SPAL-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6: se nun fosse pe’ Wallace e Tagliavento passerebbe ‘na domenica tranquilla. Ner mezzo, il solito paratone che ormai è prassi come tu’ nonna che te regala la mezza piotta a Natale.

Wallace 6: sul 3 a 1 guarda i tifosi della Lazio nel settore ospiti e pensa: “Se so’ fatti tutti ‘sti chilometri e noi famo fini’ la partita così presto?” Detto fatto. Rinvio de merda. Go’ della Spal. E partita riaperta. Almeno fino alla tripletta de Ciro.

De Vrij 6,5: pe’ ‘n allenatore, avecce De Vrij in difesa è come quando scopri de avecce la matta a sette a mezzo. E fai “banco e carta” perché te senti er più forte der mondo.

Radu 6: se mette d’accordo co’ Tagliavento pe’ fasse ammoni’, squalifica’ e salta’ er Chievo perché er 21 c’ha er concerto de Cristina D’Avena e i Gem Boy a Trevignano e nun lo salterebbe pe’ niente ar mondo.

Basta 6: partita da ventennio. Qualche errore ma “ha fatto anche delle cose buone”. Come l’assist per Ciro, per esempio.

Lukaku 7: lui è er torrone al cioccolato che sotto le feste nun po’ manca’ mai. Er Tartufone. Er gelato al cioccolato de Pupo e Malgioglio. È ‘na spina nel fianco della difesa della Spal. “E meno male che è solo nel fianco” pensa Lazzari tutte le volte che viene puntato dal nostro amico Jordan.

Leiva 5: sempre più convinto che co’ Gonalons al posto suo, ‘sta squadra sarebbe prima in classifica. Vabbè, dai, stavo a scherza’. 7: pilastro insostituibile come quelli della Salerno-Reggio Calabria.

Parolo 6: meno lucido del solito. Non brilla perché un po’ brillo. Tutta colpa de quello spumantino portato da Manzini, riciclato da un regalo de Natale pe’ Luciano Spinosi nel lontano 2001.

Milinkovic-Savic 7: sull’assist per Immobile è come Muhammad Alì: “vola come una farfalla e punge come un ape”. Resiste alla carica dell’avversario e inventa uno spazio che Luis Alberto subito dopo je fa: “Ah stronzo, quell’assist li posso fa’ solo io!”

Luis Alberto 9: se sull’azione del goal, gli oscurate il viso, si potrebbe pensare che si tratti di Zinedine Zidane per l’altissimo tasso di classe, eleganza e leggerezza nel tocco di palla. L’assist per Immobile apre invece un capitolo cinematografico. Ne “Il mio amico Eric” di Ken Loach, quando Eric Bishop chiede al suo idolo Eric Cantona quale sia stato il suo gesto tecnico migliore in carriera proponendogli una serie di goal fantastici, Cantona lo guarda e gli risponde con quel sorriso così francese e così solo suo: “Non è stato un goal ma un passaggio…” A Denis Irwin contro gli Spurs. E quando Eric gli chiede cosa sarebbe successo se Irwin avesse sbagliato quel goal, The King risponde “Devi sempre avere fiducia nei tuoi compagni. Altrimenti tutto è perduto”. Ecco, l’assist di Luis Alberto a Immobile è identico nel gesto ma più veloce nei giri del pallone. E proietta il giocatore spagnolo nel gotha di quei giocatori che il calcio non lo vedono. Ma lo anticipano e lo indirizzano. Magari un giorno, rispondendo alla stessa domanda fattagli dal nipotino, un ormai anziano Luis risponderà: “Non è stato un goal ma un assist…al mio amico Ciro…che giocatore Ciro, uno di cui potevi fidarti perché si buttava sempre nello spazio e io amavo inventare spazi per lui…giocavamo a Ferrara…sai dov’è Ferrara, tesoro mio?” Fenomeno assoluto.

Immobile 10: pare che la sera prima in ritiro, Milinkovic j’abbia bussato alla porta insieme a Radu e Manzini e j’abbia chiesto: “Ciro, te va un pokerino?!” E lui, professionista come Toninho Cerezo a Capodanno, pare j’abbia risposto: “No, grazie, me lo tengo pe’ domani!” Segna quattro go’ uno diverso dall’alto, se porta a casa er pallone e si conferma il miglior centravanti in Italia.

Anderson, Lulic, Luiz Felipe 6: determinanti come i Re Magi sur Presepe er 6 gennaio sera.

Inzaghi 9: ha trasmesso a questa squadra quella tigna e quel veleno che ogni tifoso Laziale chiedeva. La sua Lazio è un perfetto mix di tecnica, bullismo, grazia, consapevolezza e cinismo. Ogni altro commento sarebbe superfluo. Questa Lazio va amata e va seguita. Nulla più. Chapeau.

Tagliavento 2: più antilaziale de Max Leggeri il 26 maggio, fa un all in de zozzerie che la metà basterebbero pe’ rovina’ er campionato a ‘na squadra. Ma ‘sta Lazio è più forte pure de lui. E lui, come tanti quest’anno, se la pija riccamente ‘nder culo.

AVANTI LAZIO.

AVANTI LAZIALI.

IO HO AMATO PAOLO DI CANIO

Io ho amato Paolo Di Canio.

O, almeno, l’ho amato fino al momento in cui la penna che ha tracciato il cerchio del suo Destino ha ricongiunto, in un prepotente e magico incrocio, l’inizio con la fine.

Per proseguire, poi, in modo svogliato verso la sbavatura finale. Ma quella, in fondo, è un’altra storia.

Penso a lui e mi viene in mente la Bic Multicolore. Quel pennone bianco e azzurro con le quattro mine di diverso colore che andavano di moda tra gli alunni degli anni ottanta e novanta. Quelle che si usavano per lasciare dediche sui diari degli amici e, soprattutto, delle amiche.

Penso ai colori della penna e rivedo la sua carriera.

Bianca e azzurra la base, la Lazio, la sua fede, poi la Juve e la mina nera, il Napoli e la mina blu, il Milan e le mine nera e rossa, il Celtic e la mina verde, lo Sheffield e la mina blu, il West Ham e le mine blu e rossa, il Charlton e la mina rossa, la Lazio e il ritorno a casa.

A chiudere il Cerchio.

Mi immagino la Bic che scrive lenta e sicura. Come un Giotto del Destino. Ci mette sedici anni a finire il giro. Ma il risultato finale è perfetto e ironico. Beffardo e istrionico.

È una domenica di metà gennaio dell’ultimo anno degli anni 80, quando la Bic comincia a scrivere.

Tra qualche mese, Raf si chiedere cosà resterà di quegli anni. Il giorno prima, mio fratello e io abbiamo comprato il Subbuteo per la modica cifra di sessantamila lire con i soldi faticosamente vinti a sette e mezzo e alla tombola durante le solite feste natalizie.

Quella domenica, a Roma, c’è il Derby.

La Lazio è una neopromossa. La Roma, una squadra poco più che mediocre. Ma loro sono, da sempre, in serie A pur non vincendo un granché. Un pò di differenza c’è.

La Lazio, invece, viene da anni difficili: il calcio-scommesse, la retrocessione in serie C1 successivamente trasformata in una permanenza in B con una penalizzazione di nove punti, gli spareggi a Napoli con Taranto e Campobasso, la salvezza grazie al gol di Fabio Poli e, l’anno dopo, finalmente, il primo raggio di Sole dopo tante nuvole. Uno spiraglio. La promozione in serie A.

Sembrano cose normali. Drammi sportivi come se ne sentono spesso. Ma acquistano molta importanza se a viverli è un ragazzino di tredici anni e mezzo.

Eh già, proprio tredici anni. E mezzo. Perché a quell’età si fa di tutto per sembrare più grandi.

Io sono della Lazio. Da sempre. Per merito di mio papà e del mio fratello maggiore. Ma essere tifoso della Lazio per quelli della mia generazione non è facile.

Ma fortifica.

Crescere tifando una squadra in serie B è difficile.

Ma fortifica.

Stare in classe con ragazzini romanisti cresciuti con lo Scudetto giallorosso dell’ottantatre, non è facile.

Ma fortifica.

Avere come idoli Magnocavallo e Vinazzani, Batista e Beruatto mentre i tuoi amici impazziscono per Falcao e Di Bartolomei, Bruno Conti e Pruzzo, non è facile.

Ma fortifica.

Vedere i propri giocatori stampati piccoli e doppi sulle figurine Panini e chiedersi perché, non è facile.

Ma fortifica.

Ed è anche per quello che la Bic comincia a scrivere.

Perché quella Lazio, infarcita di giocatori mediocri, quel giorno di gennaio, forse, pensa a tutti quei ragazzini di tredici anni e mezzo sbeffeggiati da sempre.

A tutti quelli che si sono sentiti dire almeno una volta, quell’anno: “Quest’anno ai derby, so’ cazzi vostri. Con voi, so’ quattro punti sicuri.”

La Lazio, per il suo ritorno in A, ha pescato in Argentina e Uruguay i tre stanieri che le competono: due si riveleranno dei bidoni, Dezotti e Gutierrez, uno, Ruben Sosa, scriverà discrete pagine nei campionati a seguire.

A quella squadra, si è aggiunto qualche giovane promettente della Primavera che comincia a fare capolino in prima squadra.

Uno di questi è Paolo Di Canio dal Quarticciolo, quartiere periferico nella periferia sud-est di Roma, classe sessantotto, anno di rivolte e cambiamenti, la stessa di mio fratello maggiore.

Quel giorno, il quindici gennaio, Di Canio è in campo con la maglia numero nove. La stessa di Silvio Piola, Giorgio Chinaglia e di Bruno Giordano. Quella dei più grandi bomber biancocelesti.

Paolo Di Canio aveva tredici anni e mezzo solo sette anni fa. Lui sa cosa significa.

Il mio amico Guido, compagno di terza media, romanista fino al midollo, mi chiamerà a fine partita per prendermi in giro. Dopo il sicuro trionfo giallorosso. Me lo ha ripetuto per tutta la settimana.

