miro, più tardi, ricambi con il segno dell’Ok. Quello che è sinonimo di goal e di vittoria. In fondo, gliel’ha promesso durante il riscaldamento, il goal. Solo che lui ci deve mettere l’assist. La velocità d’esecuzione. E i tempi giusti. Soprattutto. Perché, in fondo, è il tempo che ci frega. Sempre.

E poi succede che l’inerzia della partita cambia.

E mentre tutti aspettano il goal della Lazio, ecco che sul prato di gioco appare, dopo un’ora di gioco, la strana Inter di Stramaccioni. Romanista dentro. E poi succede che Freddi Guarin prende un palo con Marchetti proteso in un inutile tuffo.

E succede che Luciano, in Tribuna, comincia a invocare i santi del calendario. Uno per uno. E poi succede che Cassano la piazza dal limite dell’area, con un tocco dei suoi, quando ricorda di averli. Ma stavolta Marchetti c’è e la devia sul palo. E poi succede che sulla respinta del palo, la palla arriva sui piedi di Nagatomo che, a botta sicura, la butta dentro. O almeno così sembra a tutto lo Stadio. A tutti tranne che a Federico Marchetti. Che c’è ancora. Come c’era prima. E come c’era a Torino. E poi succede che Miro, messo davanti alla porta da un perfetto assist di Gonzales, sbaglia il più facile degli stop mentre Marcolino, Big Mac e tutto lo Stadio con loro erano già pronti ad esultare. Succede che Stefano ripensa a Veron. Che sta lì in tribuna. Leggenda vivente di uno Scudetto bellissimo e incredibile. E pensa che è giunto il momento di lasciare il segno sulla partita. E di seguire i consigli del Mister.

Succede che Hernanes porta palla sulla metà campo. La scarica su Stefano. Che la stoppa di destro, si gira su stesso e lo vede.

Succede che Miro vede Stefano ricevere la palla da Hernanes e capisce che è giunta l’ora. E allora Miro taglia dal centro verso destra. E si va ad infilare in mezzo a tre avversari. Ma lui sa che la palla arriverà. Con i tempi giusti e i giri giusti. Perché Stefano gliel’ha promessa. Una palla così.

E allora Luciano butta la sigaretta per terra mentre Stefano la infila di sinistro. Subito. In profondità. Perfetta. Veloce. Proprio come faceva, anni fa, Veron.

E Miro lascia scorrere la palla quel tanto che basta per colpirla di destro. In corsa tra tre avversari. Proprio come faceva, anni fa, Klose. Che continua a farlo.

Marcolino si alza in piedi. Al rallentatore. Mentre tutti in Curva si alzano con lui. Coreografia spontanea nell’immediato.

Il tiro è perfetto. Angolato. E mentre Miro cade calciando, la palla si infila nell’angolo opposto. Con Handanovic proteso in un volo inutile.

La rete si gonfia.

Lo Stadio esplode.

Luciano lascia il calendario da una parte e abbraccia tutti i suoi vicini di seggiolino alla sua destra. Perché, a sinistra, l’interista non c’è più.

Miro va in scivolata, esultando. E poi viene sommerso dai suoi compagni.

Marco si trova dieci file più su e dieci file più giù. Con Big Mac al seguito.

Stefano sorride e guarda la Tribuna Autorità. Laddove c’è il suo Mito. Che gli ha insegnato come si fa. A creare spazi nel nulla.

La Lazio va in vantaggio a nove minuti dalla fine. E la vince nel momento in cui rischiava di perderla, la partita. L’arbitro concede 4 minuti di recupero. Che diventano quasi cinque.

Poi, finalmente, manda tutti sotto la doccia. E fa calare il sipario su una partita dai due volti.

Miro, a fine partita, va a cercare Stefano.

“Te lo avevo promesso…”

“Già…e io ti ho dato una bella palla, no?”

“Si…ma non mi far fare più scatti come quello…lo sai che sono vecchio, no? Lo dicono tutti…”

E poi gli fa l’occhiolino e, di nuovo, il segno dell’Ok

Perché oggi è la notte è giusta.

Per continuare a sognare.

LA FIABA TRISTE DI KIM VILFORT

Ci sono storie ricordate per il loro lieto fine ma di cui molti dimenticano il retrogusto amaro. Quella sensazione di sconfitta nonostante il trionfo. O forse è proprio quel lieto fine insperato che diventa il modo migliore e più struggente per dirsi “Addio“.

Questa è la favola triste di Kim Vilfort, onesto mediano della Danimarca, vincitrice a sorpresa degli Europei di Svezia.

L’anno è il 1992. Le notti magiche sono un lontano ricordo. Jovanotti ci ricorda quanto è bella l’estate delle mie e delle tue vacanze mentre Luca Carboni ci avverte che ci serve un fisico bestiale per resistere agli urti della vita.

Quella vita che ha giocato uno scherzo infame a Kim Vilfort, onesto centrocampista danese in forza al Brondby. La figlia di otto anni infatti è stata colpita da una forma molto aggressiva di leucemia e lui è già pronto a vivere un’estate maledetta, da passare accanto a lei nell’ospedale in cui è ricoverata, a Copenaghen. Ma un giorno di fine maggio, riceve la chiamata del CT danese Moeller Nielsen che lo convoca per gli Europei. Nonostante la Danimarca non si sia qualificata.

“La Jugoslavia, a causa dell’assedio di Sarajevo che dura da due mesi, è stata esclusa dalla competizione. Noi siamo stati ripescati, altrimenti non arrivano a otto squadre. Posso contare su di te?“. Sembra la telefonata di un amico che cerca il decimo per giocare a calcetto. E invece è la convocazione ufficiale per un Europeo di Calcio. Nel 1992, il Calcio funziona ancora così.

“Sì, Mister, può contare su di me, come sempre. Ma conosce la mia situazione…”

“Non ti preoccupare, Kim, potrai andare a trovare tua figlia ogni volta che vorrai. Certe cose valgono molto di più di una partita di calcio.”

“Grazie…”

“Grazie a te…”

I giocatori danesi svuotano le valigie già pronte per le vacanze e preparano la borsa per le partite. Tutti tranne Michael Laudrup, fuoriclasse del Barcellona, che attacca il telefono in faccia al suo CT con la motivazione che “sarà pure un Europeo e la Svezia è pure un bel paese ma io di venire a fare figuracce non ne ho proprio voglia.”

Di Laudrup a quegli Europei ne sarà presente solo uno, il fratello Brian, ventitreenne stellina del Bayern Monaco. Basterà. I giocatori danesi vengono accolti in Svezia come vittime sacrificali. Guardati con ironia e compassione dagli addetti ai lavori. Molti di loro avrebbero preferito indossare il costume e non il fratino da allenamento. Ma “in fondo sono solo tre partite, le vacanze sono solo posticipate di qualche giorno.”