Io e mio fratello piccolo abbiamo montato il Subbuteo sul tavolo in salone. Simuliamo anche noi il Derby. Io, per motivi di età e, quindi, di prepotenza, ho preso la Lazio. A lui tocca la Roma. Ma, fortunatamente, queste imposizioni calcistiche, non influenzeranno la sua fede negli anni successivi. Per rendere il tutto più simile allo Stadio Olimpico, sulla sedia alle spalle della mia porta, ho legato una sciarpa biancoceleste. Dall’alto dei miei tredici anni e mezzo, rendo omaggio agli Eagles Supporters e alle loro coreografie. Come in ogni Derby che si rispetti.

La Tv è accesa su “In campo con Roma e Lazio”, mitica trasmissione domenicale trasmessa su TeleRoma 56 e condotta dall’altrettanto mitico Lamberto Giorgi, fratellone dell’Eleonora attrice, la moglie di Massimo Ciavarro.

La cronaca è a due voci, una laziale e una romanista, che si alternano in base agli attacchi delle rispettive squadre.

La partita è brutta. Figlia della mediocrità in campo e della paura di perdere. Mio fratello e io, neofiti del Subbuteo, riusciamo a fare di meglio sul tappeto verde steso sul tavolo del salotto.

È in quel momento, però, che entra in azione la Bic.

La Lazio attacca verso la Curva Sud, feudo giallorosso anche se dimezzato dai lavori per la ristrutturazione dell’Olimpico in vista dei Mondiali alle porte. Antonio Elia Acerbis infila una palla in profondità per Ruben Sosa. L’uruguagio, dal lato sinistro dell’area di rigore, si coordina e, senza guardare, mette una bella palla in mezzo.

Di Canio arriva puntuale all’appuntamento con la sua Storia con lo stesso entusiasmo e la stessa veemenza con cui un ragazzino innamorato si presenta al primo appuntamento importante con una ragazza. E l’incoscienza è la stessa.

La palla rimbalza un paio di volte. Giusto il tempo per rendersi più addomesticabile.

Un po’ come la ragazza che allarga le gambe sulla panchina dei giardinetti per farvi sentire meglio la voglia che ha di voi.

La botta è forte. Secca. E si infila tra il primo palo e Tancredi, portiere di tanti trionfi romanisti, che nulla può su quella palla guidata dal Destino.

E disegnata dalla Bic.

Il telecronista giallorosso, che sta raccontando l’azione, ammette il gol in modo quasi silenzioso. E, poi, dignitosamente, si eclissa.

Lo speaker biancoazzurro irrompe in modo brasileiro:

“GOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOLLLLL!! PAOOOOOOLO DDIIII CAAAAANIIIIIIOOOOOOOOOO!!!!!”

Paolo prosegue la sua corsa sotto la Curva giallorossa. Il braccio è alzato in segno di sfida. L’indice lo evidenzia Re per un pomeriggio. E lo immortala in un fotogramma eterno.

È lui contro i tifosi della Roma.

A ventun’anni, fa quello che molti giocatori più navigati di lui non hanno mai avuto le palle di fare in tutta la carriera. Lo guidano, nel gesto, l’incoscienza e la golardia di chi ha passato i pomeriggi interi a giocare a pallone con gli amici sotto casa, in tornei estenuanti e senza fine. Quando una serranda era la porta dello Stadio Olimpico e l’asfalto era bello come il prato di Wembley. Io e mio fratello, confusi dall’alternanza di voci, esitiamo un attimo. Ma è solo un attimo. Poi è solo un misto tra tripudio e sofferenza. Scaramanzia e speranza. In attesa del fischio finale. Che arriva. Ed è un’emozione mai provata prima.

La mia polluzione da tifoso. Giunta, più o meno, nello stesso periodo di quella da ragazzino. Come tutti i vincitori, mi siedo in riva al fiume e aspetto la telefonata di Guido. Che, puntualmente, non arriva. E allora godo prendendo in mano la cornetta, prima di cena. Il telefono è di quelli a disco. Non bisogna fare nessun prefisso per chiamare a cinquecento metri di distanza. Mi risponde il papa’ di Guido, laziale come me. Che sorride consapevole.

“Ciao Alessa’, vuoi Guido, vero? Ora te lo passo….” Sorride lui.

“Si, grazie, arrivederci…” Sorrido io.

“Ciao Gui’, come va?”

Non proferisce parola. Mi attacca il telefono in faccia. Io sorrido e lo capisco. Ma aspettavo quel momento da anni. E godo. Paolo Di Canio gode con me. E con tutti i ragazzini laziali di tredici anni e mezzo come me.

Sono passati sedici anni esatti da quel giorno di gennaio.

È il sei gennaio duemilacinque. Il giorno della Befana.

C’è il Derby.

Il Subbuteo, molti ragazzini non sanno nemmeno cosa sia. E anch’io, lo ammetto, gli preferisco “Winning Eleven” sulla Playstation 2.

Ho ventinove anni. Tra sei mesi ne faccio trenta. Ma ho ancora ventinove anni.

Ne è passata di acqua sotto il fiume dei vincitori in questi anni. Guido l’ho perso di vista.

La Lazio ha vinto lo Scudetto e, poi, come un Icaro finanziario, ha rischiato il fallimento per aver voluto volare troppo vicino al Sole. La Roma ha vinto lo scudetto l’anno successivo. E pure lei, ora, non se la passa cosi’ bene.

Sono diventato un manager e gestisco il più importante negozio italiano della mia azienda.

Il mio Papà non c’e’ più. Se n’è andato due anni fa. Forse, ora, sarebbe soddisfatto di quel suo figlio così diverso da lui. Ma non è riuscito a vederlo. Mio fratello più grande si è sposato e poi ha divorziato. Quello più piccolo è quasi un uomo. Per strada, i ragazzini non giocano più a pallone. A tredici anni e mezzo, ora, molti hanno avuto già i primi approcci con il sesso. Le ragazzine non hanno più i brufoli. Ed è più facile diventare famosi senza fare niente per cento giorni dentro una casa, ripresi dalle telecamere, che studiare e impegnarsi per diventare un buon attore o un buon giornalista. Ma tant’è.

Sono passati sedici anni e Paolo Di Canio non l’ho mai perso di vista. Per vari motivi. Non sempre positivi.

Se ne andò male.

C’è chi dice che fu venduto a forza dall’allora Presidente Calleri.

Fatto sta che la frase “Meglio essere uno qualsiasi nella Juve che una bandiera della Lazio” -la pronunciò lui e non Calleri.

Per questo l’ho anche odiato. Ma l’odio e l’amore sono sentimenti simili. Da avversario, quando venne a giocare con il Napoli all’Olimpico, fu anche bersaglio del coro “Di Canio come Lionello”. Quel Lionello Manfredonia, difensore eccelso, che osò passare dalla Lazio alla Juve e poi alla Roma, e che durante un Bologna-Roma venne colpito da un infarto.

Nella Juve, Di Canio non lasciò traccia. Un po’ per colpa sua, un po’ per colpa di un progetto fallimentare che morì sul nascere. Litigò con Trapattoni e gli diedero il benservito al Sud.

Arrivò a Napoli e lì, complice il buon lavoro fatto da un allenatore esordiente di nome Marcello Lippi, risorse per la prima volta e stregò più di una volta il San Paolo.

Berlusconi si innamorò di questo ragazzo talentuoso e sfrontato e lo portò alla corte rossonera dove, però, chiuso da fuoriclasse di livello mondiale, ebbe poco spazio, e dove riuscì a litigare, anche lì, con il mister durante una tournè estiva.

Conclusa l’avventura italiana, emigrò in Scozia, dove, con la maglia dei Celtic di Glasgow fece meraviglie grazie alle quali venne eletto miglior giocatore del campionato.

Subì, poi, il fascino della Premier League, ma la scelta di andare a giocare a Sheffield, sponda Wednesday non si rivelò felice. Alti e bassi che culminarono con una lunga squalifica per il famoso spintone all’arbitro.

Terminata in malo modo l’avventura a Sheffield, scelse la tranquilla vita di periferia a Londra e abbracciò i colori celeste e amaranto del West Ham. Lì, risorse di nuovo. Vinse il premio Fair Play e ricostruì la sua immagine anche grazie a gol spettacolari e ad atteggiamenti da vero leader. Si parlò anche di un interessamento del Manchester United. Sir Alex Ferguson rivedeva in lui, per classe e carisma, un nuovo Eric Cantona. Ma nulla si concretizzò e lui firmò per il Charlton Athletic. Ultima tappa prima del ritorno a casa.

Io, intanto, crescevo e accumulavo ricordi e gadget. La sua maglia del West Ham. Quella del Charlton. La sua biografia in lingua originale. Il VHS dei suoi goal con il West Ham. Sperando sempre nella parabola del figliol prodigo che tornava a ridare splendore a quei colori che, in modo lento ma inesorabile, stavano morendo.

L’estate duemilaquattro, infatti, stava per segnare la fine di una Storia gloriosa e ultracentenaria. La Lazio, infatti, visse la fase più brutta della sua storia recente e rischiò il fallimento. Per me sarebbe stata la fine di tutto. L’andropausa prematura del mio essere tifoso.

Mai avrei voluto fare la fine dei tifosi della Fiorentina e del Napoli, costretti a tifare, per alcuni anni, per la “Florentia Viola” e per il “Napoli Soccer”.

Mai avrei voluto vedere, in serie c2, le partite della “Aquile Biancocelesti Football Club”. Volevo continuare a vivere da tifoso la mia passione. In modo ininterrotto. Senza reset.

Ma dove non arriva il cuore, arriva la politica. E Claudio Lotito, un piccolo imprenditore specializzato in pulizie, su “consiglio” di Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, rileva il pacchetto di maggioranza della società e la salva da morte sicura.

La Lazio squadra, però, non esiste quasi più.

Roberto Mancini, l’allenatore, l’ha abbandonata dopo la vittoria della Coppa Italia. C’è da scegliere un nuovo tecnico e ricostruire la rosa. È tardi, però, per fare affari e la nuova dirigenza può e deve accontentarsi di un manipolo di mestieranti presi all’ultimo giorno di mercato. Tra tanti sconosciuti, brilla il nome di Tommaso Rocchi, promettente punta proveniente da un buon campionato nell’Empoli. Serve qualcosa di diverso, pero’, per accendere di nuovo la fantasia dei tifosi. Per ridare entusiasmo ad un ambiente demoralizzato. Serve il ritorno del figliol prodigo. Il ritorno di Paolo Di Canio.

Mi immagino la firma del contratto con la Bic che scrive sorridente e sicura.

Sicura di poter chiudere, dopo sedici anni, finalmente, il suo Cerchio.

È il giorno della Befana, oggi.

Per la nuova Lazio di Lotito, finora, solo carbone. Il campionato ha effettuato la lunga sosta natalizia. La Lazio, dopo la sconfitta a Udine nell’ultima giornata del duemilaquattro, ha esonerato il tecnico Mimmo Caso, troppo inesperto e senza polso per gestire una situazione difficile come quella. Al suo posto, viene scelto un altro ex giocatore biancazzurro, quel Giuseppe Papadopulo che, con la sua grinta e il suo carattere, ha portato il Siena in serie A. Il sei gennaio del duemilcinque, Papadopulo esordisce nel derby. Ma su quella panchina, quel giorno, ci può stare anche Mister Magoo. L’importante è che Paolo Di Canio sia in campo. Il resto non conta. La Lazio, poi, non è cosi’ scarsa come la classifica lascia intendere. Ci sono giocatori del calibro di Peruzzi, Couto, Zauri, Oddo, Giannichedda, Liverani, Dabo, Cesar, Rocchi, Pandev e, ovviamente, Di Canio. Ma ha un male oscuro dentro che la divora. E la trascina giù in classifica tra pochi alti e molti bassi.

Quel giorno, però, succede qualcosa.

Sono cresciuto, ormai. Sono un uomo. E posso permettermi un abbonamento in Tribuna Tevere. Insieme a mio fratello. Quello piccolo. Il mio sparring partner a Subbuteo di tanti anni fa.

Sono anni che non vedo più “In campo con Roma e Lazio”. Il mitico Lamberto Giorgi, però, è sempre lì, al suo posto. La sorella non recita quasi più e si limita a fare la produttrice. I ragazzini non sanno nemmeno chi sia. Né lei né Massimo Ciavarro.

La partita va in notturna su Sky. Fa freddo. Il cielo è stato tutto il giorno bianco e azzurro. Vorrà pur dire qualcosa. La Befana sta preparando le calze per la sera. Di Canio è in campo con la maglia numero nove. La stessa di sedici anni fa. È la sua notte. L’ha preparata nei minimi dettagli. Cene cameratesche per far gruppo e battutine polemiche contro il Pupone, idolo e capitano avversario. Pupone fa rima con carbone. Le calze, quella sera, sono già assegnate. Ma i giallorossi non lo sanno. La partita è brutta. Tirata. Se l’avessimo giocata io e mio fratello a Winning Eleven, sarebbe venuta meglio.

Poi, però, entra in azione la Bic. Come tanti anni fa.

La Lazio attacca sotto la Sud. Fabio “Dottor Jekyll” Liverani, cervello bianoceleste e cuore giallorosso, addomestica a centrocampo un pallone vagante e, di prima intenzione, come solo lui sa fare, lancia in profondità Di Canio che scatta sul filo del fuorigioco e si infila tra i due difensori giallorossi in ritardo.

“BELLA PALLA DI LIVERANI PER DI CANIOOOO…” racconta alla radio, uno speranzoso Guido De Angelis, voce simbolo del popolo laziale.

La palla di Liverani è perfetta e muore appena poco dentro l’area di rigore. Mexes e soci sono in ritardo. Pelizzoli accenna, sbagliando come gli succede spesso, l’uscita e rimane piantato a metà, sul dischetto del rigore.

In tribuna, tutto appare più lento. Quasi un replay in diretta.

Di Canio colpisce al volo.

Ma non è più il ragazzino al primo appuntamento che non vede l’ora di arrivare al sodo.

È un uomo di trentasei anni.

Adesso sa come si accarezza un pallone. Come si tocca una donna. Non ha bisogno di forza e irruenza.

Basta saper toccare i punti giusti. Per farle fare quello che si vuole. Ed il tocco è dolce. Liftato.

La palla si lascia accarezzare volentieri.

Un po’ sposa e un po’ puttana. Come cantava Jovanotti anni fa.

Pellizzoli viene scavalcato in tutto il suo metro e novanta.

La palla gode in fondo al sacco.

Il primo orgasmo non si scorda mai.

Quello è il primo di tre di una notte magica.

Ma è indimenticabile.

“GOOOOOOOOOOLLLLL!!!!!!!!!GOOOOOOOOOOL!!!… PAOLETTO MIO…TE VOJO BENE, PAOLE’…PAOLE’, TE VOJO BENE…ANCORA ‘NA VOLTA…J’HAI FATTO MALE ANCORA ‘NA VOLTA… J’HAI FATTO MALE PAOLE’……PAOLE’ J’HAI FATTO MALE… PAOLE’ J’HAI FATTO MALE… PAOLE’ J’HAI FATTO MALE… PAOLE’ J’HAI FATTO MALE…PALLONETTO DI PAOLO DI CANIO SOTTO LA CURVA SUD COME QUINDICI ANNI FA…”

Le parole di un Guido De Angelis stravolto sono i pensieri dei quarantamila laziali allo stadio e di tutti quelli davanti alla tv o alla radio. Diventeranno la colonna sonora della partita.

Di Canio va verso la Sud. Si ferma ai cartelloni pubblicitari. Allarga le braccia e si mostra agli avversari. Sembra dire: “Sono stato io…vi ricordate di me?”

Io mi ritrovo dieci file più su. E poi quindici file più giù. In una coreografia spontanea, anarchica e catartica. Mio fratello non so dove sia finito. Lo ritrovo solo due minuti più tardi, accanto a me. Il viso stravolto. Gli occhi al cielo a ringraziare il Destino. I pupazzetti del Subbuteo sono tutti rotti. Schiacciati dai nostri piedi impazziti. Alla Playstation, un gol così non sono mai riuscito a farlo.

La partita finisce tre a uno per noi. Dopo il momentaneo pareggio di Cassano, Cesar e Rocchi chiudono il conto in una notte indimenticabile. A cinque minuti dalla fine, il Mister concede la giusta passerella al trionfatore della serata.

Mentre esce tra gli applausi dei suoi tifosi e gli insulti della sponda opposta, si rivolge verso la tribuna Monte Mario e fa il segno del tre.

Tre frecce che colpiscono nel segno.

Il greco Dellas, nella Roma, è l’unico che prova a interrompere il suo show. Il Pupone e gli altri restano a guardare.

La Bic ha quasi finito l’inchiostro.

Il Cerchio è chiuso.

L’arbitro fischia la fine. Lo stadio sfolla.

Mi resta il ritorno a casa.

Il clacson dello scooter in continua sollecitazione e, in bocca e sulla pelle, il dolce sapore della vittoria.

Per una notte, solo una notte, sono stato contento e orgoglioso di avere ventinove anni e mezzo.

Anche, e soprattutto, per questo, io ho amato Paolo Di Canio.