Poi succede che la prima partita, l’11 giugno, contro l’Inghilterra finisce, contro ogni pronostico, con un dignitoso 0 a 0. Nel secondo match, i padroni di casa si impongono uno a zero grazie ad un goal di Thomas Brolin. E tutti pensano che il cammino della Danimarca sia giunto al termine.

“Grazie per aver salvato gli Europei, ma adesso arrivederci e grazie!”

E grazie lo dice di nuovo Kim Vilfort al suo CT che gli concede il permesso di volare dalla figlia. Tanto è rimasta una sola partita. Contro la Francia. Figurati se…

Poi però i giocatori danesi realizzano che, per un incrocio di risultati, gli basta battere i galletti transalpini per andare direttamente in semifinale e allora perché no? Perché non provarci? E allora dopo setteminutisette, Larsen porta in vantaggio la Danimarca tra lo stupore dei giocatori francesi.

“Ma questi mica vorranno vincere? Ma non stavano già al mare?”

Jean Pierre Papin, JPP per gli amici, restituisce certezze agli esperti di calcio internazionale pareggiando. Poi però dalla panchina danese si alza un certo Elstrup. Uno che fino a quel giorno non si era mai tolto i pantaloni della tuta. E quel giorno, non solo se li toglie, ma entra e segna. E porta la Danimarca in semifinale. Tra lo sgomento di tutti gli addetti ai lavori e il fomento di chi vede Cenerentola salire su quella carrozza che una volta era una semplice zucca. Per andare al gran ballo finale.

In semifinale, li aspetta l’Olanda mentre loro aspettano solo il ritorno di Vilfort, che li raggiunge e si piazza a metà campo, con la testa e il cuore lasciati al capezzale della figlia. L’Olanda è Campione in carica. Schiera tra le sue fila Van Basten, Gullit, Rijkaard e un giovanissimo fenomeno di nome Dennis Bergkamp.

Ma Larsen ci ha preso gusto. Prima porta in vantaggio i suoi. Poi sigla il due a uno dopo il momentaneo pareggio del biondo e poco temerario Dennis. Finita? No. Frank Rijkaard, uno con i piedi pensanti, pareggia a quattro minuti dalla fine. E le porte dei supplementari si spalancano proprio mentre Peter Schmeichel, estremo difensore danese che farà la storia del Manchester United, decide di blindare la sua, di porta. Arrivano così i calci di rigore. Ed è in quel momento che il Dio del Calcio comincia a scrivere la sua storia più bella e struggente.

Marco Van Basten, il Cigno di Utrecht, l’attaccante più forte del mondo, titolare della squadra più forte del mondo, prende la solita rincorsa, fa il suo solito saltello pre-rigore e tira. Ma Schmeichel indovina l’angolo, la mette fuori e trasforma il cigno Van Basten in un brutto anatroccolo. Si arriva così senza più errori, al quarto rigore. Sul dischetto, si presenta proprio Kim Vilfort, che guarda la porta ma vede sua figlia. Che tifa per lui in quel letto d’ospedale. Il goal è catarsi pura.

I giocatori danesi non credono ai loro occhi.

Ma ora c’hanno preso gusto. Non si torna più indietro. Le infradito e i costumi lasciati a casa sono solo un ricordo. La Gloria e, soprattutto, la Storia sono ad un passo. Cenerentola comincia a ballare al centro del salone mentre tutti guardano quanto può diventare bella una sguattera oppressa dalle sorellastre.

In finale, la Danimarca trova la Germania Campione del Mondo. Che nel calcio è come il mostro di fine livello nei videogiochi. C’è sempre. E, come ricorda Gary Lineker, “il calcio è quello sport dove si gioca undici contro undici ma alla fine vincono i tedeschi.” Anche quel giorno?

Il 26 giugno, la Germania vuole bissare il successo di due anni prima allo Stadio Olimpico di Roma. La Danimarca non ha nulla da perdere. Parleranno comunque tutti di lei, a prescindere. Ma Jensen sa come si fa a invertire la rotta della Storia e porta in vantaggio la Danimarca al diciannovesimo. I tedeschi non ci stanno, reagiscono e mettono sotto gli avversari ma trovano in Schmeichel l’antidoto ai loro sogni di gloria, l’autobus parcheggiato davanti alla porta, il buttafuori che non vi fa entrare nel locale perché non avete la camicia.

La partita, anzi l’assedio, va avanti così fino al 78esimo. Quando dopo un’azione confusa sulla trequarti tedesca, un colpo di testa fa arrivare il pallone a Kim Vilfort, proprio lui. Il controllo con il petto in corsa gli fa guadagnare un tempo di gioco sugli avversari, la finta a rientrare sul sinistro gli permette di liberare un tiro in cui c’è tutto. Speranza, gioia, tristezza, amore. La palla colpisce il palo interno e si insacca alle spalle di Bodo Illgner.

I compagni sommergono in un abbraccio il loro compagno, capendone il momento e gioendo con lui. Che piange. Piange. Piange di felicità e di rabbia. Perché Kim Vilfort sa che il momento più alto e epico della sua onesta carriera di calciatore si sta sovrapponendo in modo beffardo al momento più tragico della sua vita di uomo, marito e genitore.

Kim Vilfort festeggerà infatti il trionfo della sua squadra e del suo Paese ma, qualche settimana dopo, darà l’ultimo saluto a sua figlia Line, sconfitta da un male più forte di lei. Che nessuna squadra richiamata dalle vacanze potrà mai sconfiggere.

Quella squadra, però, che ha saputo donargli, in quegli ultimi giorni, un sorriso in più. Il più bello.

A QUELLI COME NOI

A quelli come noi, ci ha fregato la “sindrome da campeggio”, quella sensazione eterna di chi pensa che la vita sia una lunga, meravigliosa estate.

Che la vita sia piantare la tenda dove capita, perché tanto il mare è ad un passo. E ci si arriva correndo e gridando.

Che il campo da pallone sia sempre lì, alle spalle della pineta, dove possiamo giocarci per ore fino a che non faccia buio. Fino a che la cena non è pronta. Fino a che tuo padre non ti viene a cercare in bicicletta per sapere che fine hai fatto. Ignaro che tu ti sia sentito, per un interminabile pomeriggio, Ruben Sosa o Marco Van Basten.

A quelli come noi, ci hanno fregato i sorrisi. Quelli carpiti di sfuggita ma ugualmente catturati, durante i falò. Cantando Lucio Battisti e bevendo Peroni. E assaporati, finalmente, durante il bagno di mezzanotte. Quando il buio e il mare diventano i primi vetri appannati della nostra vita.