LAZIO: IL PAGELLONE DEL 2017

Strakosha 8: come quando rivedi er fijo de ‘n amico tuo dopo ‘n anno e je fai: “Ammazza quanto sei cresciuto!” Dall’esordio a San Siro al rigore parato a Dybala, un anno in cui Thomas ha fatto più passi da gigante che Gulliver in quel di Lilliput.
Vargic 6: è quello che te porti a gioca’ a calcetto in porta quando te manca uno. Quello che gioca coi pantaloni della tuta e le Air Max. Quello che “sì, ma rimediateme un par de guanti”. Quello che te fa perde la partita all’ultimo minuto perché la palla je passa in mezzo alle gambe. Quello che nonostante tutto, je voi bene perché te racconta le barzellette mentre te stai a fa’ la doccia dopo la partita.
Wallace 6,5: più de tre mesi in infermeria. E meno male che se chiama Fortuna.
Luiz Felipe 6,5: colui che era famoso pe’ esse er Mauro Repetto de Mauricio nei selfie è diventato ‘na valida alternativa al pacchetto difensivo della Banda Inzaghi.
De Vrij 7,5: possiede er senso della posizione de tu’ madre quando te doveva mena’ cor mattarello e la seraficità de tu’ nonna quando co’ ‘na cartella sola faceva ambo, terno, quaterna, cinquina e tombola. Mezzo voto in meno per il rinnovo che nun arriva.
Radu 8: “L’eterna giovinezza dona a Radu, oh Simone. Risplenda in esso, la Lazialità perpetua. Che giochi in pace. Amen.”
Bastos 6,5: alterna prestazioni eccellenti e goal decisivi a errori che manco er peggior Oscar Lopez. ‘Na via de mezzo, no?
Basta 6: gli anni passano, gli acciacchi aumentano ma il soldato Dusan offre sempre la sua solita prestazione di razza. Ariana.
Marusic 7: er solito acquisto de Iglone. Nun je dai ‘na lira e poi te lo ritrovi titolare pe’ i prossimi dieci anni.
Parolo 7: er fidanzato che tutte le mamma Laziali vorrebbero per le loro figlie.
Murgia 7: er go’ decisivo in Supercoppa vale come er lasciapassare pe’ Fracchia in “Fracchia la belva umana”.
Leiva 8:  se le squadre le facessero i tifosi, la maggior parte di esse retrocerebbe più veloce del Benevento. “Nun è er sostituto de Biglia”, “è finito!”, “se era bono, er Liverpool lo dava a noi?!” Meno male che nun ce capite un cazzo. Lucas Leiva non è solo un giocatore eccellente. Lucas Leiva è la dose di carisma e personalità che mancava a questa squadra.
Milinkovic-Savic 8: forse il giocatore che incarna più di tutti quello che è la Lazio di Simone Inzaghi. Una crescita mostruosa per un giocatore che pare troppo più forte degli altri per essere vero. Tecnica, fisicità e quella spavalderia che lo mettono già nell’anticamera del fuoriclasse. Nei Derby di Coppa Italia raggiunge il suo picco. Ma pare ce sia qualcuno, a Roma, che dice sia più forte Pellegrini. Pellegrini. Pellegrini. Pellegrini. Pellegrini. Ahahahahahahahahahahahahahahahahaha.
Lulic 8: l’unico giocatore che se va dallo psicologo, manda in analisi lo psicologo stesso. Colui che gioca a sinistra ma te lo ritrovi a crossa’ a destra. Colui che se coordina al contrario. Che se fosse un omino der calcio-balilla c’avrebbe ‘na stecca solo pe’ lui pe’ pote’ fa’ come cazzo je pare. L’uomo del 26 maggio e del 26 dicembre. Il Capitano. Una leggenda vivente del calcio romano.
Lukaku 7: dell’anno di Jordan ricorderemo lo stupro su De Sciglio all’ultimo secondo in Supercoppa e le grida di dolore di Lombardi a Benevento: “Se nun me venite a dà ‘na mano, io questo nun lo reggo!” Fisicamente di un altro pianeta, Jordan Lukaku se fosse un porno, sarebbe il protagonista del remake hard di un classico di Aldo, Giovanni e Giacomo: “Un uomo e tre gambe”.
Luis Alberto 7,5: inversamente proporzionale al Fabbris de “Compagni di scuola”. Lui è come quella compagna de classe tua che in seconda media nun se poteva vede, piatta e coi brufoli, e che all’inizio della terza media te la ritrovi pezzo de fica, co’ la pelle de seta e ‘na terza de seno. E più la guardi, più te innamori.
F. Anderson 6,5: l’amico ritrovato.
Bruno Jordao e Pedro Neto ng: loro so’ come i ragazzini de “Stranger Things”. Imprigionati nel sottosopra de Formello in attesa che Manzini li liberi.
Nani ng: pensa se avesse giocato pure lui ‘ndo cazzo stavamo.
Caicedo 6,5: accolto con il solito scetticismo dagli stessi che dicevano che co’ Leiva ce facevamo la birra, se dimostra più utile lui de tanti tifosi da tastiera.
Immobile 8,5: Monchi de qua. Monchi de là. Ma il vero colpo di mercato per il calcio romano, Monchi lo ha fatto quando stava ancora a Siviglia. Regalandoci praticamente quello che è per le generazioni moderne, il Beppe Signori dei ragazzini che fummo. Il bomber sgobbone che nun molla mai. Come la Lazio. Come i Laziali.
Inzaghi 8: quando  Lotito, un anno e mezzo fa, je fece fa’ marcia indietro mentre stava a paga’ er casello a Salerno, nessuno sarebbe stato in grado de immagina’ quello che sarebbe successo. Nessuno, tranne lui: Simone Inzaghi. Non più “Inzaghino”. La sua Lazio è un perfetto mix di tecnica, grinta e Lazialità. Se a gennaio je comprassero pure un mezzo chilo de cinismo, le cose sarebbero ancora più interessanti.

BUON ANNO LAZIO.
BUON ANNO LAZIALI.

LAZIO-FIORENTINA: LE MIE PAGELLE

Strakosha 7: la parata su Chiesa nel secondo tempo è monumentale. Come e più di quella del 2 giugno per la Festa della Repubblica.

Bastos 6: il problema suo è che se crede de esse Thuram. Se se limitasse a fa’ Bastos, andrebbe più che bene.

De Vrij 6,5: se guarda Babacar e je fa: “scusa, secco, ma io preferisco Uber. Cor carpooling che offrite voi, me so’ sempre trovato male.”

Radu 7: 26 dicembre, Santo Stefan.

Basta 6,5: gioca’ sul lato de Bastos è come quando uscivi er sabato sera e te portavi appresso tu’ fratello piccolo. E tu’ madre te diceva: “Me raccomando, pensace te…”

Lulic 10: il 26 di ogni mese dovrebbe essere dedicato a San Senad, il Santo protettore della Coppainfaccia. Fa tutto. Segna. Imposta. Lotta. Sbaja. Ma c’è. Ed è ovunque. Pure dove nun dovrebbe sta. Ma Senad è così. L’anarchia al potere. La variabile impazzita in un’equazione perfetta. La pallina matta in mezzo ad una cristalliera. Andrea Diprè ad un ricevimento a Buckingham Palace.

Leiva 6,5: lui è quell’amico tuo coscienzioso che quando vai a balla’ nun beve perché “sennò chi guida al ritorno?”

Parolo 6: meno lucido del solito. Ma pare che Manzini, ar posto degli integratori, c’abbia messo er prosecco nelle borracce.

Milinkovic-Savic 6: al decimo del primo tempo, dopo ave’ mandato in porta Lulic sente chiama’ il “21” dalla panchina e pensa de esse stato sostituito. E invece è Manzini che sta a fa’ ‘na tombolata co’ Murgia, Nani e Palombi. Da quel momento, smette de gioca’ e prende du’ cartelle pure lui.

Anderson 6: lui il panettone ce l’ha in testa, al posto dei capelli. Nel primo tempo è immarcabile. Nel secondo, complice er torrone rumeno portato da Radu, rientra appesantito e non riesce a fa’ la differenza.

Caicedo ng: la verità è che nun s’è fatto male. La verità è che doveva anda’ a cambia’ un regalo che j’aveva fatto Nani e c’aveva paura che Euroma2 chiudesse.

Immobile 6,5: quando esce Caicedo sbrocca, perché annava pe’ uno e ha dovuto lascia’ le cartelle a Luiz Felipe.

Lukaku 6: er fijo de Inzaghi pare j’abbia chiesto pe’ Natale un paio de Jordan e Inzaghi pare j’abbia risposto: “Io de Jordan ce n’ho solo uno e domani me serve pure! Quindi accontentate de un paio de Adidas”.

Inzaghi 7,5: Winston Churchill di lui direbbe “mi piace Simone Inzaghi. Gioca ogni partita di Campionato come fosse una finale di Champions e gioca ogni partita di Coppa Italia come fosse una partita di Campionato”. Non molla un cazzo. Mai.

AVANTI LAZIO.

AVANTI LAZIALI.

LAZIO-CROTONE: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6,5: tra una parata e una giocata azzardata coi piedi, trova er tempo de organizza’ ‘na partita a “Il mercante in fiera dell’Est” co’ Tare, Basta e Marusic. E co’ Manzini che pe’ vole’ partecipa’a tutti i costi s’è spacciato per un certo “Maurizio il serbo”, criminale pericoloso ricercato pe’ tutta Formello.

Patric 6: arrembante e poco lucido come quei regazzini che vanno in discoteca pe’ la prima volta e vorrebbero limona’ co’ tutte le pischelle che je passano davanti. Indipendentemente dal fatto che siano esse buste de fave o pezzi de sorca.

De Vrij 6,5: “ci vuol talento per chiamarlo amore, se chiudi gli occhi ti scoppia il cuore. E allora resta, resta cu ‘mme…”

Wallace 6: spaesato e impacciato come un anziano a cui hanno appena tolto er cantiere.

Marusic 6: se magna un go’ a porta vota che è tipo quando esci co’ una e questa, quando la riaccompagni a casa, te invita su a casa sua a “prende ‘na cosa…” e tu je dici che nun poi fa’ tardi che la mattina dopo c’hai er saggio de judo.

Lukaku 7: straripante come Eddie Murphy in “Una poltrona per due”. Ha il merito de sblocca’ ‘na partita che se stava a complica’ un po’ troppo. Cinquanta sfumature di nero sul Bianco Natale.

Milinkovic-Savic 6: passa tutta la partita a

cerca’ de fa capi’ a Lotito quanti so’ 170 milioni.

Murgia 6,5: parte alla grande. Poi cala. Un po’ come la vita sessuale dell’uomo medio.

Parolo 6: nel primo tempo, gioca talmente male che pare un giocatore del Crotone al punto che, quando Inzaghi je chiede “Ah Marco, ma come cazzo stai a gioca’?” lui je risponde in calabrese. Nel secondo tempo, se sblocca come tutta la Lazio: se inventa un auto-tacco al volo e regala a Felipe la palla del quarto goal.

Luis Alberto 6,5: nella vita, due sono le cose certe: la morte e che Luis Alberto proverà a segna’ da calcio d’angolo almeno ‘na volta a partita.

Immobile 8: ci sono (attenzione spoiler) Ciro che stirano le zampe su Sky (fine spoiler) e ci sono Ciro che risorgono nel modo migliore, al momento giusto. Un assist, un goal e quel “ci tenevo a fare goal per la mia gente” che lo eleggono a nuovo idolo della tifoseria Laziale. Anche le nuove generazioni hanno il loro Beppe Signori. Chapeau! Anzi: Chireau!

Leiva 6,5: talmente affidabile e carismatico che se Brumotti fosse annato a San Basilio insieme a lui, ne sarebbe uscito indenne. E pure co’ ‘na pacca sulla spalla.

Lulic 8: entra in campo ed è subito 26 maggio. Devastante. Mette in testa ad Immobile il pallone per il raddoppio e poi realizza il terzo goal con un gioco di gambe che ricorda quello usato da Celentano quando cantava “Prisencolinensinainciusol”. All right.

Anderson 7,5: l’assist stratosferico (che lui rende normale) per Lulic, il goal del 4 a 0. La leggerezza con cui gioca a calcio andrebbe fatta studiare a danza.

Inzaghi 7: nel primo tempo la partita è arida e priva de emozioni come lo Scrooge de “Il Canto di Natale”. Nell’intervallo Inzaghi se traveste da “fantasma delle Lazio passate” e mostra ai suoi giocatori come se rompe er culo alle squadre de merda come er Crotone. I suoi ragazzi, commossi di fronte a quei ricordi indimenticabili, cambiano registro, annientando il Crotone e regalano ai tifosi un Natale indimenticabile.

Lo Stadio 10: fosse sempre così, l’arbitri farebbero meno gli stronzi. Per quanto fatto vedere, per il cuore che ci mette, per le palle che c’ha, per quanta Lazialità esprime, sta squadra meriterebbe sicuramente più presenze. Offerte promozionali a parte.

Special Guest per gli Amici romanisti che mi leggono di nascosto (birboncelli!)

Schick (pron. Scicche) 8: noi Laziali te capimo. In fondo, pure Caicedo a Torino s’è magnato un go’ solo soletto davanti ar portiere all’ultimo minuto. Peccato.

BUON NATALE LAZIO.

BUON NATALE LAZIALI.

ATALANTA-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 8: er Dottor House della Lazio. Tiene in vita la squadra con due interventi prodigiosi.

Bastos 4: al fallo de rigore me so’ vestito con un lenzuolo bianco, ho fatto du’ buchi alla fodera del cuscino, me la so’ infilata in testa. E me so’ iscritto alla sezione del Ku Klux Klan del Tennessee. Oggi me consegnano pure er cavallo bianco e la croce infuocata.

De Vrij 6,5: gioca’ co’ Bastos vicino è pericoloso come anda’ cor casco in motorino ai Quartieri Spagnoli.

Radu 6,5: quando nun c’arriva con il fisico, se la cava cor mestiere. Un po’ come Geppetto che co’ ‘na sega ha fatto un ragazzino.

Marusic 5,5: ieri viaggiava co’ quindici minuti de ritardo.

Leiva 6,5: Berisha con una parata plastica tipo “portiere de Subbuteo” je nega er go’ che avrebbe cambiato il match.

Parolo 6,5: indispensabile come er Tuttocittà pe’ un Pony Express negli anni ‘90.

Lulic 6: se fosse un album de De Andrè sarebbe “In direzione ostinata e contraria”. Che potrebbe essere anche il titolo della sua biografia.

Milinkovic-Savic 7,5: è talmente prepotente che la FIGC ha istituito il “Telefono Biancoazzurro”, un servizio d’assistenza per tutti i centrocampisti avversari vittima del bullismo del buon Sergej.

Luis Alberto 7,5: Odvaldo Soriano sosteneva che “Ci sono tre generi di calciatori. Quelli che vedono gli spazi liberi, gli stessi spazi che qualunque fesso può vedere dalla tribuna e li vedi e sei contento e ti senti soddisfatto quando la palla cade dove deve cadere. Poi ci sono quelli che all’improvviso ti fanno vedere uno spazio libero, uno spazio che tu stesso e forse gli altri avrebbero potuto vedere se avessero osservato attentamente. Quelli ti prendono di sorpresa. E poi ci sono quelli che creano un nuovo spazio dove non avrebbe dovuto esserci nessuno spazio. «Questi sono i profeti. I poeti del gioco».”. Luis Alberto appartiene, senza ombra di dubbio, alla terza categoria.

Caicedo 6,5: nun tira mai in porta. Ma tutto il resto lo fa bene. Un po’ come uno che se limita ar petting ma nun affonda il colpo.

Wallace 5: tra lui e er Papu ce stanno gli stessi centimetri de differenza che ce stanno tra Pippo Baudo e Pupo. In altezza e lunghezza. Ma tutto ciò nun je impedisce de fa’ ‘na cazzata che riapre vecchie ferite e a cui solo un prodigioso Strakosha mette ‘na pezza.

Anderson 6,5: bravino ‘sto ragazzetto riccio. Ma chi è?

Lukaku 6: entra in campo ma non in partita.

Inzaghi 10: “Mi farei espellere altre cento volte per questa maglia che amo da vent’anni”. Ecco. È tutto qui.

AVANTI LAZIO.

AVANTI LAZIALI.

LAZIO-CITTADELLA: LA MIA PARTITA

Dimolo subito. Nun esistono partite facili e partite inutili. Esistono partite più o meno stronze. E er primo turno de Coppa Italia rientra da sempre nel fitto elenco delle partite stronze. Quelle che se vinci hai fatto er tuo, come er marito co’ la moje dopo vent’anni de matrimonio. E se le perdi, vai incontro a ‘na figura de merda colossale. Tipo quando esci ai rigori co’ La Spezia, per dire. E ‘sto Lazio-Cittadella arriva proprio ner momento più difficile della stagione. In un periodo che la Legge de Murphy sulla Lazio fa più danni de quelli che potrebbe fa’ un pm de Rifondazione Comunista a Berlusconi.

E quindi, memore der detto “quando una cosa può andar male, ci andrà” te approcci a ‘sta partita co’ le chiappe strette come un etero al Mucca Assassina. Perché pure se er Cittadella viene qui senza pretese, er ricordo de quel Lazio Siena giocato sempre de dicembre e salvato in zona Cesarini da Ciani prima e da Carrizo poi è sempre vivo. E come dimenticare poi la prima volta che portasti tuo fratello allo Stadio? Un Lazio-Modena degli anni ‘90 quando Ruben Sosa era un idolo e Marco Ballotta, giovane (anzi, no, Marco Ballotta nun è mai stato giovane) portiere avversario si erse a baluardo insuperabile. 1-3. E vajelo a spiega’ a tu’ fratello che er calcio è bello. E tifa’ ancora de più. Vabbè.

Però la Lazio fa la Lazio. Quella che ce piace. Ciro, fascia al braccio e pepe al culo, è sempre on fire. E Giacomelli con quella spocchia de chi se crede stocazzo, appare finalmente lontano. Se poi ce mettemo pure er ritorno al goal de FeLucio “Battisti” Anderson. Se ce aggiungemo du’ passaggi filtranti de Lucas Leiva che valgono da soli er prezzo der bijetto. Se ce mettemo er piacere de incontra’ in Tribuna l’amici de sempre. E pure qualcuno de più. Beh. Se po’ afferma’ tranquillamente che Lazio-Cittadella è stata più de ‘na partita. È stato un inno alla gioia.

Co’ tanti saluti a Ludovico Van. E soprattutto a quer pezzo de merda de Giacomelli. Perché er Laziale non dimentica.

Er Laziale aspetta solo che je riattraversi la strada davanti.

Pe’ acciaccatte.

SAMPDORIA-LAZIO: LA MIA PARTITA

Sì, ok, Genova puzza de pesce, er mare inquinato, etc, etc. Però alla Sampdoria, dopo la vittoria ai rigori in Coppa Italia e quel 25 aprile del 2010 che ce liberò dar male, nun je se po’ vole’ male. Dai su. Perché quando semo tristi, uno mette gli highlights dei go’ de Pazzini. Pensi che potevi nasce romanista. E allora te rendi conto che la vita è bella. E va bene così. Senza parole. Come resti tu quando, ner momento più bello della partita, dopo un palo preso da Parolo e una costante spinta offensiva alla ricerca del vantaggio, Bastos e De Vrij vanno insieme addosso a Quagliarella manco fosse ‘na bella fica e lasciano solo soletto Zapata, noto rivoluzionario messicano, che porta in vantaggio la Samp. Uno a zero nel momento migliore dei tuoi. E visto che la Lazio viene da un paio de settimane in cui, secondo i dettami della Legge de Murphy, tutto quello che po’ anna’ storto, ce va. Anzi, ce VAR. Tu stai lì, sur divano, e pensi che pure oggi è annata. Perché la Samp in casa ha sempre vinto. Che due settimane fa ha schiantato la Juve. E che. E che. E che cazzo. Pure la Lazio però fuori casa ha sempre vinto. Pure la Lazio ha schiantato la Juve. Per ben due volte addirittura ner giro de pochi mesi. E allora eccola che torna la squadra che comoscevi. Ecco Milinkovic che domina er gioco manco fosse Dart Fener ner villaggio dei Puffi. Ecco Marusic che spigne sulla fascia come un treno de quelli che arrivavano in orario quando c’era lui. Ecco la mischia su ‘na punizione ed ecco la zampata de Sergej a dieci minuti dalla fine che rimette le cose in parità. Uno a uno. E Sergej che se guarda i compagni e je fa er gesto tipo “Annamo, va! Che se inculamo pure questi!”

E mentre la fortissima Samp arranca come Apollo Creed sotto i colpi de Ivan Drago, eccolo il momento definitivo. Quer momento in cui er Sergente decide de fa’ come je pare. Pesca in area de rigore con la precisione de Sampei la Pantera Nera. Che dopo ave’ chiesto a Immobile “Ce penz tu, Ciru’?!”, s’appropria der pallone vagante e regala i tre punti alla Lazio. E il VAR muto. Sto cazzo de VAR che pare ‘na socera che vole mette bocca su tutti quelli che so’ i cazzi della Lazio. ‘Na socera che però fa pippa quando se tratta de anna’ a rompe i cojoni a qualcun altro. E mentre Caicedo se concede una delle esultanze più belle della storia. Mentre Inzaghi s’abbraccia Leiva e Lulic come er soldato Ryan dopo che è stato salvato. Mentre i giocatori vanno a esulta’ sotto il magnifico settore ospiti. Capisci pe’ l’ennesima volta che sta squadra c’ha du’ palle così e che pe’ fermalla ce vole solo ‘na Vagonata de Acchitti Reiterati. In poche parole: VAR.

SAMPDORIA-LAZIO: LE MIE PAGELLE

Strakosha 6,5: il pugno con cui stende Ferrari vale il prezzo del biglietto. Per un match de Floyd Mayweather.

Bastos 5: spaesato come Troisi e Benigni a Frittole nel 1400 (quasi 1500). In questo periodo, fa più danni della neve a Roma sotto la giunta Alemanno.

De Vrij 6: partita quasi perfetta se non fosse per l’errore sul goal di Zapata in condivisione con Bastos. Ricorda Carlo Verdone durante il test di ammissione ne “I due carabinieri”: “Tutto giusto tranne questo Alberto Manzoni!”

Radu 7: co’ Bastos e Lulic se comporta come quell’amico tuo che te veniva sempre a salva’ dalle situazioni de merda un attimo prima de pija’ le pizze.

Marusic 7,5: sulla fascia pare uno uscito da ‘na puntata de Holly e Benji. Potrebbe corre pe’ ore, pe’ più de du’ puntate. E lo troveresti sempre fresco, asciutto e pettinato.