A quelli come noi, ci hanno fregato le amicizie che non muoiono mai, perché d’estate siamo tutti perfetti, senza difetti e indimenticabili. Tutti sempre con qualcosa di interessante da dire. Con una nuova barzelletta da raccontare. Perché in campeggio, non ci si annoia. E, soprattutto, non si invecchia. Mai. Al massimo, si cresce.

A quelli come noi, ci hanno fregato il calcio balilla e il tavolo da ping-pong, piccoli regni dove far risaltare la nostra prima virilità e i nostri talenti in erba. Anche contro gli adulti.

A quelli come noi ci ha fregato il gommone che ci accompagnava al largo. Dal quale facevamo i tuffi per ore, come se non ci fosse un domani.

A quelli come noi, ci ha fregato il panorama. Quell’orizzonte sconfinato che solo chi ha avuto il mare davanti può capire. Quella vastità che profuma di sogno e speranza. Di nuova opportunità.

A quelli come noi, ci ha fregato la doccia dopo la spiaggia. Quella fredda. Che ci toglieva gli ultimi residui di sabbia e che giustificava le mani un po’ ovunque. Quella che sulla pelle calda e abbronzata provocava un brivido di piacere e contrasto.

A quelli come noi, ci ha fregato l’estate.

Perché, nonostante gli anni che passano e le esperienze che si fanno, ci troviamo sempre impreparati quando la gente ci trascina giù.

Nel proprio inverno.

TORINO-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6,5: De Silvestri lo impegna subito e lui risponde “presente” come Toto Cutugno a Sanremo. Poi passa la serata a lancia’ con i piedi e se dimostra sicuramente più tecnico der poro Mauricio.

Luiz Felipe 7: concreto ed efficace come un tutorial de Aranzulla.

De Vrij 7: solo tre persone al mondo sono in grado di fare un lancio come quello con cui manda in porta Milinkovic nell’azione del rigore: Andrea Pirlo, ma s’è ritirato l’anno scorso…Stefan De Vrij, ma pare abbia già firmato per l’Inter…e il terzo, beh, il terzo lo chiamavano Bulldozer.

Radu 6,5: gioca la solita partita attenta fino all’infortunio. Quando incrocia De Silvestri che prova ad affonda’ sulla sua fascia, lui se lo guarda come Oronzo Canà co’ Pruzzo e je fa “io ti ho visto nascere…eri un pulcino…facevi ancora “Pio pio”.

Caceres 6,5: sostituisce Radu e passa er secondo tempo a chiedese perché hanno dedicato er nome dello stadio a un film de Clint Eastwood.

Marusic 6: come cantavano Tozzi, Ruggeri e Morandi, “si può dare di più”.

Lulic 6,5: fa una partita talmente ordinata e diligente che, a fine partita, Inzaghi je fa misura’ la febbre.

Murgia 6,5: er mini Parolo se smazza con poca eleganza ma con tanta sostanza.

Leiva 7: biondo, con quello sguardo così profondo, in vena de miracoli a centrocampo, a volte canta e qualche volta porta la croce. Pare che prossimamente sarà il protagonista di un musical ispirato alle sue gesta: “Je suis Leiva Superstar”.

Milinkovic-Savic 8: figlio di un Dio maggiore. Nell’azione del rigore, stoppa il pallone di petto in corsa con la stessa facilità co’ cui Al Bano faceva i figli. Sul goal, se smarca da N’Koulou dopo avergli chiesto “ma lo sai che er cognome tuo è pure un complemento de stato in luogo?”. Nel finale, insieme a Leiva, dà vita ad un’azione volante che rientra di diritto nella categoria dei capolavori incompiuti alla pari de “l’adorazione dei Magi” di Leonardo Da Vinci.

Luis Alberto 6: calcia il rigore con la stessa serenità de quando al supermercato devi ancora imbusta’ tutta la spesa e la cassiera t’ha già fatto er conto.

Immobile sv: la sua ex squadra non gli porta bene. Dopo le nefandezze dell’andata compiute da Giacomelli, ieri lo stiramento che probabilmente, ma speriamo di no, gli fa chiudere in anticipo la sua meravigliosa stagione. Torna presto. Ti vogliamo bene.

Caicedo 6,5: entra al posto di Immobile e fa la sua parte. Nel secondo tempo, fa una progressione alla George Weah ma tira in porta come Berardino Capocchiano. In pratica pare uno de quegli attori porno che gira bene tutte le scene ma, nel momento clou, viene sostituito dalla controfigura.

Lukaku 6: entra al posto de Luis Alberto e non sfigura (almeno sotto la doccia).

Inzaghi 7,5: dopo i risultati di sabato, la Lazio ha la possibilità di allungare sull’Inter. E i suoi ragazzi non si fanno trovare impreparati. Nonostante il rigore sbagliato e due infortuni che potrebbero compromettere il match, la Lazio tiene sempre il comando delle operazioni e porta a casa tre punti fondamentali nella corsa Champions.

AVANTI LAZIO

AVANTI LAZIALI

LAZIO-SAMPDORIA: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6,5: se fa trova’ pronto su un tiro dalla distanza di Barreto. Poi visto che la Samp è aggressiva come Malgioglio al raduno dei “Guerrieri della Notte”, se mette a spiega’ a Manzini come se fanno le storie su Instagram.

Caceres 7: sembra uscito da ‘na canzone de Povia. Ad ogni sua giocata, le Laziali fanno “Oh, che meraviglia!”

De Vrij 7: se ce fosse ancora una remota possibilità pe’ fallo rimane’, proporrei una coreografia all’ultima di campionato con la sua gigantografia e lo striscione “Ma nun lo vedi quanto semo belli!?! Ma ‘ndo cazzo vai, De Vrij?!?”

Radu 8: sembra tornato indietro de dieci anni. Allora è vero che tutti i giorni va agli allenamenti co’ la “DeLorean”.

Marusic 6,5: nel primo tempo spinge in maniera discreta. Nel secondo, complice il primo vero caldo della stagione, s’affitta un lettino, se fa’ porta’ un mojito e se mette a prende er Sole sotto la Tevere.

Lulic 7: inizia terzino ma poi se sposta al centro. Tanto a lui cambia poco. Fa sempre quello che cazzo je pare.

Leiva 6: ammonito dopo pochi minuti, fa la fine de Pieraccioni quando pista la merda mentre stava a fa’ il fotoromanzo ne “I Laureati”: gioca una partita che “‘un è la sua!”