Lulic 5,5: sulla partita ha lo stesso effetto de ‘na fake news: sembra che c’entri qualcosa e invece fa solo tanta confusione.

Leiva 6,5: secondo i principi della teoria del caos, ogni volta che Lucas Leiva recupera un pallone, da qualche parte nel mondo, Luciano Ligabue comincia a canta’ “Una vita da mediano”.

Milinkovic-Savic 8: bullizza il temuto centrocampo della Samp con una prestazione in cui c’è tutto: esuberanza tecnica, prestanza fisica e fijodenamignotticità (che è la caratteristica principale che trasforma un ottimo giocatore in un fuoriclasse). Realizza il goal del pareggio con un tocco di rapina e poi inventa il passaggio geniale che porta al raddoppio. Nel mezzo, una serie di giocate che andrebbero usate per aggiornare le finte del prossimo FIFA.

Parolo 7: imposta, recupera palloni e sfiora il goal. In pratica, è come er Bimby. Fa un po’ tutto e lo fa bene.

Luis Alberto 6: si sta come i parabrezza/ delle auto/ in inverno/ la mattina presto. Appannato.

Immobile 6: c’ha talmente abituati bene che se nun segna pe’ du’ settimane de seguito telefonamo subito a “Chi l’ha visto?”

Patric 6,5: se la grinta avesse valore, Gabarron sarebbe l’omo più ricco del mondo.

Lukaku 6: meno decisivo di altre volte ma utile alla causa come una Ceres durante un falò a Ferragosto.

Caicedo 8: quello che il Var toglie, il Dio del Calcio restituisce. L’uomo più criticato del calciomercato Laziale si trasforma nella Provvidenza Manzoniana e regala tre meritatissimi punti ad una Lazio che non molla mai.

Inzaghi 7: nonostante la Lazio sia inversamente proporzionale al VAR, la sua squadra interpreta una partita da grande sul campo più difficile della serie A. Va sotto, rimonta e poi in evidente superiorità agonistica piazza il colpo del K.O. grazie a Caicedo. Quando sullo zero a zero, Giampaolo prova a vincere la partita, lui se gira verso la panchina doriana e je fa: “Fa er bravo, sennò te scateno l’omo nero!” Detto. Fatto. Se narra che er poro Giampaolo stia ancora a piagne.

AVANTI LAZIO

AVANTI LAZIALI

PENSO CHE UN DERBY COSÌ NON RITORNI MAI PIÙ

Piove su Roma.

Piove.

Incessantemente.

Ininterrottamente.

Lacrime di pioggia scendono scroscianti sulla città eterna.

E la bagnano. La puliscono. La purificano.

La preparano alla battaglia.

Oggi è l’11 novembre.

Dopo 5 anni dall’omicidio di Gabriele, ecco di nuovo una domenica.

Ecco il Derby.

Ecco Lazio contro Roma.

Gabriele Sandri non c’è più. Ucciso da un colpo di pistola criminale sparato dall’agente della Polizia Stradale, Luigi Spaccarotella.

La Lazio giocava in trasferta contro l’Inter quel giorno.

La sua trasferta si fermò nei pressi della Stazione di Servizio di Badia al Pino.

Gabriele Sandri non c’è più.

Fisicamente.

Ma resta nel cuore della sua famiglia. Di suo padre Giorgio, di sua madre Daniela e di suo fratello Cristiano.

Già, Cristiano, con cui Gabriele aveva un legame speciale.

Forte.

Un legame che un proiettile sparato in modo infame non può interrompere.

Se non in modo fisico.

Per questo, Cristiano chiama Gabriele il suo primogenito.

Per questo, Roma ha di nuovo un figlio che si chiama Gabriele.

E la Lazio ha un nuovo piccolo tifoso che si chiama Gabriele.

Quel bambino piccolo che Cristiano porterà allo Stadio nel pomeriggio per il suo primo Derby.

Per la celebrazione di un popolo nei confronti di un tifoso speciale.

Speciale e sfortunato.

Un volto e un sorriso diventati un’icona.

Il simbolo di un giorno che non dovrà mai più ripetersi.

E se su Roma piove.

Se la pioggia scende e bagna.

Se bagna e purifica.

Beh…

Forse non sono gocce normali.

Ma sono lacrime.

Le lacrime di una città…di un popolo…che piange e ricorda il proprio figlio.

Eh già.

Non è una semplice pioggia di novembre.

Arrivo allo Stadio intorno alle due. Ho evitato la prima parte del diluvio mattutino. Anzi. Un discreto Sole mi ha permesso anche di godermi una corsetta domenicale. Di quelle che non mi concedevo da un po’. Quasi otto chilometri.

Ma sono teso e il fisico non mi segue.

Poi, la velocità delle nuvole ha fatto il resto. Ha coperto il cielo. Gli ha cambiato colore. Lo ha incattivito.

Gli ha ricordato che giorno è oggi.

E lo ha fatto piangere.

Per preparare l’atmosfera.

Per preparare la città.

Alla battaglia.

Civile e sportiva.

Arrivo allo Stadio. Parcheggio la moto al solito posto. Di fronte al ministero degli Esteri. Mi rendo conto di essermi dimenticato il copri casco.

Cazzo.

Verrà giù il mondo, hanno detto.

Il mio casco, legato al disco anteriore, raccoglierà millimetri di acqua. Ma lo interpreto come l’ennesimo fioretto che faccio per strappare un risultato positivo.

Sto perdendo il conto. Delle scaramanzie fatte.

Basteranno?

Lo scopriremo solo vincendo.

Mi avvio verso la mia Tribuna Tevere.

In silenzio. E ripenso.

Ripenso al Derby dell’anno prima. Quello di Miro Klose all’ultimo secondo. Ripenso a chi era con me lo scorso anno e ora non c’è più. Perché ha scelto un’altra strada.

E allora mi avvio solo. In mezzo a tanta gente.

Ma poi mi guardo intorno, vedo negli altri tifosi, il mio stesso sguardo, la mia stessa carica, la mia stessa passione e mi rendo conto che, solo, in fondo, non lo sono stato mai. E non lo sarò mai.

Finché ci sarà la Lazio accanto a me.

Metto in testa il cappello celeste. Lo stesso dello scorso anno. Tiro fuori il documento e l’abbonamento e entro.

Cerco la bancarella che vende “La voce della Nord” ma non la trovo.

Ripenso all’ultima volta che ho comprato la fanzine degli Irriducibili.

Lazio Milan 3 a 2.

Una vittoria netta con tanta sofferenza finale.

Ma comunque una gran vittoria.

E allora ecco l’ultima di tante scaramanzie.

Torno indietro.

Perché un flash visivo mi aveva fatto notare la bancarella fuori dai cancelli e non dentro.

Percorro la strada contromano.

Mentre tutti entrano, io esco.

In fondo, è una vita che vado contromano e sento il vento in faccia.

Che mi fa sentire vivo.

Sempre.

Supero i carabinieri.

Chiedo allo Steward di bloccare la gente in entrata per farmi uscire.

Esco. Vedo la bancarella. Compro.

Vini. Vidi. Comprai.

E rientrai.

Percorro i trecento metri che vanno dai tornelli all’ingresso della Tevere.

Arrivo ai cancelli.

Mi metto in fila. Nel solito cordolo. Anche se gli altri sono più vuoti.

Mi autoassegno la legge di Murphy.

Mi guardo intorno.

Tanta gente intorno a me.

Io lo so che non sono solo.

Anche quando sono solo.

Salgo le scale. Quelle che portano all’ingresso. Allo scavallamento di tutti i sogni e di tutte le aspettative che solo un Derby può dare.

E che solo un Derby sa dare.

Vado al mio posto. Il mio solito posto. Quello che resterebbe libero anche se arrivassi due secondi prima dell’inizio della partita. Seggiolino 12d.

Guardo la nostra splendida curva che ha in programma una coreografia speciale per Gabriele.

Guardo gli ospiti.

Ospiti oggi.

Ospiti da sempre.

Nonostante il nome che portano.

Ma è quel “La” all’inizio che svela l’inghippo.

Un inghippo nato nel 1927 per volere di qualcuno che voleva regalare una squadra da tifare a chi emigrava a Roma. E che voleva sentirsi subito romano. Senza esserlo.

Saluto i compagni di ogni domenica.

Le signore del “Bruno Giordano Fans Club”, il signore e la moglie, Fausto, Marco e Franco. E tutti gli altri. Tutti presenti. Come ogni domenica. Come sempre.

Appoggio lo zaino. E scendo a prendere un caffè. Ci vuole.

Incontro i soliti volti.

Gente incontrata a Londra, ad Atene.

Lo Stadio, in fondo, è una parentesi dove ci si ritrova amici senza frequentarsi mai.

Che cancella le differenze di età. Che ti rende eterno e sempre in voga. Che crea legami.

Che ti fa stare bene e che ti permette di non pensare ai problemi che nascono fuori da quei cancelli verdi.

Ti protegge da tutto.

Come la placenta per il neonato.

Solo che i nove mesi, lasciano spazio ai 90 minuti.

Di uguale, c’è solo il Travaglio.

Torno in postazione.

Sono nervoso. Più che mai.

Anche se le due vittorie dello scorso anno, ci hanno ridato fiato.

Mi isolo.

Abbasso lo sguardo. Prendo “la Voce della Nord”.

Ma poi sento il boato e capisco che stanno entrando per il riscaldamento.

Marchetti è sempre il primo.

Entra correndo e saluta.

Deve essere bello avere una curva che applaude solo te.

Applaudo e il sangue comincia a sciogliersi.

A tornare in circolo.

A riprendersi il mio corpo.

Passa qualche minuto ed entra il resto della squadra.

Ledesma guida il Gruppo. Capitano dentro. Non gli serve la fascia per essere un leader. Vero. Testa fredda e cuore caldo.

E poi tutti gli altri.

Tutti carichi.

Stefano, Miro, Senad, Alvaro, Abdoullay, Andre, Giuseppe, il Profeta, Antonio.

Tutti bellissimi nel completo celeste e nei pantaloncini bianchi.

La Nord è carica a pallettoni.

Si riscaldano loro, ci riscaldiamo noi.