Milinkovic-Savic 7: fa tutto. Prima segna de testa spuntando da sotto terra come Aldo nella partita sulla spiaggia in “Tre uomini e una gamba”. Poi giganteggia a centrocampo come uno juniores mandato a gioca’ coi pulcini. Finisce mandando in goal Immobile che se stava a deprime.

Parolo sv: chiede er cambio perché s’era ricordato che er tagliandino delle strisce blu dove aveva lasciato la macchina je scadeva alle 15 e 25.

Lukaku 6: la triade Lukaku-Lulic-Radu è più micidiale del gioco delle tre carte a Porta Portese. C’ha la palla Lulic, poi la passa a Lukaku ma poi er cross vincente lo piazza Radu. Spinge co’ la stessa costanza co’ cui Mario Brega chiedeva a Verdone: “Te la sposi o nun te la sposi?”

Anderson 6,5: a volte se capisce da solo. Come Luca Giurato. È l’unico giocatore al mondo che riesce a fatte di’, nella stessa azione, con tono meravigliato/esaltato “Guarda che ha fatto!” e pochi secondi dopo a fatte ripete la stessa frase. Ma con tono incazzato/depresso. A modo suo, unico.

Immobile 7,5: a cinque minuti dalla depressione per la terza partita senza goal, Sergej je se avvicina e je fa: “Daje, che mo’ te faccio segna’…”

E Ciro, più scoraggiato de Oscar Pettinari mentre aspetta l’attrice americana che telefona: “Lasciame perde, che oggi è ‘na giornata no…”

“E io te la faccio diventa’ sì!” je risponde Sergej. Detto. Fatto. E pochi minuti dopo fa doppietta su assist di Nani. Co’ tanti saluti a Icardi.

Nani 6,5: entra nel finale e manda in porta Immobile smentendo la recente teoria di Cremonini. Qualcuno che accetta di essere Robin ancora c’è.

Di Gennaro sv: gioca pochi minuti solo pe’ usci’ definitivamente dalla scaletta di “Chi l’ha visto?” di cui ormai era ospite fisso.

Inzaghi 7: la sua Lazio è una macchina da goal che diverte e soprattutto si diverte. Travolge la Sampdoria e mette un’altra tacca in questa stagione che comunque andrà a finire resterà impressa nel cuore dei tifosi. Perché ci sono state Lazio più o meno forti. Più o meno vincenti. Ma poche sono state quelle capaci di diventare un tutt’uno con la tifoseria.

AVANTI LAZIO

AVANTI LAZIALI

LA MIA MARATONA (10/4/2016)

“Perché corri?”

“Per sfidare me stesso.”

Con questo botta e risposta su Facebook con un mio amico che non capisce il perché la gente normale, non avendo velleità di vittoria, decide di partecipare ad una Maratona, me ne vado a letto presto, sabato sera. Perché la mattina dopo ho la sveglia alle cinque e mezza. Perché correrò la Maratona di Roma. Perché saranno quarantadue chilometri e centonovantacinque metri all’interno della mia città. Che amo e poi odio. E poi amo. E poi odio. Nemmeno fossi Mina.

Io non sono un runner. Ossia non sono uno che si sveglia alle sei del mattino, noncurante del freddo, della pioggia, dell’inverno che ti entra dentro, per rispettare la propria tabella di allenamento. Però sono uno che se si mette in testa una cosa, la fa. Ed alla corsa dedico un paio di allenamenti a settimana. Non più di quei dieci chilometri ad uscita che mi fanno stare in pace con me stesso.

Però la Maratona di Roma l’ho corsa anche lo scorso anno, per la prima volta, con un tempo discreto per uno che si allena poco come me: quattro ore, diciannove minuti e trentasette secondi. E pensavo non l’avrei più corsa. Sconfitto da una certa accidia che diventa mia fedele compagna nei mesi invernali.

Fino a quando.

Fino a quando due mesi fa, un cliente del negozio per cui lavoro, parlando del più e del meno, mi chiese: “Perché quest’anno non la fai? Dai che fai ancora in tempo a prepararla!”

E sarà stato il primo vero Sole primaverile che faceva capolino in negozio. Sarà stato che era giunto il momento di svegliarmi finalmente dal mio solito torpore invernale. Quel torpore che mi fa mettere da parte progetti, romanzi da scrivere, viaggi da programmare. Che è scattata in me quella scintilla senza la quale non puoi scatenare un incendio.

E allora ecco l’iscrizione. Ecco un piano di allenamento che mi permettesse di mettere nelle gambe abbastanza fiato e chilometri. Ecco un obiettivo davanti a me. Chiaro. Difficile. Ma affascinante. Una nuova sfida. Finalmente. Roma, 10 aprile 2016.

Ed ecco i miei occhi aperti alle quattro del mattino, noncuranti della sveglia fissata un’ora e mezza dopo. Ecco il girarmi e il rigirarmi nel letto cercando di racimolare un altro po’ di sonno. Ma niente. Niente. Occhi aperti a guardare il soffitto come nell’incipit di “Apocalypse now”. Ma anziché “The End” in sottofondo, quello è solo l’inizio di una giornata che comunque andrà, ricorderò per sempre. Comunque vada.

Alle cinque decido di alzarmi. Solita colazione. A cui aggiungo qualche fetta di bresaola. Di carboidrati ho fatto il pieno la sera prima a cena. Pasta. Pane. Patate. Le famose tre P. Preparo lo zaino. Faccio un rapido check prima di uscire. E so che dal momento in cui esco di casa, non potrò più tornare indietro. Amen.

A Roma ha piovuto la sera prima. Come lo scorso anno. Il cielo è grigio. Coperto. Le previsioni non danno pioggia. Ma le app del meteo, a volte, sono attendibili come Wanna Marchi che promette di toglierti il malocchio. Quindi, come sempre nella mia vita, mi fido solo di me stesso e di ciò che vedo. Ed è un tempo di merda.

Arrivo alla Stazione Termini. Parcheggio e scendo giù. Negli inferi di una Stazione che è stata la mia casa lavorativa per sette anni e che ogni volta, come un coltello piazzato in una ferita, mi lacera l’anima. Ricordi di errori, di vittorie, di sconfitte, di premi. Sembra un’altra vita ora. E forse, in fondo, lo è.

Mi guardo intorno e scopro che non sono solo. Comincio a vedere altri zaini azzurri come il mio. Altre Asics ai piedi come le mie. E se non sono Asics, sono Mizuno, Brooks, Saucony. Vestono i piedi di chi come me, correrà tra un po’. Mi faccio fiducia. Nonostante un dolore al bicipite femorale della gamba destra che mi accompagna da una settimana e che resta lì, latente. A farmi compagnia. Come una spada di Damocle sulla testa della mia prestazione. Indurisco la coscia ogni tanto quasi a chiedergli “Ci sei?” e lui compare subdolo e maligno come Pennywise nei tombini. Sibila. “Sì, ci sono. Farai i conti anche con me. Oltre che con la tua città e con la tua fatica.”