Loro i muscoli, noi le corde vocali.

Poi, entra la Roma. La As Roma.

Ma non sono in undici. Sono tutti i convocati a scaldarsi. Segno che il Boemo vuole confondere le idee.

Molto Strano per uno che non cambia atteggiamento tattico da vent’anni.

Ripenso a Zeman e mi passa la mia vita da tifoso davanti.

E i miei pensieri si ritrovano davanti ad un bivio:

Sarà lo Zeman dei quattro derby su quattro romanisti…che poi sarebbe lo stesso del nostro 0 a 3 contro la Roma di Mazzone…spavaldo e presuntuoso…o sarà quello che permette ai suoi giocatori di autogestirsi per salvare la faccia? Quello del 2 a 0 con goal di Signori e Casiraghi o quello del 3 a 1 per la Roma e del “vi ho purgato ancora”?

Mentre la mia mente viaggia nei miei corsi e ricorsi storici e i giocatori terminano il riscaldamento, sui monitor parte un video prepartita.

E mi blocco. A livello emotivo.

La base è inconfondibile ed emozionante.

La voce è roca. E ci ha regalato emozioni infinite.

Tracce di vita, ricordi di falò estivi, pomiciate in spiaggia e cori a squarciagola sul pullman della gita scolastica.

Le immagini ci mostrano Giorgio Chinaglia e Tommaso Maestrelli, Miro Klose e Beppe Signori.

Mostriamo le sciarpe. Bellissime. Che trasformano lo Stadio in cielo. Un cielo sereno e bianco celeste. Al contrario di quello vero. Grigio. Chiuso. E vendicativo.

Piove. A dirotto.

Mentre Lucio, da lassù, ci chiede che anno è…che giorno è…

E tutto lo stadio bianco celeste gli risponde che “è il tempo di vincere con te”.

Lazio mia.

Le squadre rientrano negli spogliatoi mentre lo speaker annuncia le formazioni.

Zeman rinuncia a Castan e al Taxi greco e preferisce Goicoechea a Stekelemburg.

E se la gioca così:

Goicoechea, Piris, Balzaretti, Marquinhos e Burdisso, Bradley, De Rossi e Florenzi, Lamela, Totti e Osvaldo.

Il Colonnello Petkovic, uno che parla cinque lingue, che non fa mai polemiche, che ti guarda negli occhi e ti convince che puoi e devi farcela, va avanti per la sua strada e presenta la sua Lazio migliore. Senza dubbi.

Marchetti tra i pali

Konko a destra.

Lulic a spingere a sinistra.

Biava e Dias come Bud Spencer e Terence Hill.

Non passate, altrimenti ci arrabbiamo.

Ledesma a bloccare la mediana e a cercare lanci lunghi nelle praterie Zemaniane.

Gonzales a fargli da fido scudiero. Come Kit Carson con Tex Willer.

Hernanes libero di portare il suo verbo a spasso per il Prato verde.

Mauri a cercare gli inserimenti giusti.

Candreva è l’assaltatore cambiare passo al centrocampo con la sua corsa e le sue folate.

E Klose.

Che è come la pubblicità di quel cofanetto di caramelle di tanti anni fa.

Basta la parola.

Klose.

E li vedi già tutti impauriti al solo pensiero di vederlo esultare di nuovo.

Klose.

E sai già che stai con un goal di vantaggio.

Klose.

E s’abbracciamo.

Come lo scorso anno.

Poi, però, dieci minuti prima dell’inizio del match, tutto si ferma. E diventa emozione.

Le gocce di pioggia diventano lacrime.

Entra in campo, accompagnato dal presidente Lotito e da Fabrizio “Diabolik”, Cristiano Sandri, che porta in braccio il suo piccolo Gabriele, splendido e puro nei suoi 3 anni.

Il numero 3.

Vorrà dire pur qualcosa.

L’ombrello bianco celeste li ripara dalla pioggia e Cristiano va sotto quella curva che tante volte con il fratello, lo ha visto protagonista.

Quante volte Cristiano avrà sognato di andare sotto la curva ad un Derby. Quante volte.

La vita, infame e bastarda, glielo ha concesso per il motivo più assurdo che c’è.

Piove.

E Cristiano sorride e piange. Mentre guarda il suo Gabriele in braccio e pensa a Gabbo che non c’è più.

Applaudito da 50000 spettatori. Senza distinzioni di colori, stavolta. Almeno per una volta.

“Un’Ultras non dimentica. Gabriele per sempre con noi”

Lo striscione che gli riserva la Curva Nord è un atto di fede. Un marchio di fuoco. Un tatuaggio indelebile.

Cristiano applaude e ringrazia tutti.

Il piccolo Gabriele capirà tra qualche anno.

Quando conoscerà il significato di queste due semplici parole.

“Meravigliosa Creatura”

Sono le tre. Ma di lacrime ne ho già versate abbastanza.

Troppa emotività.

Eh già, sto diventando vecchio.

E mi rendo conto che il cinismo e l’ironia che mi fanno da scudo nella vita, spariscono davanti a quel campo verde, a quei colori e a quei giocatori.

Sono le tre. Ancora le tre.

I giocatori salgono le scale che portano dagli spogliatoi al campo.

I tifosi avversari vorrebbero farci salire altri scalini. Di altri edifici. Soprattutto a Stefano Mauri. Che l’anno scorso, nel derby di ritorno, ha fatto la giocata giusta e li ha mandati a casa.

E proprio Mauri guida la truppa biancoazzurra in campo. Testa alta e Petko in fuori.

Totti, in dubbio come al solito prima di ogni Derby, è il Re giallorosso. Con tutto quello che ne consegue.

Mentre le squadre si preparano, scende maestosa, per l’ennesima volta, la bellissima coreografia della Nord.

Non servono rime, slogan o versi di canzoni, stavolta.

Non serve provocare l’avversario. Ricordargli la propria inferiorità storica.

No.

Bastano quel volto sorridente. Quel sorriso. Quegli occhiali da Sole.

Per squarciare il cielo e renderlo bianco celeste per un attimo.

Basta il volto di Gabriele. Fiero, sorridente e laziale.

Per ricordarsi che l’11 novembre è data nostra.

Purtroppo.

Gli altri. Quelli dell’altro reparto. Non hanno scampo. Lo sanno anche loro.

E così, quando dopo 4 minuti, Lamela spinge Lulic e si fionda di testa sul calcio d’angolo calciato da Francesco Totti e porta la Roma in vantaggio, ai più sembra un film già visto.

Lamela esulta. La Curva Sud esulta.

Io mi rilasso. Il più è fatto. Ormai è andata.

Mi guardo intorno. Cerco sguardi di incoraggiamento ma non ne trovo nemmeno uno.

Si. Ok. Le Date. Il Destino. Tutto bello. Ora. Tutto con il senno di poi. Ma al prima e al durante?

Chi ci pensa?

E il durante mostra una Roma che si finge sicura. Un Totti giovanile. Un Lamela maturo. Al contrario di quello che hanno mostrato finora con tutte quelle rimonte subite.

Poi. Però.

Poi nelle nuvole che sommergono Roma, compare lo Stellone.

Quello di sempre. Che ci accompagna da 112 anni. Quello del goal di Fiorini, del diluvio di Perugia, del goal di Behrami, del goal di Firmani, del goal di Klose.

Quello che rende la Lazio, un romanzo popolare e aristocratico allo stesso tempo.

E non una semplice squadra di pallone.

E allora prima lo Stadio si spegne completamente. O quasi.

Lasciandoci nel buio dei nostri pensieri.

Roma Nord è sotto il diluvio universale.

Noè avrebbe paura ad uscire di casa.

Io penso al Tavolino. Alla loro vittoria su ricorso a Cagliari. E penso che un derby a tavolino non lo voglio perdere.

A Subbuteo, pure pure.

Ma a tavolino, no.

E allora, dopo un paio di minuti interminabili, l’arbitro decide che si può proseguire.

Le luci piano piano si riaccendono.

La Luce in campo comincia a illuminare.

Ha la maglia bianco celeste e il numero 8 sulle spalle. Si chiama Anderson Hernanes de Carvalho Viana Lima. Ma per noi è semplicemente “Il Profeta”.

E ha classe, fisico e visione. Di ciò che accadrà.

Prende in mano la squadra e comincia a dipingere calcio. Come pochi.

Per lui il campo non è bagnato.

Lui cammina sulle acque.

E allora, Hernanes si procura una punizione a trenta metri dalla porta difesa da Goicoechea.

Hernanes ne ha spedita, poco prima, una alle stelle mentre penso che basta farla schizzare per terra per sfruttare il campo bagnato.

Oppure basterebbe tirare un siluro dritto per dritto per piegare le mani al portiere avversario.

Candreva si collega in Bluetooth con il mio cervello e sceglie la seconda opzione di quelle che gli ho messo a disposizione.

La botta è terrificante.

Dritta per dritta.

Centrale.

Goicoc’è.

Penso.

No.

Goicoc’era.

E la rete si gonfia.

Io non capisco subito.

Ho un ritardo di qualche decimo su ciò che avviene in campo. Sto in differita pur stando dal vivo.

Schizofrenia da tifoso.

Ma poi vedo la rete che si gonfia.

E Candreva, nuova aquila battezzata in quella notte magica dedicata a Giorgio Chinaglia, si fa mezzo campo per crollare in ginocchio come Willem Defoe nella locandina di Platoon.

Mentre la pioggia continua a scendere e a purificare.

Mentre Zeman, ripensando ai suoi schemi da giocare solo su un tavolo da biliardo, mastica amaro e pensa:

“Chi fermerà la pioggia?”

Uno pari.

E allora palla al centro.

La tensione sale. Perché dallo sprofondo giallorosso in cui ero entrato, ora emerge la speranza. La consapevolezza che siamo di nuovo in partita. E che siamo più forti.

Perché questa è l’unica certezza che ho e che li manda ai matti.

Siamo più forti.

Lo dice la classifica.

Lo dice la storia degli ultimi due campionati.

Ma non basta.

Siamo uno pari.

Palla al centro.

Via.

Il campo si mostra schizofrenico.

Pesante sotto la Monte Mario. Ai limiti della praticabilità.

Mentre sotto la Tevere il pallone schizza e scivola via.

Dottor Jekill e mister Hyde Park.

E arriviamo al 43esimo.

Ledesma mette una punizione in mezzo. La difesa della Roma respinge. Ma la palla finisce, per loro, nel posto sbagliato.

Tra i piedi di Hernanes.

Che irride Lamela e se ne va. Scherzando.

Con la leggerezza dei grandi. E la falcata degli Dei.

Arriva al limite dell’area di rigore. Bradley prova a chiuderlo. Ma lui tira. In porta.

La palla viaggia spedita ma poi si ricorda che solo il Profeta può camminare sulle acque.

La palla no. Non è divina.

E allora incontra un pozzanghera e si ferma. Per non mostrarsi blasfema.

Klose è da quelle parti non per caso. Perché lui, lì, ci vive. Tra le linee di difesa avversarie.

Alla ricerca di palle vaganti da accudire e spedire in porta.

L’uno due con cui Miro controlla con il destro e segna con il sinistro è degno del gioco delle tre carte.

Ora c’è. Goicoc’è. Goiconc’èpiù.

E noi esplodiamo. E ci abbracciamo. Ed esultiamo. E non ci crediamo nemmeno noi. A tanta bellezza.

Klose mostra il suo indice e pollice uniti.

“Ok, il goal è giusto” sembra dire.

E il suo nome scandito dai 35mila laziali entra nelle ossa dei 15mila romanisti e non lascia più.

Un’osmosi emotiva al contrario che rimette in circolo i loro vecchi fantasmi. E che ci fa fare voli pindarici.

Ma è ancora tutto da giocare, penso.

Mentre guardo la pioggia scendere incessante.

Mentre vedo Mauri agonizzante.

E mentre vedo Capitan Futuro andare sotto la doccia in anticipo per un pugno vile e senza senso.

2 a 1 per noi. Un uomo in più. E il primo tempo che finisce tra gli applausi.

Ora si che me la sto facendo sotto.

Perché, ora, noi, abbiamo tutto da perdere.

Loro no.

Hanno già perso tutto.

Di peggio non può succedergli.

Mi provo a rilassare ma non ci riesco.

Passa Mimmo, che avevo aiutato a Londra prima di Tottenham Lazio, a rintracciargli il figlio che si era perso, e mi dice:

“Annamose a fa’ ‘na birra…”

Accetto.

In trance.

Faccio la cosa giusta?

Mah si…ci vuole una birra.

Scendiamo le scale.

Offre lui.

In fondo, gli ho recuperato il figlio prestandogli il mio cellulare in terra straniera.

Gli confido le mie speranze e le mie paure.

“Ora dobbiamo restare calmi e aspettare…e fargli il terzo goal nei primi dieci minuti…così li ammazziamo definitivamente…”

Lui conviene con me. E con me viene di nuovo ai nostri posti.

Mentre la Roma rientra in campo e ci aspetta.

Avranno visto la puntata di “Sfide” di un paio di settimane fa. Penso.

Quella sulla Lazio di Maestrelli e Chinaglia.

Ma questa non è Lazio Verona.

E Totti non è, e non sarà mai, Giorgio Chinaglia.

Il Boemo toglie Lamela, il più in forma dei suoi, e mette il Taxi greco a dirigere il gioco.

Sono stato ad Atene qualche giorno fa e ho preso un paio di volte il taxi.

Ora…se prendi un taxi greco e lo metti in mezzo al traffico romano, questo si blocca. Perché non è abituato a Roma e ai romani. E alla quantità di macchine che puoi incontrare per strada.

Questa è la fine che farà Tachsidis. Ma prima che se ne possa accorgere, Ledesma lancia in area di rigore. La palla va da una parte, però, e Mauri dall’altra.

Però.

Il bello della Roma di Zeman è che c’è sempre un però. E la maggior parte delle volte, è a suo sfavore.

Il “però” di questa domenica, e di molte altre domeniche giallorosse di quest’anno, si chiama Piris.

Che interviene sbilenco. Come farebbe un giocatore di curling prestato al calcio.

E la palla finisce perfetta sui piedi di Stefano Mauri.

Che prima la stoppa. Poi se la mette sul destro. Poi spara imparabile alle spalle di Goicocestava.

3 a 1.

Dopo due minuti.

All’intervallo avevo chiesto un goal nei primi dieci per chiudere il match.

Sono stato accontentato.

Ma non ci penso a questa autoprofezia, mentre volo per la Tevere abbracciando e baciando chi mi capita a tiro.

No, non ci penso mentre Mauri fa l’ennesima giocata giusta della sua sottovalutata carriera di trequartista incursore.

Vola Stefano sotto la Nord.

A prendersi l’abbraccio dei suo tifosi.

Mentre Zeman fuma silenzioso in panchina, sotto la pioggia e ripensa ad Agosto, a quando tutto sembrava così bello, lanciato verso l’ennesimo scudetto estivo.

Mentre ora piove e “Agosto è ancora nei miei sensi”

Chissà cosa ne pensi, eh Boemo?

3 a 1.

E l’ennesima palla al centro.

Ora li ammazziamo, penso.

Non voglio prigionieri.

Ma la Lazio è ancora una squadra femmina. Va vicina al quattro a uno più volte. Ma cincischia e si piace troppo. E lascia campo ad una Roma disperata.

A venti minuti dalla fine, Zeman richiama in panchina Totti.

Capitano di mille battaglie. Spesso perse.

Se lui è l’uomo dei record. Lo è anche per quello dei Derby persi. Sono 13.

Diventeranno 14?

Me lo chiedo, mentre mi ritrovo ad applaudirlo mentre esce.

Mi osservo dall’esterno e mi rivedo nel generale tedesco di “Fuga per la Vittoria”…quello che, talmente malato di calcio, applaude il goal in rovesciata del prigioniero Pelé.

Non che io sia innamorato di Totti, sia chiaro. Ma, in fondo, con lui ci sono cresciuto.

Siamo diventati uomini insieme.

Quando iniziò a giocare facevo il quinto superiore. Ora ho quasi quarant’anni.

È stato il mio miglior nemico.

Per questo lo applaudo.

E non me ne vergogno.

Poi però si torna a giocare.

La partita è incanalata bene.

La Lazio non la chiude ma la Roma cozza contro la nostra difesa.

Io controllo distratto il cronometro sui cartelloni pubblicitari.

Mancano 5 minuti.

Solo 5. Più recupero.

Quando.

Se la Roma di Zeman ha sempre un “però”…la Lazio ha sempre un “te pareva”.

E il “Te Pareva” laziale di questa settimana ha le fattezze del braccio di Stefano Mauri.

Punizione sulla trequarti.

Secondo giallo a Mauri.

Espulsione.

“Te pareva”

Punizione per la Roma.

Pjanic, subentrato a Totti, vede Marchetti fuori dai pali.

Tiro.

Goal.

“Te pareva”

Marchetti sorpreso.

La Sud esplode e ci crede.

“Te pareva”

Penso mentre sto per collassare.

Impreco il signore e gli chiedo perché non mi ha fatto tifoso della Juve Stabia, della Triestina, del Carbonia.

Guardo l’orologio e vedo che mancano cinque minuti.

Più almeno quattro di recupero.

Nove minuti in tutto.

“Te pareva”

Lo penso io.

Lo pensano altri 34999 laziali allo stadio come me.

Mentre i romanisti riprendono fiato e dignità e ci credono.

Al miracolo.

I minuti scorrono lentissimi. Sembra quasi abbiamo rimesso l’ora legale e abbiano spostato le lancette indietro di un’ora.

Quattro minuti di recupero. CVD.

Io non parlo più.

Impreco dentro di me.

Mentre, con l’occhio alla Marotta, guardo contemporaneamente il cronometro sul tabellone e la partita in campo.

Quando.

Manca un minuto.

“Te pareva”

La Roma riparte.

“Te pareva”

Dalla destra parte un cross lunghissimo.

“Te pareva”

La difesa della Lazio va a vuoto.

“Te pareva”

Arriva Osvaldo.

“Te pareva”

Ci arriva Osvaldo.

“Te pareva.”

A botta sicura.

“Te parevaaaaaaaaa…..”

Fuori.

“Ma annatevelatuttiquantiapianderculo…”

Crollo sul seggiolino, più inebetito del solito.

Lo Stellone si è riacceso al momento giusto.

E spinge fuori il pallone dell’Italoargentino.

Mancano pochi secondi.

La pioggia non ha mai smesso di scendere.

La panchina laziale si alza in piedi. Pronta a festeggiare.

Io guardo fisso l’arbitro.

Lo vedo mettersi il fischietto in bocca.

Lo vedo gonfiare le guance.

Lo sento fischiare la fine.

Tre fischi.

Come quelli che abbiamo dato alla Roma.

Tre come le dita mostrate dal piccolo Gabriele Sandri a Osvaldo che gli chiedeva quanti anni avesse.

Tre come i Derby consecutivi vinti.

Tre.

E lo Stadio Biancoazzurro esplode finalmente e ancora.

Mentre quello romanista scivola via.

Lontano.

Furioso per l’ennesima rimonta subita, per l’ennesimo derby perso, per il gesto criminale di De Rossi.

E mentre su Roma continua a piovere in modo incessante.

E mentre noi ci abbracciamo e cantiamo, mi rendo conto che in un pomeriggio così buio e tetro, a tratti senza luce, gli occhiali da sole di Gabriele Sandri immortalati nella coreografia ci stanno proprio bene.

E hanno il loro significato.

Perché il nostro Sole non lo dobbiamo cercare tra le nuvole.

Ma solo e sempre dentro di Noi.

E Gabbo, con il suo sorriso immortale e con i suoi occhiali da Sole ci ha insegnato, oggi più che mai, che, anche nel peggior diluvio, si può nascondere il Sole più bello.

Puro e bellissimo come i suoi 3 anni.

E oggi a Roma, diluvia solo per una tifoseria.

Ciao Gabbo.

Questa vittoria è tutta tua.

E per il tuo splendido nipotino.