Scendiamo a Circo Massimo. L’uso del plurale mi rende più forte e sicuro di me. Mi fa capire che non sono solo. E in effetti, solo non mi ci sento. Tanta gente. Di tutti i tipi. Dal corridore navigato che è passato dalla StraBarletta alla Maratona di Sidney fino al principiante che cerca il suo posto nel mondo. Ognuno con il suo rito. Con il proprio look. Con i propri dolori e i propri demoni da sconfiggere. Cerco e trovo il mio tir di riferimento, al quale consegnerò il mio zaino, e mi ci siedo di fronte. È presto. Sono le sette. Ma mi sembra di essere sveglio da una vita. La partenza è tra due ore, quasi. Mi siedo e aspetto. Sulla riva del fiume dei miei pensieri.

Poi mi levo i pantaloni della tuta e resto in pantaloncini. Mi cambio i calzini e ne metto un paio a compressione graduata, lunghi fino al ginocchio. Mi tolgo la maglia e ne metto una super aderente, rossa, con lo stemma di Spiderman. Il mio supereroe preferito. Quello che ha accompagnato la mia infanzia da Peter Parker. Occhiali e timidezza a volontà. Prima di crearmi una maschera che mi facesse sentire invincibile. Fisso il pettorale numero 10483 alla maglietta celebrativa della Maratona e sono pronto. O quasi. Il mio vicino si sta massaggiando le gambe con l’olio canforato. Gliene chiedo un po’. E così anche io posso riscaldare i miei muscoli in anticipo. Mentre il Pennywise femorale sibila e mi ricorda che c’è. Sempre.

Consegno lo zaino e mi avvio. Passo sotto l’arco di Costantino e raggiungo via dei Fori Imperiali. Mostro il braccialetto arancione che fa molto privé e accedo al viale che mi porterà alla partenza. Mi scappa la pipì. E mi viene in mente Pippo Franco. Rimembranza trash di un’infanzia mai troppo rimpianta. Aspetto il mio turno in quello che è una sorta di rito pregara. Come la confessione prima del matrimonio. Svuotarsi di tutti i propri peccati prima del sacro evento.

Raggiungo finalmente la partenza. Sono nervoso. Pennywise sibila. Il cielo si sta un po’ aprendo ma fa freddo. Davanti a me c’è tanta gente ma, soprattutto, ci sono poco più di quarantadue chilometri da percorrere. Con l’obiettivo di migliorarmi anche di un solo secondo.

Mi guardo intorno, studio i volti, ascolto voci. Come Daredevil amplifico tutto quello che avviene intorno a me. Capto frammenti di vita, percepisco battute tra amici, mi concentro su tutto il resto per non concentrarmi su me stesso. Come spesso è capitato nella mia vita.

E in un attimo sono le otto e cinquantuno. L’ora della partenza. E tutto ciò che è stato pensato, non esiste più. Esiste Roma. Esistono i quarantadue chilometri. E soprattutto i centonovantacinque metri. Quelli finali. Quelli che non finiscono mai ma che vanno affrontati con il sorriso sulle labbra.

Passiamo sotto le telecamere della Rai e salutiamo. Un modo come un altro di farsi coraggio. Davanti a me, vedo i pacemaker con i palloncini segnalatori del tempo finale. Cerco quelli delle quattro ore e quindici. Il mio obiettivo. Li raggiungo e mi affianco a loro prima di arrivare a Piazza Venezia. Sono un gruppo di runner toscani. Decido che non li mollerò fino alla fine.

I sanpietrini ci danno il benvenuto subito, ricordandoci quanto di antico ancora c’è di Roma, nelle nostre giornate. Ma l’adrenalina è tanta e il vero sanpietrino nemico è quello degli ultimi due chilometri. Io mi guardo a destra e trovo i peacemaker. Sorrido. Mi sento sicuro. Pennywise è in letargo. Uscirà dopo.

Via dei Cerchi. Aventino. Ostiense. Air Terminal. La Basilica di San Paolo ci regala il primo ristoro. Bevo acqua. “Ricorda di bere sempre, ad ogni rifornimento. Se resti senza liquidi, sei finito!” il consiglio di un mio amico per la maratona dello scorso anno, lo tengo sempre a mente e lo faccio mio. Bevo. E i primi cinque chilometri sono volati via. Insieme a Pennywise.

Bello correre con chi ti dà il tempo. Hai un pensiero in meno. Ho il mio GPS finlandese al polso che mi aggiorna costantemente. Ma i toscani alla mia destra sono più simpatici e dispensano consigli. Ho la mente libera. Le gambe vanno. Bene.

Superiamo di slancio Ponte Marconi, giriamo subito a destra, circumnavighiamo Viale Marconi e a Piazzale della Radio tagliamo il traguardo dei dieci chilometri. Altro rinfresco. Bevo e mangio pure uno spicchio di mela. Non vedo l’ora di riprendere il lungotevere che ci riporta in Prati. Sono nato e cresciuto a Roma Nord. E in quelle zone mi sento fuori luogo. Ci togliamo dalle scatole Testaccio, sbuchiamo su via Marmorata e siamo finalmente sul lungotevere. Percorriamo i quattro chilometri che ci separano da Ponte Cavour in ventiquattro minuti. Di sabato sera, con la macchina, ce ne vogliono molti di più. La considerazione mi strappa un sorriso mentre affronto il terzo ristoro e qualche centinaio di metri dopo giro a sinistra sul ponte da cui si buttava Mister Ok a Capodanno.

Eccoci finalmente a piazza Cavour, una delle mie location preferite, quella del cinema Adriano e del capolinea del 49. Le colonne d’Ercole della mia infanzia. Ci arrivavo con l’autobus. Mi gustavo “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”, “Balla coi lupi”, “JFK”, “Batman” e tanti altri capolavori e poi tornavo a casa, con gli occhi e il cuore pieno di sogni, come Totò Cascio in “Nuovo Cinema Paradiso”.

E poi via Crescenzio, via della Conciliazione. San Pietro che ci osserva da lontano e poi ci accarezza e benedice mentre gli passiamo accanto, con la gente che ci incita e la banda a Piazza Risorgimento che ci accoglie.

A via della Giuliana, incrocio lo sguardo del Signor Mario, il padre di uno dei miei migliori amici, ex-maratoneta. Lo saluto. Mi sorride. Mi incita. Ed è uno stimolo in più a portare a termine la mia sfida.

Superiamo il traguardo della mezza Maratona a viale Mazzini, perfettamente in orario. Come i treni di una volta. Due ore e sette minuti. Esattamente la metà del nostro obiettivo.

“Pensavi me ne fossi andato, eh?!? E invece eccomi qua.”

Pennywise sbuca dal nulla e si infiamma. Leggermente. Ma si infiamma. Lo avverto. Lo maledico. Proprio nel momento in cui comincia la discesa emotiva. Quella in cui i chilometri da fare sono meno di quelli percorsi. Ma tant’è. Nella mia vita, non c’è mai stato un momento di gioia pura senza che un imprevisto arrivasse a macchiarlo un po’. E la Maratona, a quanto pare, gelosa e possessiva come tutte le donne, non vuole essere da meno.

Stringo i denti e continuo. Faccio finta di non ascoltare quel sibilìo fastidioso e continuo aggrappato ai miei pacemaker come Linus alla coperta. Poco prima di arrivare sul lungotevere, un corridore evidentemente alla prima esperienza, si gira cercando conforto e chiede quanto manchi all’arrivo.

“Un paio d’ore, più o meno…”

“Mamma mia…un paio d’ore…”

“Passano gli anni e nun ce potemo fa niente, mo’ voi che nun passano un paio d’ore?!? Dai su, nun ce pensa’!”

In quella risposta, racchiusi come in un Bignami, tutta l’ironia, il cinismo e l’approccio alla vita dei romani.

Sorrido. E il lungotevere mi appare meno difficile. Anche perché quella, ormai, è zona mia. La zona intorno allo Stadio. Dove vado a correre o a passeggiare in bicicletta. Dove vado a prendere un aperitivo con gli amici.

Ponte Duca d’Aosta ci traghetta sull’altro lato di Roma, quello che ci accompagnerà al traguardo. Ma la strada è ancora lunga, Pennywise è lì, che man mano alza la voce, e comincio a sentire un dolore sulle dita dei piedi. Vesciche?

I banchi dei ristori vengono visti ormai come oasi nel deserto. Il cielo è ormai totalmente sereno e la primavera romana è esplosa in tutta la sua bellezza. E in tutto il suo calore. Si suda molto. E l’acqua e i sali minerali sono uno strumento necessario per continuare in questa avventura.

Ad ogni ristoro che passa, mi trattengo sempre un po’ di più. Sembro un irlandese al pub nel giorno di San Patrizio. Bevo un bicchiere d’acqua, uno di sali minerali, prendo due spicchi di mela e mi porto via una bottiglietta d’acqua che mi fa compagnia per circa cinquecento metri. Nel fare ciò, perdo di vista i miei pacemaker che sono più veloci di me nel gestire il ristoro. Allora aumento il ritmo, li riprendo finalmente, non senza difficoltà, all’altezza del ponte di Corso Francia e superiamo insieme il Brunswick Bowling, il locale dove conobbi la mia prima fidanzata.

“Ma non era meglio una partita a bowling, stamattina?”

Tra una vescica subdola e un dolore al bicipite femorale, il quesito esistenziale si impossessa di me. Ed è il primo momento in cui vacillo, mentalmente. Ma non posso permettermelo. Tra poche centinaia di metri c’è la salita di via della Moschea. L’ultimo dislivello bastardo.

Però prima della salita c’è lo spugnaggio che ci permette di rinfrescarci un po’. Mi passo la spugna bagnata sulla testa, dietro al collo. Ed è un piacere quasi onanistico. Ma che non porta nessuna occhiaia.

La salita la supero con passi corti e rapidi. Poi ci sono i Parioli, il Villaggio Olimpico, di nuovo il lungotevere ma in direzione opposta. Costeggiamo per altri quattro chilometri il Tevere e mi rendo conto che, proprio nel punto esatto in cui lo scorso anno crollai, stavolta mi sento bene. Ho testa e, soprattutto, gambe. E anche se i dolori aumentano, il più è fatto. Mancano sei chilometri quando lasciamo il fiume alla sua pigra e bionda esistenza e ci infiliamo a Piazza Navona. L’ingresso nella Piazza ci toglie il fiato e ci emoziona. La gente ci incoraggia. Bambini e anziani. Ragazze e ragazzi. Tutti hanno una parola di incitamento. Usciamo dalla piazza, superiamo Largo Argentina dove tanti anni fa, Giulio Cesare chiedeva “Tu quoque, Bruto, fili mi?” e arriviamo a Piazza Venezia. Di fronte a noi, vediamo gli atleti che stanno scendendo da via Nazionale e sono in dirittura d’arrivo. A noi mancano ancora poco più di quattro chilometri.

E allora eccola a sinistra via del Corso, la via dello shopping che per un giorno si ferma per noi e ci lascia il passo. Quante volte l’ho percorsa da ragazzo alla ricerca di una scarpa alla moda, di un nuovo jeans, del numero di telefono di una pischella che mi aveva sorriso? Comincio ad accusare un po’. Perché meno manca e più ti lasci andare. Più sei convinto di avercela fatta e più le gambe si fanno pesanti. Supero il Parlamento, via Condotti e sbuco a Piazza del Popolo. Ci giro intorno e, come per magia, nello stesso punto dello scorso anno, un signore mi dà lo stesso consiglio di allora. Proprio lì. Come se fosse un dejá vù. Ma non lo è. Ne sono sicuro. Come lui non è lo stesso signore dell’anno prima.

“Alessandro, sorridi!”

Il nome sul pettorale mi identifica. Me lo ripeto anche io. “Alessandro, sorridi!” che manca poco. Ma i sanpietrini di via del Babuino non sono il massimo per i miei piedi doloranti e per Pennywise che si fa sempre più lacerante. È come se avessi una mela piazzata dietro al ginocchio.

Sorrido. E supero Piazza di Spagna senza pensare a quanto è bella e a quante pause pranzo ci ho passato nel corso degli anni. Penso poco. Penso poco anche al dolore. Penso solo al traguardo. A quanto manca. E mentre penso, arriviamo all’ultimo ristoro e al traforo che porta da via del Tritone a via Nazionale.

Una ragazza mi guarda e mi sorride. È carina. Il suo sorriso vale più di due spicchi di mela. Bevo acqua. Ma ormai è fatta. Attraversiamo il tunnel mentre superiamo chi non ce la fa più. Perché il corpo o la testa li ha abbandonati. Camminano, nel buio del traforo. Con la luce alla fine. E sembra una scena di The Walking Dead. Noi corriamo, al ritmo che ci siamo imposti. E che stiamo rispettando. Fino alla fine.

Usciamo dal tunnel e siamo a via Nazionale. Ancora sanpietrini. Ancora per poco, però. Sempre meno. Scendiamo per via IV Novembre e tutta la fatica se ne va. Piano piano. Scacciata via dall’entusiasmo della gente intorno a me e dalla consapevolezza che ce l’ho quasi fatta. Che manca poco per vincere la mia sfida personale.

Arriviamo a Piazza Venezia e a sinistra vedo il traguardo, che quattro ore fa era partenza. Come un porto che accoglie il figliol prodigo di ritorno da un viaggio.

E se mi chiedessero di descrivere una Maratona, la descriverei così: un viaggio all’interno di una città e, soprattutto, dentro se stessi.

Sorrido ai fotografi che immortalano la nostra soddisfazione. Do il cinque ad un bambino che mi dice “Bravo!”. Sorrido mentre taglio il traguardo in quattro ore, quattordici minuti e due secondi. Cinque minuti in meno dell’anno prima.

La medaglia al collo è un momento bellissimo. Così come il Colosseo che accoglie il mio riposo.

Mi sdraio e sorrido ancora. Nonostante i dolori. Nonostante le vesciche. Nonostante Pennywise che non è riuscito nel suo intento.

E penso che si può scegliere di vivere accettando passivamente tutto quello ci capita. O combattere e lottare, per migliorarsi, giorno dopo giorno.

E io ho scelto, da sempre, la seconda opzione. Nella corsa come nella vita.

LA PARTITA CHE RACCONTERETE

Quando gioca la Lazio non vado mai su Fb. E non controllo mai le notifiche di Whatsapp. Anzi, spesso silenzio le chat “laziali” per isolarmi e concentrarmi solo sulla partita. Mercoledì, pero, no. Non ce l’ho fatta. Allibito per quanto stava accadendo al Franchi ho cominciato a cercare conforto, nemmeno fossi Tiziano Ferro abbracciato a Carmen Consoli, interagendo con i miei amici Laziali, con i miei fratelli, con il gruppo della Tevere. E lo schifo era talmente dilagante che in molti, sottoscritto compreso, al goal di Caceres non hanno nemmeno esultato. Perché quello che stava accadendo a Firenze, teatro mai banale ed equamente ospitante di imprese epiche e beffe colossali, stava andando oltre ogni più fervida e complottistica previsione. Soprattutto perché la ferita apertasi nella partita d’andata non si era minimamente rimarginata. Anzi. Era stata malamente lacerata da altri episodi di altre partite con altri arbitri. Un modo di operare chirurgico da far invidia a Sir William Gull, il medico inglese principale indiziato per i delitti di Jack lo Squartatore. Perché quando sei in malafede e sai dove intervenire, è facile trasformare una semplice operazione in un vilipendio.

Il problema è che gli arbitri hanno sbagliato obiettivo. Perché la Lazio non è un cadavere. E perché si sono messi contro la squadra e la tifoseria più stronze della Serie A. Perché mai come quest’anno, la Lazio è una squadra-tifosa e i Laziali sono una tifoseria-squadra. Entrambe fuse in una sorta di connubio calcistico che toglie il fiato e rinasce continuamente dalle ceneri dove vogliono spedirci.

Perché solo una squadra che ragiona come una tifoseria sarebbe in grado di ribaltare una partita come quella di Firenze.

Perché solo una squadra che ha dentro di sé un cuore Laziale può essere in grado di restare agganciata al terzo posto nonostante tutte le nefandezze subite quest’anno.

E anche se ogni tanto cade, come è successo a Salisburgo, poco importa. Anche se fa male. Perché solo chi striscia, non cade mai. Solo chi non fa, non sbaglia.

E questa Lazio di cose ne fa tante. Molte sono belle. Qualcuna meno. Altre sono indimenticabili. Come la vittoria di Firenze, per esempio.

Perché quando tra qualche anno, vostro nipote vi chiederà perché siete della Lazio, voi ve lo metterete sulle ginocchia, gli legherete intorno al collo la sciarpetta, gli accarezzerete i capelli, lo guarderete negli occhi e gli direte:

“Ora nonno ti racconta una storia…era un mercoledì di aprile, l’anno era il 2018…e giocavamo a Firenze…”

E lui capirà.

FIORENTINA-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6: incolpevole sui goal, stringe i denti nel finale simulando un infortunio con la stessa enfasi con cui la moje fa crede al marito de sta a gode’ dopo trent’anni de matrimonio.

Luiz Felipe 6: Veretout lo fa girar come fosse una bambola. Poi lui butta giù. Poi lui butta giù Biraghi. Come fosse una bambola. No ragazzo no, non ci siamo. Oggi più che bravo, Pravo.

De Vrij 6: esce prima perché era pronto er panino cor lampredotto che s’era fatto mette a scalda’ dal paninaro fori al Franchi prima de entra’ allo stadio.

Caceres 6,5: il goal del Raz Degan de noantri mette d’accordo uomini e donne. I primi, per la rimonta completata. Le seconde, “perché…perché…non so perché…sono fatti miei!”

Marusic 7: er piattone de prima con cui serve la palla della vittoria a Luis Alberto è letale come la scureggia fatta in un ascensore pieno appena se so’ chiuse le porte.

Lukaku 6: arrembante e confuso come quer tale che esce la sera pe’ rimorchia’ ma imbocca pe’ sbajo dentro a un centro anziani.

Leiva 6: lucido come la macchina mia dopo che ha piovuto terra. Gioca la solita partita generosa ma perde malamente la palla da cui nasce il terzo goal viola.

Murgia sv: dura meno de un pischello chiuso in bagno cor calendario de Belen.

Milinkovic-Savic 7: ogni volta che scende in campo a Firenze, ripensa a quando, un pomeriggio d’estate di tre anni fa, arrivò nella sede viola accompagnato da Pradè pe’ firma’ er contratto. E co’ la penna in mano, pochi secondi prima de diventa’ un giocatore della Fiorentina, scoppiò in lacrime ripensando al faccione di Igli Tare che je diceva: “Vieni a Formello! ‘Sta Lazio aspetta a te!” Gioca una partita accorta ma dai contenuti tecnici elevati. Soprattutto grazie alla semplicità e all’efficacia del primo tocco di palla.

Luis Alberto 8,5: la punizione che riapre la partita è una pennellata d’autore. Il corner da cui nasce il pareggio è la specialità della casa. Il goal della vittoria contiene l’alfa e l’omega di ogni azione. Con quei capelli, quella barba e quell’espressione che pare sempre stia pensando “mo ve inculo a tutti!” sembra uno di quei personaggi di certi western di Sergio Leone: “Luis, tu il gioco lo conosci…” Bentornato Maestro.

Immobile 6,5: gioca tutta la partita pensando “eppure io sto Vitor Hugo l’ho già sentito da qualche parte!”. Poi quando viene sostituito, tutti pensano che sia incazzato e invece no. Le telecamere lo immortalano mentre urla a Farris: “Miserabili! Ha scritto “I miserabili”! Ecco chi cazz’era ‘sto Vittorio Ugo!”.

Anderson 7,5: l’insostenibile leggerezza dell’essere Felipe. Con le squadre in dieci, trova praterie nelle quali pure Tex Willer farebbe la differenza. Figuriamoci lui. Che ha nei piedi la classe e la felicità per risolvere in ogni momento il match. Non sempre sceglie la giocata giusta ma dà sempre la sensazione di poter spaccare in due il match. Come fa al sessantanovesimo quando scaglia in porta di esterno collo, una sassata che rianima la Lazio come la siringa di adrenalina nel petto di Uma Thurman in “Pulp Fiction”.

Lulic 6: entra al posto de Lukaku e fa la solita finta a rientra’ che oltre al terzino manda in bianco pure er telecronista: “Lulic va sul fondo e cross…anzi no…rientra sul destro…” Perché come lo conoscemo noi, er buon Senad, nun lo conosce nessuno.

Caicedo sv: er tremendo deja vu provato co’ lui al novantesimo, al limite dell’area de rigore Laziale, che calcia via un pallone pericoloso m’ha riaperto vecchie e mai rimarginate ferite del Lazio-Fiorentina d’andata.

Inzaghi 8: la Lazio gioca contro la Viola e soprattutto contro lo scempio perpetrato da Damato. Dopo la ridicola espulsione di Murgia, ridisegna magistralmente la squadra togliendo De Vrij e inserendo Anderson. Poi, dopo il rigore negato a Leiva, inveisce contro l’arbitro che lo manda anzitempo negli spogliatoi. Ma prima di uscire, le telecamere lo immortalano intento a parlare con i suoi ragazzi per dar loro le ultime direttive.

La sua Lazio ha mille vite, palle infinite e un cuore grosso così. E non bastano sei minuti sbagliati in una stagione per cancellare quanto di bello e intensamente affascinante fatto dalla squadra quest’anno. Comunque andrà, i Laziali, quelli veri, sono con te, Mister.

Special guests:

Chiesa 4: sì, per carità, sarà pure forte. Ma se a vent’anni, la specialità della casa è già quella di andare per terra in ogni contrasto e protestare, non andrà lontano. Dai padri, vanno ereditati i lati migliori. Non quelli che ne hanno condizionato la carriera. Giocatore piccolo. Di età. E di statura etica e morale.

Damato 1: quanti ne avete incontrati di personaggi come lui, nella vostra vita? Tanti, vero? Perché di gente come Damato è pieno il mondo. Spocchiosi. In malafede. Presuntuosi e arroganti. Che gestiscono posizioni di potere e vanno avanti al motto di “Lei non sa chi sono io!”. Mette la sua spocchiosa firma nel match più assurdo e falsato che la mia memoria ricordi ma il suo triplice fischio non può che certificare la forza e il carattere di una Lazio mostruosa.

AVANTI LAZIO

AVANTI LAZIALI

UDINESE-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6: c’hanno avuto più da fa’, in panchina, Guerrieri e Vargic a scambiasse i doppioni pe’ fini’ l’album dei calciatori che lui in campo.

Bastos 6: in ritardo sur go’ dell’Udinese ma solo perché durante il pranzo pre partita, quando ha chiesto ar Mister chi se doveva marca’, lui j’ha risposto “tu prendi Lasagna!” e lui allora s’è fionnato de novo sur buffet. E s’è presentato in campo ancora in fase digestiva.

De Vrij 6: Ste’, tu guarda se all’ultima de campionato, a Lazio-Inter, nun te famo cambia’ idea, eh?!?

Luiz Felipe 6: chiude tutti i varchi come er poro Marino quando era sindaco de Roma.

Marusic 6,5: l’uomo più ignorato della storia della Lazio. Lo vedi sulla destra, da solo, sbracciasse come un naufrago der Titanic in mezzo all’oceano. Ma niente. I compagni lo guardano. Je fanno un cenno come a di’ “sì, te la sto pe’ passa’!” E poi la passano a Lulic. Peccato perché ieri era più propositivo der solito.

Luis Alberto 7: decisivo e fondamentale come la mezza piotta che te passava tu’ padre er sabato sera, quando c’avevi diciott’anni.

Murgia 6,5: reattivo, coinvolto e pimpante come quando esci co’ una a cui stai a batte i pezzi da sei mesi.

Leiva 7: è ovunque. Al limite dell’area a interrompere un’azione avversaria. A centrocampo a dirigere la manovra. In attacco a sfiorare il goal. In pratica, è come l’effetto ottico der colonnato der Bernini a San Pietro. Sembra uno ma in realtà so’ tre.

Milinkovic-Savic 6: sotto ritmo come quando ar semaforo scatta er verde e tu stacchi la frizione e riparti. Ma stai in terza.

Lulic 6: l’assist pe’ Immobile è casuale come er numeretto che t’esce sur token quando devi fa’ gli acquisti on line. La cosa migliore della partita la fa quando vorrebbe fa tutt’altro. Come sempre.

Patric 6,5: come Di Maio, mo’ improvvisamente se trova bene pure a sinistra.

Anderson 7: ispirato come Sgarbi davanti a un quadro. Come Cannavacciuolo in cucina. Come Berlusconi in camera da letto co’ la nipote de Mubarak. L’arma letale in questo finale de stagione tutto da vivere.

Immobile 7: co’ un go’ e un assist, se conferma er deus ex machina de ‘sta Lazio. Spacca la partita come quando, a Natale, fai sette e mezzo cor settebello e la matta.

Caicedo sv: entra. Ed è subito giallo.

Inzaghi 7,5: dopo la magnifica partita di giovedì, tutti i Laziali temevano un calo di tensione. Tutti tranne lui. Che punta sulla formazione tipo e la sbilancia ancora di più. Il risultato è l’ennesima vittoria in trasferta e il ritrovato e meritatissimo terzo posto in classifica. Che speriamo domenica prossima diventi solitario. Prima però c’è un quarto di finale da portare a casa.

Special guest:

Cucchi 10: l’eleganza e la semplicità con cui parla della Lazio e con cui fa confessare a Vicari, il centrale della Spal ospite de “La Domenica sportiva”, la propria Lazialità è un bel momento di tv. E conferma ancora una volta di più che non ci fu persona migliore a cui affidare quelle sei parole, il 14 maggio di diciotto anni fa.

AVANTI LAZIO

AVANTI LAZIALI